4. La linea della trattativa

Documento aggiornato al 27/12/2004
Come si è detto, la proposta che prese corpo al congresso del PSI fu quella di saggiare le reali intenzioni delle BR circa la sorte dell'onorevole Moro. Di fronte all'avvocato Guiso che si dichiarava in grado di accertare gli intendimenti delle BR e di esplorare le possibili vie per la liberazione dell'onorevole Moro, il PSI non poteva che manifestare il suo interesse e la sua- disponibilità a favorire questo tentativo, senza che ciò provocasse di 157

per sé reazioni negative. Infatti, l'azione dell'avvocato Guiso non fu in alcun modo intralciata ma, come già riferito, favorita con la concessione di numerosi colloqui anche con detenuti che, come Curcio, non erano suoi difesi.
Peraltro i risultati dell'iniziativa di Guiso furono del tutto deludenti, anche se il professionista cercò in ogni modo di accreditarsi come autorevole intermediario. In realtà, egli non godeva affatto di personale prestigio nei confronti dei capi BR, peraltro Curcio ed i suoi compagni non erano assolutamente interessati ad una trattativa che non avesse come base lo scambio dell'onorevole Moro con i brigatisti detenuti. Da tempo i brigatisti in carcere rimproveravano ai nuovi capi delle BR di non fare nulla di concreto per la loro liberazione. Dopo il fallimento dei progetti di evasione appoggiati dall'esterno le critiche si erano fatte sempre più aspre e, proprio al fine di placarle, era stato assicurato ai detenuti che presto sarebbe stata compiuta un'azione clamorosa diretta a tal fine.
I brigatisti in carcere avevano vissuto, fino al 16 marzo, nell'attesa, venata di scetticismo, per un evento che avrebbe potuto finalmente dischiudere loro le porte del carcere.
Né, d'altra parte, i contatti con l'esterno erano possibili, giacché proprio in quei giorni i brigatisti ritennero di non avvalersi dei canali tradizionali, costituiti dai familiari, per il timore che le forze dell'ordine fossero impegnate a seguire i movimenti di chi accedeva al carcere in visita ai brigatisti prigionieri. Tanto che si giunse perfino al rifiuto dei "colloqui".
Buonavita, che agli incontri con Guiso partecipò, ha raccontato di essere stato, alcuni mesi prima di via Fani, dissuaso da Curcio dal mettere in atto un tentativo di evasione proprio perché l'organizzazione avrebbe presto fatto qualcosa di grosso per porre la questione dei prigionieri.
Buonavita ha detto che i reclusi erano dell'opinione che il problema andasse posto in modo generico, parlando di prigionieri politici senza fare nomi, sia per evitare ripercussioni negative tra gli eventuali esclusi, sia perché lo stesso riconoscimento dell'esistenza in Italia di prigionieri politici avrebbe costituito un successo rilevantissimo. Durante i colloqui con Guiso essi non potevano che allinearsi sulla posizione ufficiale delle BR con le quali, peraltro, in quel periodo non potevano avere contatti per le ragioni suesposte. Inoltre essi non si ritenevano abilitati a condurre alcuna trattativa che competeva agli autori del sequestro. Gli obiettivi che, comunque, essi ritenevano dovessero raggiungersi erano la disarticolazione dello Stato e la liberazione dei prigionieri.
A suo avviso, poi, dal momento in cui avessero reso pubblico l'elenco dei brigatisti da liberare, non vi era più possibilità di trattativa per condizioni meno onerose. Raffrontando il gruppo dirigente delle BR nel 1978 con il vecchio gruppo storico, Buonavita ha detto che "la sensibilità politica dei dirigenti (del 1978) era diversa e si dava molto più peso al carattere militare dello scontro e molto meno peso alla politica, alle contraddizioni che si potevano aprire".
Infine, Buonavita ha escluso che sia Curcio, sia gli altri brigatisti reclusi fossero contrari all'uccisione di Moro, essendo convinti tutti che la sorte del prigioniero dovesse dipendere dalle possibilità che si fossero aperte di disarticolazione dello Stato e di liberazione dei prigionieri.
Il gruppo dirigente del PSI, che certamente si sentiva impegnato a fare il possibile per salvare la vita di Moro, ma che ugualmente riconosceva l'impercorribilità della via dello scambio cosi come veniva concepito dai brigatisti prigionieri, si rese ben presto conto dell'inidoneità di Guiso a trovare una via d'uscita concreta.
L'onorevole Signorile ha dichiarato alla Commissione: "Sulla base di quanto diceva Guiso ci formammo l'opinione che Curcio ci dava - uso questo termine improprio - una indiretta consulenza nel senso di interpretare o capire le cose che venivano fuori, senza però che fosse in grado di darci alcun segnale concreto con cui farci orientare. Questa era la nostra convinzione".
Si pensò quindi alla possibilità di avvalersi di altri intermediari capaci di giungere, direttamente o indirettamente, ai detentori dell'onorevole Moro senza più utilizzare i detenuti.
La tesi del PSI era che uno Stato democratico ha, innanzitutto, il dovere di salvaguardare la vita di ogni cittadino e che, quindi, ogni strada andasse esplorata ed ogni tentativo messo in atto, anche a costo di operare qualche modesto "strappo" alla legalità pur di giungere allo scopo.
Ha detto l'onorevole Craxi alla Commissione: "Gli Stati forti trattano; gli Stati deboli si arroccano". Ed ancora: "La nostra posizione, almeno la mia, è sempre stata quella che scontava una non grave lacerazione del tessuto giuridico, escludeva una grave lacerazione". Ma l'onorevole Craxi ha anche riconosciuto di essere stato nel suo intimo convinto che per raggiungere lo scopo che egli si proponeva sarebbe stato necessario andare oltre: "Di fronte ad un'opinione pubblica e ad uno schieramento di partiti tutto contrario - egli ha detto - non è che noi potevamo dire: occorre una grave lacerazione nel tessuto giuridico per poter arrivare ad un compromesso e ad una concessione. No; bisognava dire: occorre che non si facciano gravi lacerazioni nel tessuto giuridico. Perché, diversamente, non si poteva raggiungere lo scopo".
La posizione socialista faceva riferimento ai precedenti che in Italia si erano registrati con la liberazione di guerriglieri palestinesi, rilasciati benché responsabili di gravissimi reati, nonché ai precedenti verificatisi in altri paesi, anche se l'accostamento risultava improprio, giacché in nessuno dei casi citati l'attacco era stato proprio rivolto alle istituzioni democratiche allo scopo di sovvertirle.
I dirigenti socialisti, peraltro, non negavano il pericolo che si potesse così diffondere la pratica dei sequestri di persona, ma ritenevano che tra un pericolo potenziale e lontano e quello concreto ed immediato, si dovesse intanto fronteggiare il secondo ' prima che fosse troppo tardi.
L'azione del PSI trovava naturalmente il consenso e l'incoraggiamento dei familiari dell'onorevole Moro e dei loro più intimi amici, i quali - ed è del tutto comprensibile - ponevano la sorte del loro caro al centro di ogni valutazione. Consenso alla posizione socialista fu espresso anche da gruppi di intellettuali e da un movimento di cui si fece portatore, in particolare, il quotidiano "Lotta Continua". Per contro, anche all'interno del PSI si levavano voci, tra le quali quella autorevolissima dell'onorevole Sandro Pertini, preoccupato per gli sbocchi, ai quali avrebbe potuto portare, se realizzata, una trattativa con le BR o, comunque, l'abbandono di una posizione di fermezza.
La Commissione ha chiesto all'onorevole Signorile se esistessero anche interessi di carattere partitico, anche in relazione ad un'intervista da lui concessa ad un settimanale (1) secondo la quale la posizione assunta dal PSI "fu al tempo stesso istintiva e meditata; andando contro corrente nel caso Moro, non solo compivamo una azione sacrosanta, ma potevamo costruire in tempi brevissimi una immagine autonoma del partito come era nelle nostre intenzioni. Speravamo anche nella conquista di un certo spazio politico".
L'onorevole Signorile ha chiarito di avere inteso dire che i dirigenti del PSI, pur essendosi posti il problema del proprio isolamento rispetto alle altre forze della maggioranza, convennero di non doversene preoccupare non considerandolo dannoso.
Ad incoraggiare i dirigenti del PSI nella insistente ricerca di una contropartita accettabile per le BR e non eccessivamente onerosa per lo Stato, furono certamente i colloqui che essi intrattennero con Lanfranco Pace e Franco Piperno. Attraverso tali personaggi, i dirigenti del PSI ritenevano di poter fare pervenire i loro messaggi ai detentori dell'onorevole Moro. Lo dice la segretezza che avvolse tali iniziative, delle quali la magistratura fu informata molto tempo dopo e solo al momento dell'incriminazione di Pace e Piperno; lo dice, soprattutto ed inequivocabilmente, il fatto che a Pace fosse affidata la ricordata frase in codice ("misura per misura") che avrebbe dovuto essere inserita in una lettera autografa di Moro per ricavarne la prova della sua esistenza in vita.
E che Piperno e Pace abbiano incoraggiato i socialisti nel loro convincimento che fosse possibile trovare un'intesa con le BR per la salvezza di Moro, è ugualmente incontrovertibile, anche se entrambi precisarono che solo un'iniziativa della DC, che significasse un riconoscimento delle BR da parte dello Stato, avrebbe potuto aver successo.
Non si può certo far carico ai dirigenti del PSI della distorta visione della realtà loro offerta da Piperno e Pace. I socialisti non potevano infatti sapere che i due erano si in contatto con le BR, ma soltanto con quella parte della colonna romana, risultata minoritaria, che stava conducendo una battaglia politica tendente a dimostrare che per la lotta armata era più conveniente il rilascio che l'assassinio dell'onorevole Moro. Pace e Piperno mantennero, infatti, come è naturale, un atteggiamento estremamente ambiguo, negando, nei loro colloqui con i dirigenti del PSI, ogni loro rapporto diretto con le BR, facendo discendere le loro opinioni sui possibili sbocchi non da una "conoscenza" della situazione, ma da loro "analisi".
E tuttavia, se la frase in codice doveva uscire dalla prigione dell'onorevole Moro, doveva necessariamente prima arrivarci. E Pace, anche se ritenne la cosa difficile, non rifiutò l'incarico, affidatogli dall'onorevole Craxi, di far pervenire il messaggio ai brigatisti.
La cautela e l'evasività di Pace giunsero persino a far dubitare l'onorevole Craxi di avere trovato l'uomo giusto, tant'è che egli se ne lamentò con il senatore Landolfi, il quale però, di fronte alla delusione espressagli dal segretario del suo partito riconfermò l'utilità del colloquio.
Né i dirigenti socialisti potevano avere notizia dell'avvenuto pronunciamento di tutte le colonne BR in favore dell'esecuzione dell'onorevole Moro; soprattutto non potevano immaginare l'inconsistenza politica dei massimi dirigenti delle BR.
Invero non erano soltanto i socialisti a ritenere che un'intelligente gestione politica del sequestro avrebbe potuto portare ad una soluzione incruenta. Ma, dopo la caduta dei capi storici delle BR, i nuovi dirigenti si sarebbero rivelati tanto capaci sul piano organizzativo e militare, quanto rozzi su quello politico ed ideologico. Lo testimonia, oltre che il giudizio di Buonavita già ricordato, il fatto che quando si trattò di dare dignità politica alla barbara decisione di sopprimere l'onorevole Moro, non furono coloro che avevano detenuto e assassinato lo statista a stendere il documento, ma gli uomini del carcere, essendosi i primi rivelati incapaci di farlo.
Gli argomenti che furono opposti a Morucci, che invano cercava di convincere gli altri brigatisti della convenienza per la lotta armata di rilasciare Moro, risultano illuminanti. Lo stesso Morucci li ha così riferiti alla Commissione:
"andava imposto un salto qualitativo e organizzativo al movimento nel suo complesso, cioè bisognava imporre al movimento come unica scelta possibile la scelta della lotta armata, la scelta delle armi.
Questa era la motivazione principale oltre al fatto che, ovviamente, non avendo né la DC, né lo Stato riconosciuto la realtà delle BR non dal punto di vista diplomatico, ma dal punto di vista politico, si dovesse necessariamente determinare questa forzatura, questo salto. Infatti il movimento, in quel periodo, era ancora soggetto ad infatuazioni insurrezionaliste, ad infatuazioni movimentiste, spontaneiste che erano contrarie alla scelta delle BR, che sempre e comunque hanno ribadito in tutti i documenti ufficiali un durissimo attacco nei confronti dell'Autonomia e nei confronti di chiunque sosteneva che fosse possibile, in quelle condizioni, far politica senza le armi ".


Annotazioni − (1) Vedi "L'Europeo" del 28 ottobre 1980.
 
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