5. Conclusioni provvisorie
Dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Terrorismo.
Documento aggiornato al 24/02/2006
E’ sulle basi che precedono che la Commissione ritiene di poter adempiere al compito individuato nella premessa della presente relazione, esprimendo una prima valutazione sull’omicidio D’Antona, sul nuovo contesto eversivo in cui lo stesso è avvenuto, sulla risposta istituzionale che alle nuove insorgenze lo Stato ha dato e sta dando.
Ad avviso della maggioranza della Commissione non sembra riscontrabile nell’attività di prevenzione condotta né una sottovalutazione, né una conoscenza insufficiente dei nuovi fenomeni.
L’audizione del prefetto Ferrigno, le relazioni ottenute dalla Direzione Centrale per la polizia di prevenzione e dal Comando dei ROS dei Carabinieri dimostrano, infatti, come da tali organismi i fenomeni medesimi – attraverso un opportuno interscambio informativo con i servizi di sicurezza – siano stati da anni accuratamente monitorati nella loro evoluzione ed attentamente analizzati.
Solo da parte di alcuni commissari perviene, infatti, il rilievo che le informazioni di cui il prefetto Ferrigno dimostrò di essere in possesso già nel 1996, avrebbero potuto avere negli anni successivi uno sviluppo ulteriore, che sarebbe mancato anche in conseguenza delle modifiche apportate dal Governo a strutture centrali di investigazione quali lo SCICO.
Per quanto riferito alla Commissione dal sottosegretario Sinisi, l’attività di monitoraggio e di analisi è peraltro sfociata, tutte le volte che ha determinato l’individuazione di fatti costituenti reato, in puntuali informative alle autorità giudiziarie competenti per territorio, perché queste svolgessero le attività investigative e giudiziarie di propria competenza. Se in tale fase ulteriore non si è giunti ancora a risultati apprezzabili – come sembra almeno alla stregua dei dati di cui la Commissione è in possesso – ciò è dipeso probabilmente dal fatto che il singolo ufficio giudiziario investito da un numero ridotto di notizie di reato (rientranti nella propria competenza territoriale) – o addirittura di una sola – può averne sottovalutato l’importanza, perché non in grado di considerarle inserite nel quadro di insieme, stante anche la ridotta offensività dei singoli attentati che, prima dell’omicidio D’Antona, avevano riguardato in misura modesta solo le cose e non avevano mai coinvolto la incolumità delle persone.
Ciò ha anche probabilmente ostacolato che, presso il singolo ufficio giudiziario, le indagini giungessero ad un grado di maturazione tale da consentire l’attivazione delle procedure di scambio informativo, di coordinamento e di collegamento attualmente previste dal codice processuale penale.
Pure l’esperienza del passato dimostra che nel contrasto a fenomeni eversivi quali quelli in discorso, che già nella prima fase organizzativa tendono ad interessare più zone del territorio nazionale, il coordinamento delle indagini tra uffici giudiziari diversi costituisce passaggio ineludibile per il raggiungimento di risultati apprezzabili. Fu questa la scelta operativa che consentì, intorno alla metà degli anni ’70, a magistrati fortemente impegnati in indagini su fatti di terrorismo (molti dei quali pagarono con la vita il loro impegno coraggioso) di conseguire eccezionali risultati, pure in assenza – allora – di specifiche previsioni normative volte a favorire e disciplinare il coordinamento di indagini in corso presso uffici giudiziari diversi.
E’, quindi, auspicabile che nella nuova situazione di allarme determinata dall’omicidio D’Antona le possibilità di scambio informativo, coordinamento e collegamento, ora previste dall’ordinamento, siano utilizzate nel grado massimo di operatività, per consentire che risultati apprezzabili si raggiungano a legislazione processuale invariata.
In tal senso la Commissione prende favorevolmente atto dell’iniziativa, ampiamente riportata dalla stampa, che ha visto riuniti a Roma pubblici ministeri di diverse città interessate al fenomeno del terrorismo recente che hanno concordato sull’opportunità di un coordinamento a livello nazionale e territoriale delle indagini al fine di evitare dispersioni del patrimonio di conoscenze dei singoli uffici giudiziari: il coordinamento dovrebbe avvenire a ritmi quotidiani e alla Procura di Roma sarebbe affidata una funzione di guida.
Ciò consente, almeno allo stato, ad avviso della maggioranza della Commissione, di ritenere non attuali le proposte di recente avanzate sia in sede istituzionale che in sede politica di affidare la investigazione giudiziaria su fatti di terrorismo ad una organizzazione del tipo di quella alla quale negli ultimi anni è stato affidato il contrasto alla criminalità organizzata; un modulo operativo che, pure accolto inizialmente con resistenza e perplessità, ha indubbiamente consentito il conseguimento di notevoli successi; ovvero ancora la possibilità di estendere ai reati tipici del terrorismo le competenze delle attuali direzioni distrettuali antimafia e della procura nazionale antimafia, anche in considerazione del fatto che il confine fra terrorismo e criminalità organizzata non sempre è netto, e non è da escludere l’inverarsi di pericolose zone di commistione.
Largamente prevalente è, infatti, nella Commissione la valutazione della sufficienza della nostra legislazione sostanziale e processuale per una valida azione di contrasto rispetto a nuove insorgenze terroristiche.
E’ noto infatti come il nostro ordinamento, a differenza di ordinamenti stranieri, conosca una pluralità di figure criminose di tipo associativo, idonee, in se stesse, a criminalizzare l’appartenenza a bande armate o ad associazioni sovversive, i cui partecipanti soggiacciono quindi alla sanzione penale indipendentemente dalla commissione di specifici attentati alle cose e/o alle persone, dei quali i partecipanti si rendano protagonisti e rispetto ai quali il delitto associativo si pone in un rapporto di mezzo a fine.
Ed è altrettanto noto come l’utilizzazione della categoria dei reati associativi abbia consentito in passato notevoli successi nel contrasto al terrorismo di matrice politica ed in atto come forma di contrasto alla criminalità organizzata. A ciò si aggiunga che, per ciò che riguarda le associazioni di tipo mafioso, la prassi giudiziaria – di cui la Commissione non può non prendere atto – tende ad estendere l’ambito di punibilità del reato associativo attraverso il ricorso, pur molto discusso, alla categoria del concorso esterno all’associazione criminosa.
Circa la possibilità di utilizzare la categoria del "concorso esterno" anche nel contrasto con associazioni terroristiche, favorevolmente valutata da alcuni commissari, è stato segnalato da parte della maggioranza dei commissari il pericolo che in tal modo vengano criminalizzate ingiustamente attività rientranti nella libera manifestazione del pensiero o nella espressione di opinioni politiche, con la creazione di un clima emergenziale, che è invece opportuno evitare.
Piano è comunque il rilievo che, in disparte quanto precede, sussistono altre forme (quali il favoreggiamento e l’istigazione) di reato che consentono di incidere, in applicazione della legge e nel rispetto delle garanzie individuali, sugli ambiti di contiguità con i fenomeni terroristici, al fine di "asciugare l’acqua in cui i pesci nuotano"; ovviamente escludendosi, perché incompatibile con un ordinamento democratico, una indiscriminata criminalizzazione di ogni area di "antagonismo sociale".
Non vi è bisogno di leggi eccezionali. Una democrazia contrasta il terrorismo con le leggi vigenti nel rispetto delle garanzie e dei diritti individuali. E’ opportuno peraltro che le leggi vigenti siano puntualmente applicate, senza indulgenza, utilizzandone appieno l’operatività, con l’impegno dovuto, perché è evidente il pericolo in ogni forma di sottovalutazione.
Non vi è dubbio che il tragico episodio dell’omicidio D’Antona abbia costituito un improvviso balzo in avanti rispetto al tipo di attentati che avevano caratterizzato il contesto eversivo in cui è venuto ad inserirsi: perché è in questo e soltanto in questo che può accettarsi la valutazione di una sua imprevedibilità, nel senso che nella logica di una naturale escalation era logico attendere che si fosse passati da attentati alle cose ad una fase di attentati alle persone (sequestri, ferimenti), di tipo non omicidiario. In realtà il gruppo autore dell’assassinio, nel riassumere il nome di BR-PCC e quindi nel riaccordarsi a tale esperienza, ha inteso ripartire dal livello di offensività già proprio dell’esperienza medesima, nel momento in cui si era interrotta. E’ quasi come se al nuovo documento rivendicativo fosse premesso un tragico heri dicebamus.
D’altro canto è indubbio che l’omicidio D’Antona abbia suscitato perplessità anche in ambienti da sempre contigui all’eversione, che, pur non avendo mai abiurato l’esperienza del passato, sono rimasti interdetti di fronte alla gravità dell’episodio; ora bollandolo come l’azione sterile di "imbecilli senza tempo", ora soltanto definendola come una pericolosa e prematura "fuga in avanti".
Non è un caso che immediate ed ulteriori rivendicazioni siano venute da irriducibili del settore carcerario e cioè da condizioni umane che nulla hanno da perdere da un salto di qualità della tensione.
Il limite dell’efficacia propagandistica che gli autori dell’omicidio hanno affidato alla sua commissione e alla sua rivendicazione è probabilmente questo; e la pioggia di rivendicazioni adesive postume, che ha fatto seguito ad oltre un mese di distanza dall’evento, costituisce un probabile tentativo dei suoi autori di dimostrare un consenso all’azione sanguinaria più intenso del reale, a fini propagandistici e di ulteriore proselitismo.
Ma tutto ciò non riduce la pericolosità della risorta cellula brigatista, che probabilmente si affida a nuovi moduli organizzativi, basati su compartimentazione e clandestinità ancor più accentuate rispetto al passato e sul concorso di nuovi e selezionatissimi militanti, prevedendo un retroterra logistico ridotto al minimo ed un obbligo di clandestinità limitato soltanto a chi non ne può fare a meno, perché noto o ricercato.
Ma se ciò rende indubbiamente non facile l’individuazione degli autori dell’omicidio al fine di assicurarli alla giustizia, opportunamente, almeno a giudizio della Commissione, l’attività inquirente appare indirizzarsi anche verso un livello diverso, che concerne il più vasto contesto eversivo, in cui l’omicidio D’Antona è venuto ad inserirsi. Perché non vi è dubbio che in tale direzione successi indagativi appaiono di più agevole portata, soprattutto se gli strumenti offerti dalla legge verranno utilizzati nel massimo della loro operatività.
In questa prospettiva, da alcuni commissari è stata ipotizzata, pur nel rispetto dell’autonomia dell’autorità giudiziaria, l’opportunità anche di una revisione dei benefici carcerari di cui, secondo quanto riferito alla Commissione dal sottosegretario Sinisi, godono molti degli irriducibili, poiché nella nuova situazione determinata dalle attuali insorgenze l’irriducibilità potrebbe – almeno in alcuni casi – qualificarsi come idonea di per sé ad individuare un grado elevato di pericolosità sociale.
E’ proposta che, peraltro, alla maggioranza della Commissione è apparsa non concretamente praticabile e non opportuna, perché idonea ad ingenerare quel clima emergenziale che la situazione attuale non giustifica.
E’ quindi in una diversa prospettiva che la Commissione rileva come, anche a protagonisti di fasi anteriori della complessiva vicenda BR, benefici carcerari siano stati con larghezza assegnati; pur in presenza di palesi limiti nel ripensamento critico del proprio passato, chiaramente evidenti nel rifiuto di apporti collaborativi ulteriori, sia con l’autorità giudiziaria inquirente, sia con la stessa Commissione; apporti che pure sarebbero utilissimi oggi nel contrastare le nuove insorgenze e che invece vengono rifiutati da protagonisti di quel fosco passato che, dalle ribalte con troppa generosità loro offerte dai media, assumono inaccettabili atteggiamenti di sufficienza, affermando che null’altro hanno da dire, perché tutto è già noto; quando invece ne è evidente a volte la reticenza, a volte l’attitudine ad una persistente menzogna (3).
Le nuove insorgenze quindi inducono la Commissione a persistere nel suo atteggiamento di ostinata investigazione sui dati del passato (con particolare riferimento al caso Moro) e la inducono, peraltro, ad assumere anche moduli operativi diversi - che spetterà all’Ufficio di presidenza modulare e precisare - al fine di seguire nell’intero territorio nazionale l’evoluzione delle indagini, nella prospettiva di uno scambio fecondo di informazioni e dei risultati di analisi.
Ad avviso della maggioranza della Commissione non sembra riscontrabile nell’attività di prevenzione condotta né una sottovalutazione, né una conoscenza insufficiente dei nuovi fenomeni.
L’audizione del prefetto Ferrigno, le relazioni ottenute dalla Direzione Centrale per la polizia di prevenzione e dal Comando dei ROS dei Carabinieri dimostrano, infatti, come da tali organismi i fenomeni medesimi – attraverso un opportuno interscambio informativo con i servizi di sicurezza – siano stati da anni accuratamente monitorati nella loro evoluzione ed attentamente analizzati.
Solo da parte di alcuni commissari perviene, infatti, il rilievo che le informazioni di cui il prefetto Ferrigno dimostrò di essere in possesso già nel 1996, avrebbero potuto avere negli anni successivi uno sviluppo ulteriore, che sarebbe mancato anche in conseguenza delle modifiche apportate dal Governo a strutture centrali di investigazione quali lo SCICO.
Per quanto riferito alla Commissione dal sottosegretario Sinisi, l’attività di monitoraggio e di analisi è peraltro sfociata, tutte le volte che ha determinato l’individuazione di fatti costituenti reato, in puntuali informative alle autorità giudiziarie competenti per territorio, perché queste svolgessero le attività investigative e giudiziarie di propria competenza. Se in tale fase ulteriore non si è giunti ancora a risultati apprezzabili – come sembra almeno alla stregua dei dati di cui la Commissione è in possesso – ciò è dipeso probabilmente dal fatto che il singolo ufficio giudiziario investito da un numero ridotto di notizie di reato (rientranti nella propria competenza territoriale) – o addirittura di una sola – può averne sottovalutato l’importanza, perché non in grado di considerarle inserite nel quadro di insieme, stante anche la ridotta offensività dei singoli attentati che, prima dell’omicidio D’Antona, avevano riguardato in misura modesta solo le cose e non avevano mai coinvolto la incolumità delle persone.
Ciò ha anche probabilmente ostacolato che, presso il singolo ufficio giudiziario, le indagini giungessero ad un grado di maturazione tale da consentire l’attivazione delle procedure di scambio informativo, di coordinamento e di collegamento attualmente previste dal codice processuale penale.
Pure l’esperienza del passato dimostra che nel contrasto a fenomeni eversivi quali quelli in discorso, che già nella prima fase organizzativa tendono ad interessare più zone del territorio nazionale, il coordinamento delle indagini tra uffici giudiziari diversi costituisce passaggio ineludibile per il raggiungimento di risultati apprezzabili. Fu questa la scelta operativa che consentì, intorno alla metà degli anni ’70, a magistrati fortemente impegnati in indagini su fatti di terrorismo (molti dei quali pagarono con la vita il loro impegno coraggioso) di conseguire eccezionali risultati, pure in assenza – allora – di specifiche previsioni normative volte a favorire e disciplinare il coordinamento di indagini in corso presso uffici giudiziari diversi.
E’, quindi, auspicabile che nella nuova situazione di allarme determinata dall’omicidio D’Antona le possibilità di scambio informativo, coordinamento e collegamento, ora previste dall’ordinamento, siano utilizzate nel grado massimo di operatività, per consentire che risultati apprezzabili si raggiungano a legislazione processuale invariata.
In tal senso la Commissione prende favorevolmente atto dell’iniziativa, ampiamente riportata dalla stampa, che ha visto riuniti a Roma pubblici ministeri di diverse città interessate al fenomeno del terrorismo recente che hanno concordato sull’opportunità di un coordinamento a livello nazionale e territoriale delle indagini al fine di evitare dispersioni del patrimonio di conoscenze dei singoli uffici giudiziari: il coordinamento dovrebbe avvenire a ritmi quotidiani e alla Procura di Roma sarebbe affidata una funzione di guida.
Ciò consente, almeno allo stato, ad avviso della maggioranza della Commissione, di ritenere non attuali le proposte di recente avanzate sia in sede istituzionale che in sede politica di affidare la investigazione giudiziaria su fatti di terrorismo ad una organizzazione del tipo di quella alla quale negli ultimi anni è stato affidato il contrasto alla criminalità organizzata; un modulo operativo che, pure accolto inizialmente con resistenza e perplessità, ha indubbiamente consentito il conseguimento di notevoli successi; ovvero ancora la possibilità di estendere ai reati tipici del terrorismo le competenze delle attuali direzioni distrettuali antimafia e della procura nazionale antimafia, anche in considerazione del fatto che il confine fra terrorismo e criminalità organizzata non sempre è netto, e non è da escludere l’inverarsi di pericolose zone di commistione.
Largamente prevalente è, infatti, nella Commissione la valutazione della sufficienza della nostra legislazione sostanziale e processuale per una valida azione di contrasto rispetto a nuove insorgenze terroristiche.
E’ noto infatti come il nostro ordinamento, a differenza di ordinamenti stranieri, conosca una pluralità di figure criminose di tipo associativo, idonee, in se stesse, a criminalizzare l’appartenenza a bande armate o ad associazioni sovversive, i cui partecipanti soggiacciono quindi alla sanzione penale indipendentemente dalla commissione di specifici attentati alle cose e/o alle persone, dei quali i partecipanti si rendano protagonisti e rispetto ai quali il delitto associativo si pone in un rapporto di mezzo a fine.
Ed è altrettanto noto come l’utilizzazione della categoria dei reati associativi abbia consentito in passato notevoli successi nel contrasto al terrorismo di matrice politica ed in atto come forma di contrasto alla criminalità organizzata. A ciò si aggiunga che, per ciò che riguarda le associazioni di tipo mafioso, la prassi giudiziaria – di cui la Commissione non può non prendere atto – tende ad estendere l’ambito di punibilità del reato associativo attraverso il ricorso, pur molto discusso, alla categoria del concorso esterno all’associazione criminosa.
Circa la possibilità di utilizzare la categoria del "concorso esterno" anche nel contrasto con associazioni terroristiche, favorevolmente valutata da alcuni commissari, è stato segnalato da parte della maggioranza dei commissari il pericolo che in tal modo vengano criminalizzate ingiustamente attività rientranti nella libera manifestazione del pensiero o nella espressione di opinioni politiche, con la creazione di un clima emergenziale, che è invece opportuno evitare.
Piano è comunque il rilievo che, in disparte quanto precede, sussistono altre forme (quali il favoreggiamento e l’istigazione) di reato che consentono di incidere, in applicazione della legge e nel rispetto delle garanzie individuali, sugli ambiti di contiguità con i fenomeni terroristici, al fine di "asciugare l’acqua in cui i pesci nuotano"; ovviamente escludendosi, perché incompatibile con un ordinamento democratico, una indiscriminata criminalizzazione di ogni area di "antagonismo sociale".
Non vi è bisogno di leggi eccezionali. Una democrazia contrasta il terrorismo con le leggi vigenti nel rispetto delle garanzie e dei diritti individuali. E’ opportuno peraltro che le leggi vigenti siano puntualmente applicate, senza indulgenza, utilizzandone appieno l’operatività, con l’impegno dovuto, perché è evidente il pericolo in ogni forma di sottovalutazione.
Non vi è dubbio che il tragico episodio dell’omicidio D’Antona abbia costituito un improvviso balzo in avanti rispetto al tipo di attentati che avevano caratterizzato il contesto eversivo in cui è venuto ad inserirsi: perché è in questo e soltanto in questo che può accettarsi la valutazione di una sua imprevedibilità, nel senso che nella logica di una naturale escalation era logico attendere che si fosse passati da attentati alle cose ad una fase di attentati alle persone (sequestri, ferimenti), di tipo non omicidiario. In realtà il gruppo autore dell’assassinio, nel riassumere il nome di BR-PCC e quindi nel riaccordarsi a tale esperienza, ha inteso ripartire dal livello di offensività già proprio dell’esperienza medesima, nel momento in cui si era interrotta. E’ quasi come se al nuovo documento rivendicativo fosse premesso un tragico heri dicebamus.
D’altro canto è indubbio che l’omicidio D’Antona abbia suscitato perplessità anche in ambienti da sempre contigui all’eversione, che, pur non avendo mai abiurato l’esperienza del passato, sono rimasti interdetti di fronte alla gravità dell’episodio; ora bollandolo come l’azione sterile di "imbecilli senza tempo", ora soltanto definendola come una pericolosa e prematura "fuga in avanti".
Non è un caso che immediate ed ulteriori rivendicazioni siano venute da irriducibili del settore carcerario e cioè da condizioni umane che nulla hanno da perdere da un salto di qualità della tensione.
Il limite dell’efficacia propagandistica che gli autori dell’omicidio hanno affidato alla sua commissione e alla sua rivendicazione è probabilmente questo; e la pioggia di rivendicazioni adesive postume, che ha fatto seguito ad oltre un mese di distanza dall’evento, costituisce un probabile tentativo dei suoi autori di dimostrare un consenso all’azione sanguinaria più intenso del reale, a fini propagandistici e di ulteriore proselitismo.
Ma tutto ciò non riduce la pericolosità della risorta cellula brigatista, che probabilmente si affida a nuovi moduli organizzativi, basati su compartimentazione e clandestinità ancor più accentuate rispetto al passato e sul concorso di nuovi e selezionatissimi militanti, prevedendo un retroterra logistico ridotto al minimo ed un obbligo di clandestinità limitato soltanto a chi non ne può fare a meno, perché noto o ricercato.
Ma se ciò rende indubbiamente non facile l’individuazione degli autori dell’omicidio al fine di assicurarli alla giustizia, opportunamente, almeno a giudizio della Commissione, l’attività inquirente appare indirizzarsi anche verso un livello diverso, che concerne il più vasto contesto eversivo, in cui l’omicidio D’Antona è venuto ad inserirsi. Perché non vi è dubbio che in tale direzione successi indagativi appaiono di più agevole portata, soprattutto se gli strumenti offerti dalla legge verranno utilizzati nel massimo della loro operatività.
In questa prospettiva, da alcuni commissari è stata ipotizzata, pur nel rispetto dell’autonomia dell’autorità giudiziaria, l’opportunità anche di una revisione dei benefici carcerari di cui, secondo quanto riferito alla Commissione dal sottosegretario Sinisi, godono molti degli irriducibili, poiché nella nuova situazione determinata dalle attuali insorgenze l’irriducibilità potrebbe – almeno in alcuni casi – qualificarsi come idonea di per sé ad individuare un grado elevato di pericolosità sociale.
E’ proposta che, peraltro, alla maggioranza della Commissione è apparsa non concretamente praticabile e non opportuna, perché idonea ad ingenerare quel clima emergenziale che la situazione attuale non giustifica.
E’ quindi in una diversa prospettiva che la Commissione rileva come, anche a protagonisti di fasi anteriori della complessiva vicenda BR, benefici carcerari siano stati con larghezza assegnati; pur in presenza di palesi limiti nel ripensamento critico del proprio passato, chiaramente evidenti nel rifiuto di apporti collaborativi ulteriori, sia con l’autorità giudiziaria inquirente, sia con la stessa Commissione; apporti che pure sarebbero utilissimi oggi nel contrastare le nuove insorgenze e che invece vengono rifiutati da protagonisti di quel fosco passato che, dalle ribalte con troppa generosità loro offerte dai media, assumono inaccettabili atteggiamenti di sufficienza, affermando che null’altro hanno da dire, perché tutto è già noto; quando invece ne è evidente a volte la reticenza, a volte l’attitudine ad una persistente menzogna (3).
Le nuove insorgenze quindi inducono la Commissione a persistere nel suo atteggiamento di ostinata investigazione sui dati del passato (con particolare riferimento al caso Moro) e la inducono, peraltro, ad assumere anche moduli operativi diversi - che spetterà all’Ufficio di presidenza modulare e precisare - al fine di seguire nell’intero territorio nazionale l’evoluzione delle indagini, nella prospettiva di uno scambio fecondo di informazioni e dei risultati di analisi.