07. Lo stato imperialista delle Multinazionali non è fascista nè socialdemocratico
Documento aggiornato al 07/02/2005
Nel passaggio dalla pace armata alla guerra si fa sempre più diretto e generalizzato lo scontro rivoluzione-controrivoluzione, ma non si ha però, come alcuni sostengono, una trasformazione dello Stato democratico in Stato fascista. Ci troviamo invece sempre in presenza di uno Stato che, ristrutturandosi, ha subito delle modificazioni nel peso specifico dei suoi componenti fondamentali; prima gli strumenti pacifico-riformisti avevano il predominio sugli strumenti militari-repressivi, ora invece l'annientamento predomina e subordina a sé la funzione riformista.
Fascismo e socialdemocrazia sono state forme politiche oscillanti che il potere della borghesia ha assunto nella fase del capitalismo monopolistico nazionale. Possiamo aggiungere ancora, semplificando al massimo, che fascismo e socialdemocrazia si sono, nella storia, reciprocamente esclusi. Nello stato imperialista invece la sostanza di queste forme politiche coesiste, dando luogo ad un "regime" originale che perciò non è fascista né socialdemocratico, ma rappresenta un superamento dialettico di entrambe.
Alcuni definiscono la fase di transizione dalla pace armata alla guerra come processo di fascistizzazione e la forma politica dello Stato in questa fase come "nuovo fascismo".
Queste due categorie, anche se colgono alcuni aspetti del fenomeno, non riescono però a scavare in profondità e introducono così notevoli elementi di confusione.
Innanzitutto il fascismo non è un fenomeno metastorico (cioè al di fuori della storia), ma rappresenta la forma assunta dallo Stato borghese in una data fase di sviluppo delle forze produttive (capitalismo monopolistico a base nazionale) e come tale presenta specificità non riscontrabili nello Stato imperialista delle multinazionali.
Dello Stato fascista, lo Stato imperialista recupera, perfezionandolo e mistificandolo, tutto l'apparato della controrivoluzione preventiva, scartandone però tutto il bagaglio angustamente nazionalistico (esasperata coscienza nazionale, autarchia).
C'è inoltre un altro aspetto da tener presente: il fascismo ha dovuto conquistare dall'"esterno" il vecchio Stato liberale, rimodellandolo poi sul suo progetto strategico; ora invece la conquista degli apparati da parte del personale politico della borghesia imperialista procede esclusivamente per "linee interne". Lo Stato imperialista non è dunque fascista.
Il concetto di fascistizzazione appare non solo riduttivo ma anche falsante nella misura in cui non ci consente di cogliere il nuovo carattere della "violenza concentrata" né il rapporto organico che essa stringe con le pratiche di integrazione riformista.
Altri in questa fase di transizione credono di scorgere una tendenza alla trasformazione dello Stato in senso socialdemocratico e si chiedono se la socialdemocrazia rappresenti o meno la via d'uscita alla crisi imperialistica e, più precisamente, se il PCI si accinga o meno a fare il suo ingresso nell'area di potere. Questo quesito ne contiene in sé un altro, cioè se il PCI sia o meno un partito socialdemocratico.
Tra socialdemocrazia e riformismo moderno le differenze sono numerose ed alcune di fondo. La socialdemocrazia è un fenomeno tipico di quelle fasi dello sviluppo capitalistico in cui le crisi seguono ancora un andamento ciclico: uscendo dai periodi di depressione, il capitalismo può, ricorrendo ad una politica riformista, "corrompere gli strati di aristocrazia operaia" che costituiscono i a base di massa della socialdemocrazia storica.
In altre parole, la possibilità di una ripresa produttiva consente alla borghesia un margine di contrattazione reale con la "destra operaia": ciò provoca, tra gli altri effetti, l'integrazione dei gruppi dirigenti dei partiti riformisti all'interno del blocco sociale che detiene il potere. L'alleanza tra borghesia e riformismo è dunque di natura sociale, oltre che politica: i socialdemocratici e gli "operai professionali" si schierano a fianco del padrone perché con esso hanno interessi reali comuni (la ripresa dell'accumulazione e la ristrutturazione produttiva) e perché ambiscono a diventare essi stessi padroni con fondate possibilità di riuscire a divenirlo. Inoltre, le particolari caratteristiche dello Stato in questa fase della storia del capitalismo facilitano l'ingresso della socialdemocrazia in quel governo che è da sempre l'anticamera del potere: lo Stato ancora relativamente autonomo dall'economia, giustifica in qualche misura l'illusione che sia possibile la sua conquista ed il suo utilizzo da parte della classe operaia.
Questi dati oggi non si danno più. La crisi del sistema imperialista non è prevedibile che sfoci in una ripresa dell'accumulazione, sia perché l'economia è entrata in una fase di stagnazione da cui si risolleverà solo con la guerra per una diversa ripartizione dei mercati, sia perché le politiche economiche adottate dagli stati tendono a restringere, anziché ad ampliare, la base produttiva. Mancano di conseguenza, tanto le basi strutturali (natura e andamento della crisi) quanto quelle soggettive (politiche dei governi e degli stati) per rendere possibile l'integrazione dei revisionisti in un blocco sociale che persegua una politica di tipo riformistico. O meglio: è ancora possibile che i revisionisti (il loro gruppo dirigente) siano temporaneamente ospitati all'interno del Governo, ma è escluso che esistano le condizioni per integrare strati di aristocrazia operaia o di ceti medi all'interno di un blocco di potere incaricato di gestire un tipo di sviluppo che non si può più dare, stante il carattere imperialistico e multinazionale del capitalismo della nostra epoca. Che cosa, infatti, possono concedere i capitalisti all'operaio professionale in cambio della sua collaborazione se non la cassa integrazione, licenziamenti, aumento dello sfruttamento e progressiva ma costante riduzione del potere d'acquisto dei salari? E comunque, al di là delle contropartite materiali, in quale ipotesi di sviluppo possono essere coinvolte, anche soltanto ideologicamente, quelle fasce di aristocrazie operaie che hanno ormai esaurito il loro potenziale progressista dal punto di vista del capitale?
L'assenza delle condizioni strutturali per la formazione di un nuovo blocco sociale di potere non esclude tutte le caratteristiche di questo rapporto che, d'altra parte, dipendono dalla situazione di classe, oltre che dal livello delle forze produttive.
Se a pagare il prezzo dell'ascesa al potere della socialdemocrazia storica furono prima di tutto i contadini, dal momento che la ripresa dell'accumulazione avveniva a scapito della campagna, oggi il rapporto preferenziale della borghesia imperialista con i revisionisti si fonda sull'individuazione del "proletariato emarginato" come variabile di cui è indispensabile detenere il controllo.
In altre parole, l'operaio professionale "dovrebbe diventare, simultaneamente, un vero e proprio soldato della produzione e funzionare come poliziotto sia nei confronti dei compagni di lavoro, sia soprattutto nei confronti della massa dei proletari marginalizzati della grande metropoli".
Per tutti questi motivi è inevitabile che la politica dei revisionisti perda progressivamente tutti i propri tratti riformistici per assumerne di apertamente repressivi: da progressiva, la funzione del PCI diventa così, di fatto ed indipendentemente dalla volontà dei suoi militanti, conservatrice, finalizzata com'è ad esercitare un rigido controllo sul mercato del lavoro e ad organizzare il consenso attorno ad un progetto di sviluppo economico e sociale che essendo per la natura dell'imperialismo, incapace di mobilitare e coinvolgere le masse (com'era riuscito a fare ad esempio il fascismo), costringerà sempre di più i revisionisti a ricorrere a strumenti coercitivi e ad imporre forzatamente il consenso, anziché a sollecitarlo e ad interpretarlo.
Questo avverrà perché, se l'imperialismo è capitalismo in putrefazione non si dà ulteriore sviluppo delle forze produttive senza sconvolgimento dei rapporti di produzione corrispondenti, ciò significa che la necessità di mantenerli inalterati si dovrà scontrare con la volontà di modificarli e che i partiti riformisti di tradizione operaia, da strumenti per la pace sociale si trasformeranno in altrettanti strumenti per la guerra civile.
In questo senso è possibile sostenere che i revisionisti sono al servizio dello Stato imperialista delle multinazionali e che la contraddizione con il revisionismo moderno, oltre ad essere antagonistica, va affrontata anche sul piano militare. Già oggi grazie alla mediazione dei revisionisti, la militarizzazione si estende dalla fabbrica al quartiere, ai rapporti interpersonali, alle famiglie, in una catena di rapporti sociali gerarchizzati e violenti, dominati dalle leggi di una società repressiva che l'imperialismo vorrebbe sempre più simile ad un lager di milioni di produttori.
Va tenuto presente, inoltre che, una delle ragioni per cui l'alleanza con il revisionismo moderno è auspicabile per la borghesia, consiste nella possibilità di penetrare più agevolmente nei mercati dell'Est europeo.
Oltre che dei progetti politici delle multinazionali nel loro complesso, il PCI è anche e soprattutto al servizio dello Stato imperialista in quanto imprenditore esso stesso: in questo caso il ruolo del PCI cessa di essere puramente subalterno, per divenire attivo, assumendo i caratteri riformistici di una ipotesi evoluzionistica e gradualistica di transizione al socialismo. La duplicità della funzione e della natura del PCI (da una parte, funzione poliziesca e natura conservatrice; dall'altra, funzione razionalizzatrice e natura riformistica) è probabile stia al fondo dei suoi successi elettorali e della stia "tenuta" in presenza di una lotta di classe che tocca i livelli sempre crescenti di maturità.
Se nei confronti dei monopoli e delle multinazionali l'atteggiamento del PCI è indiretto e passa attraverso la mediazione dello Stato, nei confronti dello Stato considerato come capitalista esso stesso, il punto di vista dei revisionisti ha più di un fenomeno teorico e trova giustificazione nel rilievo particolare che ha assunto (già durante il fascismo) e seguita ad assumere l'intervento dello Stato nell'economia italiana.
Alla base delle valutazioni del PCI sta "il recupero delle analisi di Engels e di Lenin sulla natura ambivalente del capitalismo di Stato, cioè è visto da un lato, come punto di massimo sviluppo del capitale e, dall'altro, come punto di sua massima contraddizione (sul quale incidere politicamente), in quanto espressione di una acutizzazione della contraddizione di fondo tra il carattere sempre più sociale della produzione capitalistica e il carattere privato dell'appropriazione del plusvalore". Da ciò, "una sorta di ottimismo sulla possibilità di 'uso' immediato degli strumenti di intervento statale e in particolare dell'impresa pubblica per fini diversi da quelli per cui sono nati".
Muovendo da questi presupposti teorici che ignorano non soltanto i rapporti tra Stato e multinazionali (al punto che i revisionisti giungono a favoleggiare un'alleanza fra classe operaia ed impresa pubblica in funzione antimonopolistica) ma persino gli interessi diretti che lo Stato, in quanto imprenditore, ha nella sfera della produzione, è conseguente che riformismo e repressione divengano facce di una stessa medaglia e che il PCI si riveli uno strumento, più o meno decisivo o più o meno accessorio, di divisione della classe operaia, di controllo del mercato del lavoro, di organizzazione del consenso e di repressione dell'autonomia proletaria e della rivoluzione.
All'interno del partito revisionista vive perciò anche una ambiguità tra due tendenze; una che potremmo definire impropriamente "ala sinistra della socialdemocrazia" la quale ha fatto proprio con l'accettazione della NATO anche il sistema di valori occidentali; l'altra che si ispira al "capitalismo di Stato" e che vede il "compromesso" come primo passo tattico in questa direzione. Ciò comporta che il legame tra il partito revisionista e il socialimperialismo sovietico viene a dipendere dalla posizione di maggior forza della seconda corrente rispetto, alla prima.
A livello europeo l'ultrarevisionismo cerca di porsi come forza autonoma, forza egemonizzante rispetto ad un'area politica che vede accomunati cani e porci della sinistra della socialdemocrazia, passando per i "vari eurocomunismi", per arrivare alle false incitazioni leniniste tipo Portogallo. Esso si pone nei confronti dell'imperialismo come forza interna-esterna, per questo ispira diffidenza a Carter e ai suoi vassalli europei, i quali sarebbero pure tentati di usarlo, ambiziosamente, in funzione catalizzante del "dissenso" nei paesi dell'Est; ma per il momento resta comunque un'arma a doppio taglio.
L'unica carta che l'ultrarevisionismo pareva avesse in mano, essere cioè garante della "pacificazione" dell'area meridionale dell'Europa, ha perso gran parte del suo valore in seguito allo sviluppo dei movimenti autonomisti di liberazione (ETA, IRA), alla crescita di forme di guerriglia metropolitana (RAF, NAPAP, BR) e alla crescita generalizzata dei movimenti autonomi di massa.
L'unità dell'eurocomunismo (dall'agente della CIA, Carrillo al fratello scemo di De Gaulle, Marchais) è l'unità dell'opportunismo: è l'unità dei rinnegati del marxismo-leninismo, del tradimento delle aspirazioni di emancipazione della classe operaia.
Fascismo e socialdemocrazia sono state forme politiche oscillanti che il potere della borghesia ha assunto nella fase del capitalismo monopolistico nazionale. Possiamo aggiungere ancora, semplificando al massimo, che fascismo e socialdemocrazia si sono, nella storia, reciprocamente esclusi. Nello stato imperialista invece la sostanza di queste forme politiche coesiste, dando luogo ad un "regime" originale che perciò non è fascista né socialdemocratico, ma rappresenta un superamento dialettico di entrambe.
Alcuni definiscono la fase di transizione dalla pace armata alla guerra come processo di fascistizzazione e la forma politica dello Stato in questa fase come "nuovo fascismo".
Queste due categorie, anche se colgono alcuni aspetti del fenomeno, non riescono però a scavare in profondità e introducono così notevoli elementi di confusione.
Innanzitutto il fascismo non è un fenomeno metastorico (cioè al di fuori della storia), ma rappresenta la forma assunta dallo Stato borghese in una data fase di sviluppo delle forze produttive (capitalismo monopolistico a base nazionale) e come tale presenta specificità non riscontrabili nello Stato imperialista delle multinazionali.
Dello Stato fascista, lo Stato imperialista recupera, perfezionandolo e mistificandolo, tutto l'apparato della controrivoluzione preventiva, scartandone però tutto il bagaglio angustamente nazionalistico (esasperata coscienza nazionale, autarchia).
C'è inoltre un altro aspetto da tener presente: il fascismo ha dovuto conquistare dall'"esterno" il vecchio Stato liberale, rimodellandolo poi sul suo progetto strategico; ora invece la conquista degli apparati da parte del personale politico della borghesia imperialista procede esclusivamente per "linee interne". Lo Stato imperialista non è dunque fascista.
Il concetto di fascistizzazione appare non solo riduttivo ma anche falsante nella misura in cui non ci consente di cogliere il nuovo carattere della "violenza concentrata" né il rapporto organico che essa stringe con le pratiche di integrazione riformista.
Altri in questa fase di transizione credono di scorgere una tendenza alla trasformazione dello Stato in senso socialdemocratico e si chiedono se la socialdemocrazia rappresenti o meno la via d'uscita alla crisi imperialistica e, più precisamente, se il PCI si accinga o meno a fare il suo ingresso nell'area di potere. Questo quesito ne contiene in sé un altro, cioè se il PCI sia o meno un partito socialdemocratico.
Tra socialdemocrazia e riformismo moderno le differenze sono numerose ed alcune di fondo. La socialdemocrazia è un fenomeno tipico di quelle fasi dello sviluppo capitalistico in cui le crisi seguono ancora un andamento ciclico: uscendo dai periodi di depressione, il capitalismo può, ricorrendo ad una politica riformista, "corrompere gli strati di aristocrazia operaia" che costituiscono i a base di massa della socialdemocrazia storica.
In altre parole, la possibilità di una ripresa produttiva consente alla borghesia un margine di contrattazione reale con la "destra operaia": ciò provoca, tra gli altri effetti, l'integrazione dei gruppi dirigenti dei partiti riformisti all'interno del blocco sociale che detiene il potere. L'alleanza tra borghesia e riformismo è dunque di natura sociale, oltre che politica: i socialdemocratici e gli "operai professionali" si schierano a fianco del padrone perché con esso hanno interessi reali comuni (la ripresa dell'accumulazione e la ristrutturazione produttiva) e perché ambiscono a diventare essi stessi padroni con fondate possibilità di riuscire a divenirlo. Inoltre, le particolari caratteristiche dello Stato in questa fase della storia del capitalismo facilitano l'ingresso della socialdemocrazia in quel governo che è da sempre l'anticamera del potere: lo Stato ancora relativamente autonomo dall'economia, giustifica in qualche misura l'illusione che sia possibile la sua conquista ed il suo utilizzo da parte della classe operaia.
Questi dati oggi non si danno più. La crisi del sistema imperialista non è prevedibile che sfoci in una ripresa dell'accumulazione, sia perché l'economia è entrata in una fase di stagnazione da cui si risolleverà solo con la guerra per una diversa ripartizione dei mercati, sia perché le politiche economiche adottate dagli stati tendono a restringere, anziché ad ampliare, la base produttiva. Mancano di conseguenza, tanto le basi strutturali (natura e andamento della crisi) quanto quelle soggettive (politiche dei governi e degli stati) per rendere possibile l'integrazione dei revisionisti in un blocco sociale che persegua una politica di tipo riformistico. O meglio: è ancora possibile che i revisionisti (il loro gruppo dirigente) siano temporaneamente ospitati all'interno del Governo, ma è escluso che esistano le condizioni per integrare strati di aristocrazia operaia o di ceti medi all'interno di un blocco di potere incaricato di gestire un tipo di sviluppo che non si può più dare, stante il carattere imperialistico e multinazionale del capitalismo della nostra epoca. Che cosa, infatti, possono concedere i capitalisti all'operaio professionale in cambio della sua collaborazione se non la cassa integrazione, licenziamenti, aumento dello sfruttamento e progressiva ma costante riduzione del potere d'acquisto dei salari? E comunque, al di là delle contropartite materiali, in quale ipotesi di sviluppo possono essere coinvolte, anche soltanto ideologicamente, quelle fasce di aristocrazie operaie che hanno ormai esaurito il loro potenziale progressista dal punto di vista del capitale?
L'assenza delle condizioni strutturali per la formazione di un nuovo blocco sociale di potere non esclude tutte le caratteristiche di questo rapporto che, d'altra parte, dipendono dalla situazione di classe, oltre che dal livello delle forze produttive.
Se a pagare il prezzo dell'ascesa al potere della socialdemocrazia storica furono prima di tutto i contadini, dal momento che la ripresa dell'accumulazione avveniva a scapito della campagna, oggi il rapporto preferenziale della borghesia imperialista con i revisionisti si fonda sull'individuazione del "proletariato emarginato" come variabile di cui è indispensabile detenere il controllo.
In altre parole, l'operaio professionale "dovrebbe diventare, simultaneamente, un vero e proprio soldato della produzione e funzionare come poliziotto sia nei confronti dei compagni di lavoro, sia soprattutto nei confronti della massa dei proletari marginalizzati della grande metropoli".
Per tutti questi motivi è inevitabile che la politica dei revisionisti perda progressivamente tutti i propri tratti riformistici per assumerne di apertamente repressivi: da progressiva, la funzione del PCI diventa così, di fatto ed indipendentemente dalla volontà dei suoi militanti, conservatrice, finalizzata com'è ad esercitare un rigido controllo sul mercato del lavoro e ad organizzare il consenso attorno ad un progetto di sviluppo economico e sociale che essendo per la natura dell'imperialismo, incapace di mobilitare e coinvolgere le masse (com'era riuscito a fare ad esempio il fascismo), costringerà sempre di più i revisionisti a ricorrere a strumenti coercitivi e ad imporre forzatamente il consenso, anziché a sollecitarlo e ad interpretarlo.
Questo avverrà perché, se l'imperialismo è capitalismo in putrefazione non si dà ulteriore sviluppo delle forze produttive senza sconvolgimento dei rapporti di produzione corrispondenti, ciò significa che la necessità di mantenerli inalterati si dovrà scontrare con la volontà di modificarli e che i partiti riformisti di tradizione operaia, da strumenti per la pace sociale si trasformeranno in altrettanti strumenti per la guerra civile.
In questo senso è possibile sostenere che i revisionisti sono al servizio dello Stato imperialista delle multinazionali e che la contraddizione con il revisionismo moderno, oltre ad essere antagonistica, va affrontata anche sul piano militare. Già oggi grazie alla mediazione dei revisionisti, la militarizzazione si estende dalla fabbrica al quartiere, ai rapporti interpersonali, alle famiglie, in una catena di rapporti sociali gerarchizzati e violenti, dominati dalle leggi di una società repressiva che l'imperialismo vorrebbe sempre più simile ad un lager di milioni di produttori.
Va tenuto presente, inoltre che, una delle ragioni per cui l'alleanza con il revisionismo moderno è auspicabile per la borghesia, consiste nella possibilità di penetrare più agevolmente nei mercati dell'Est europeo.
Oltre che dei progetti politici delle multinazionali nel loro complesso, il PCI è anche e soprattutto al servizio dello Stato imperialista in quanto imprenditore esso stesso: in questo caso il ruolo del PCI cessa di essere puramente subalterno, per divenire attivo, assumendo i caratteri riformistici di una ipotesi evoluzionistica e gradualistica di transizione al socialismo. La duplicità della funzione e della natura del PCI (da una parte, funzione poliziesca e natura conservatrice; dall'altra, funzione razionalizzatrice e natura riformistica) è probabile stia al fondo dei suoi successi elettorali e della stia "tenuta" in presenza di una lotta di classe che tocca i livelli sempre crescenti di maturità.
Se nei confronti dei monopoli e delle multinazionali l'atteggiamento del PCI è indiretto e passa attraverso la mediazione dello Stato, nei confronti dello Stato considerato come capitalista esso stesso, il punto di vista dei revisionisti ha più di un fenomeno teorico e trova giustificazione nel rilievo particolare che ha assunto (già durante il fascismo) e seguita ad assumere l'intervento dello Stato nell'economia italiana.
Alla base delle valutazioni del PCI sta "il recupero delle analisi di Engels e di Lenin sulla natura ambivalente del capitalismo di Stato, cioè è visto da un lato, come punto di massimo sviluppo del capitale e, dall'altro, come punto di sua massima contraddizione (sul quale incidere politicamente), in quanto espressione di una acutizzazione della contraddizione di fondo tra il carattere sempre più sociale della produzione capitalistica e il carattere privato dell'appropriazione del plusvalore". Da ciò, "una sorta di ottimismo sulla possibilità di 'uso' immediato degli strumenti di intervento statale e in particolare dell'impresa pubblica per fini diversi da quelli per cui sono nati".
Muovendo da questi presupposti teorici che ignorano non soltanto i rapporti tra Stato e multinazionali (al punto che i revisionisti giungono a favoleggiare un'alleanza fra classe operaia ed impresa pubblica in funzione antimonopolistica) ma persino gli interessi diretti che lo Stato, in quanto imprenditore, ha nella sfera della produzione, è conseguente che riformismo e repressione divengano facce di una stessa medaglia e che il PCI si riveli uno strumento, più o meno decisivo o più o meno accessorio, di divisione della classe operaia, di controllo del mercato del lavoro, di organizzazione del consenso e di repressione dell'autonomia proletaria e della rivoluzione.
All'interno del partito revisionista vive perciò anche una ambiguità tra due tendenze; una che potremmo definire impropriamente "ala sinistra della socialdemocrazia" la quale ha fatto proprio con l'accettazione della NATO anche il sistema di valori occidentali; l'altra che si ispira al "capitalismo di Stato" e che vede il "compromesso" come primo passo tattico in questa direzione. Ciò comporta che il legame tra il partito revisionista e il socialimperialismo sovietico viene a dipendere dalla posizione di maggior forza della seconda corrente rispetto, alla prima.
A livello europeo l'ultrarevisionismo cerca di porsi come forza autonoma, forza egemonizzante rispetto ad un'area politica che vede accomunati cani e porci della sinistra della socialdemocrazia, passando per i "vari eurocomunismi", per arrivare alle false incitazioni leniniste tipo Portogallo. Esso si pone nei confronti dell'imperialismo come forza interna-esterna, per questo ispira diffidenza a Carter e ai suoi vassalli europei, i quali sarebbero pure tentati di usarlo, ambiziosamente, in funzione catalizzante del "dissenso" nei paesi dell'Est; ma per il momento resta comunque un'arma a doppio taglio.
L'unica carta che l'ultrarevisionismo pareva avesse in mano, essere cioè garante della "pacificazione" dell'area meridionale dell'Europa, ha perso gran parte del suo valore in seguito allo sviluppo dei movimenti autonomisti di liberazione (ETA, IRA), alla crescita di forme di guerriglia metropolitana (RAF, NAPAP, BR) e alla crescita generalizzata dei movimenti autonomi di massa.
L'unità dell'eurocomunismo (dall'agente della CIA, Carrillo al fratello scemo di De Gaulle, Marchais) è l'unità dell'opportunismo: è l'unità dei rinnegati del marxismo-leninismo, del tradimento delle aspirazioni di emancipazione della classe operaia.