03. Delitto "culturale".
Commissione Parlamentare - Relazione Minoranza MSI
Documento aggiornato al 04/01/2005
Queste note sull'assassinio di Aldo Moro sarebbero veramente vane, parole vuote se dimenticassimo, nel momento della consegna al Parlamento, che le due emergenze, quella morale e quella istituzionale così strettamente collegate fra loro, e che tanto hanno contribuito a destabilizzare la Nazione, restano in tutta la loro drammaticità (e la riforma delle Istituzioni resta quindi, per noi, la via della bonifica organica e risolutiva).
La prima non si risolve solamente - come qualcuno vorrebbe far ritenere - mettendo fuori legge Gelli e Ortolani e bruciando la carriera ad un migliaio di polli, che con la P2 pensavano di aggirare altre mafie e cricche di potere.
Il problema strutturale delle bande, che scorrazzano e depredano il Paese, è collegato alla partitocrazia, alle sue invadenze, alle sue lottizzazioni, alla inefficienza e alla dequalificazione a cui condanna l'Italia, fino a renderla spettatrice impotente, teatro di delitti e di stragi. Paese disfatto, preda di ogni violenza, terreno adatto, crocevia internazionale per ogni crimine.
Moro, prima di essere assassinato dalle BR (prodotto del sistema), è vittima del disfacimento morale e istituzionale della Nazione. Lui stesso ne è cosciente, fino a scriverlo ("se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al disotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui", lettera a Zaccagnini, 5 aprile 1978), ma Lui stesso di questo sistema, che dovrà portarlo a morte, è, fatalmente, architetto.
Scrive Leonardo Sciascia (L'Affaire Moro, Sellerio Editore):
"Moro non era stato, fino al 16 marzo, un grande statista. Era stato e continuò ad esserlo anche nella prigione del popolo un grande politicante vigile, accorto, calcolatore: apparentemente duttile ma effettualmente irremovibile; paziente ma della pazienza che si accompagna alla tenacia; e con una visione delle forze e cioè delle debolezze che muovono la vita italiana, tra le più vaste e sicure che uomo politico abbia avuto. E proprio in ciò stava la sua peculiarità: nel conoscere le debolezze e nell'aver adottato una strategia che le alimentasse dando al tempo stesso a chi quelle debolezze portava, l'illusione che si fossero tramutate in forza. E in questa sua strategia convergevano due esperienze, ataviche e personali: il cattolicesimo italiano e quella versione, nella più cruda e feroce quotidianità, del cattolicesimo italiano che è la vita sociale (cioè asociale) del meridione d'Italia".
Non grande statista, ma grande politicante, scrive Leonardo Sciascia. Anche dalla prigione del popolo.
infatti che cosa rivendica per se stesso Aldo Moro? Lo Stato? La Nazione? Il Popolo? Le tradizioni? La memoria storica?
No. Il primato dell'individuo e del privilegio contro la fredda "ragion di Stato".
"Io conto e valgo, non questo straccio di Stato!" E' la sostanziale invocazione che farà uscire, per 54 giorni di seguito, dalla prigione delle BR.
Balza fuori, in questa circostanza, la natura tutta rinascimentale di Aldo Moro; la nazione, il popolo, lo Stato restano estranei, intrusi, non ci sono, non esistono. Così, come nel Rinascimento.
E che cosa è l'Italia 1978 se non un modello di popolo senza Stato, con le sue autonomie, le sue oligarchie guelfe o mafiose, con i suoi feudi in lotta mortale gli uni contro gli altri?
Ma come poteva questo Stato (senza memoria storica) salvare Aldo Moro? E non era di questo Stato il grande tessitore Aldo Moro? Che cosa, se non la mediazione di Moro, aveva generato questo modello di reggimento polverizzato e frantumato?
Come poteva Aldo Moro rimproverare alla scorta, assassinata a via Fani, scarsa efficienza nel difenderlo se proprio la quotidiana mediazione di Aldo Moro, spezzando le tradizioni dello Stato unitario e risorgimentale; aveva sfarinato tutto e tutti?
Sono interrogativi angosciosi che, con non celato dolore, sottoponiamo all'attenzione del Parlamento perché, a nostro avviso la campana non suona solo per Aldo Moro, ma per tutti noi, per l'intero popolo italiano: un popolo che può essere strappato dalla crisi profonda che lo scuote solo se ci si rende conto di ciò che ci accade e che ci uccide; e ad ucciderci è, prima di tutto, una malattia culturale.
Sembra proprio così: il delitto Moro è, innanzitutto, un delitto culturale.
La prima non si risolve solamente - come qualcuno vorrebbe far ritenere - mettendo fuori legge Gelli e Ortolani e bruciando la carriera ad un migliaio di polli, che con la P2 pensavano di aggirare altre mafie e cricche di potere.
Il problema strutturale delle bande, che scorrazzano e depredano il Paese, è collegato alla partitocrazia, alle sue invadenze, alle sue lottizzazioni, alla inefficienza e alla dequalificazione a cui condanna l'Italia, fino a renderla spettatrice impotente, teatro di delitti e di stragi. Paese disfatto, preda di ogni violenza, terreno adatto, crocevia internazionale per ogni crimine.
Moro, prima di essere assassinato dalle BR (prodotto del sistema), è vittima del disfacimento morale e istituzionale della Nazione. Lui stesso ne è cosciente, fino a scriverlo ("se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al disotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui", lettera a Zaccagnini, 5 aprile 1978), ma Lui stesso di questo sistema, che dovrà portarlo a morte, è, fatalmente, architetto.
Scrive Leonardo Sciascia (L'Affaire Moro, Sellerio Editore):
"Moro non era stato, fino al 16 marzo, un grande statista. Era stato e continuò ad esserlo anche nella prigione del popolo un grande politicante vigile, accorto, calcolatore: apparentemente duttile ma effettualmente irremovibile; paziente ma della pazienza che si accompagna alla tenacia; e con una visione delle forze e cioè delle debolezze che muovono la vita italiana, tra le più vaste e sicure che uomo politico abbia avuto. E proprio in ciò stava la sua peculiarità: nel conoscere le debolezze e nell'aver adottato una strategia che le alimentasse dando al tempo stesso a chi quelle debolezze portava, l'illusione che si fossero tramutate in forza. E in questa sua strategia convergevano due esperienze, ataviche e personali: il cattolicesimo italiano e quella versione, nella più cruda e feroce quotidianità, del cattolicesimo italiano che è la vita sociale (cioè asociale) del meridione d'Italia".
Non grande statista, ma grande politicante, scrive Leonardo Sciascia. Anche dalla prigione del popolo.
infatti che cosa rivendica per se stesso Aldo Moro? Lo Stato? La Nazione? Il Popolo? Le tradizioni? La memoria storica?
No. Il primato dell'individuo e del privilegio contro la fredda "ragion di Stato".
"Io conto e valgo, non questo straccio di Stato!" E' la sostanziale invocazione che farà uscire, per 54 giorni di seguito, dalla prigione delle BR.
Balza fuori, in questa circostanza, la natura tutta rinascimentale di Aldo Moro; la nazione, il popolo, lo Stato restano estranei, intrusi, non ci sono, non esistono. Così, come nel Rinascimento.
E che cosa è l'Italia 1978 se non un modello di popolo senza Stato, con le sue autonomie, le sue oligarchie guelfe o mafiose, con i suoi feudi in lotta mortale gli uni contro gli altri?
Ma come poteva questo Stato (senza memoria storica) salvare Aldo Moro? E non era di questo Stato il grande tessitore Aldo Moro? Che cosa, se non la mediazione di Moro, aveva generato questo modello di reggimento polverizzato e frantumato?
Come poteva Aldo Moro rimproverare alla scorta, assassinata a via Fani, scarsa efficienza nel difenderlo se proprio la quotidiana mediazione di Aldo Moro, spezzando le tradizioni dello Stato unitario e risorgimentale; aveva sfarinato tutto e tutti?
Sono interrogativi angosciosi che, con non celato dolore, sottoponiamo all'attenzione del Parlamento perché, a nostro avviso la campana non suona solo per Aldo Moro, ma per tutti noi, per l'intero popolo italiano: un popolo che può essere strappato dalla crisi profonda che lo scuote solo se ci si rende conto di ciò che ci accade e che ci uccide; e ad ucciderci è, prima di tutto, una malattia culturale.
Sembra proprio così: il delitto Moro è, innanzitutto, un delitto culturale.