09. Violenza proletaria e controrivoluzione imperialista
Documento aggiornato al 07/02/2005
In questa fase storica, a questo punto della crisi, la pratica della violenza rivoluzionaria è l'unica politica che abbia una possibilità reale di affrontare e risolvere la contraddizione antagonistica che oppone proletariato metropolitano e borghesia imperialistica.
In questa fase la lotta di classe assume, per iniziativa delle avanguardie rivoluzionarie, la forma della guerra. Proprio questo impedisce al nemico di "normalizzare la situazione" e cioè di riportare una vittoria tattica sul movimento di lotta degli ultimi dieci anni e sui bisogni, le aspettative e le speranze che esso ha generato.
E' importante ciò che dice Habasch:
"... l'incapacità di distruggere la rivoluzione in una determinata fase è di per sé una vittoria per la rivoluzione. Attraverso questa verità, la politica della violenza si cristallizza come una tradizione delle masse, accelera e approfondisce il processo di formazione del partito... si intensifica progressivamente fino a riportare sul nemico una schiacciante vittoria."
Certo siamo noi a volere la guerra!
Siamo anche consapevoli del fatto che la pratica della violenza rivoluzionaria spinge il nemico ad affrontarla, lo costringe a muoversi, a vivere sul terreno della guerra: anzi ci proponiamo di fare emergere, di stanare la controrivoluzione imperialista dalle pieghe della società "democratica" dove in tempi migliori se ne stava comodamente nascosta!
Ma, detto questo, è necessario far chiarezza su un punto: non siamo noi a "creare" la controrivoluzione. Essa è la forma stessa che assume l'imperialismo nel suo divenire: non è un aspetto ma la sua sostanza. L'imperialismo è controrivoluzione. Far emergere attraverso la pratica della guerriglia questa fondamentale verità è il presupposto necessario della guerra di classe rivoluzionaria nella metropoli.
Fatta questa considerazione si capisce allora perché lo Stato imperialista impegni tutte le sue forze per negare alla violenza proletaria qualsiasi valenza politica. Si capisce perché, con metodi diretti o indiretti, esso cerca di annientare qualsiasi forza che non escluda nel modo più assoluto dai suoi metodi di lotta il ricorso a forme di violenza rivoluzionaria.
L'ordine sociale che lo Stato imperialista vorrebbe imporre presuppone la riduzione preventiva e generalizzata degli individui umani a "cose", in una società di cose retta in tutte le sue regioni dalle leggi del mercato capitalistico.
E' l'ordine impossibile della soppressione delle contraddizioni, del puro svolgersi quantitativo, dell'immutabile, della morte!
Come una bella attrice al volgere dei suoi anni e delle sue fortune, lo Stato imperialista vorrebbe bloccare il tempo, fermare la storia, ma ciò - nonostante la sua potenza - non è proprio possibile.
Anzi, ironia della storia, quanto più la legge del capitale si afferma in tutti gli interstizi della vita sociale e si fa generale, assoluta, tanto più genera, rendendo intollerabile la "qualità della vita", nuovi bisogni di liberazione e più radicali movimenti di lotta.
Ecco, questa è la contraddizione che sta portando la borghesia imperialista verso la sconfitta e che ci spiega perché essa non può ammettere, né tollerare, contraddizioni e comportamenti di classe antagonistici; perché non può riconoscerli se non come "devianze criminaloidi", "terrorismo", "insorgenze irrazionali", per usare una divertente definizione del ministro, "manifestazioni di follia ideologizzante".
In questo quadro la pretesa inaccettabile della borghesia imperialista recita così l'opposizione al regime per essere "politica" e con ciò legittima e tollerata, non deve manifestarsi come antagonismo in atto. Cioè deve accettare di svolgersi interamente dentro il cerchio magico tracciato dalle sue leggi, dalle sue convenzioni e dai suoi codici di comportamento sociale "normale". L'alternativa è: crimine!
Ferma questa pretesa, anche il concetto di "reato politico", mai negato dalle democrazie liberali, non ha più spazio per resistere. Diventa una contraddizione in termini: le due parti che compongono il concetto non sono forse assolutamente incompatibili? Come dire, gli "atti" politici, in quanto interni a leggi, patti, convenzioni, codici, non possono assumere la forma di reati. Se ciò avviene vuol dire che hanno sconfinato, dunque sono crimini.
E' fin troppo evidente che se questa tesi venisse accettata dalle classi subalterne ne determinerebbe automaticamente la subordinazione perenne al dominio della borghesia imperialista. Ma non c'è da spaventarsi perché in realtà questa tesi-limite non si dà come storicamente possibile in quanto il modo di produzione capitalistico non potrà mai impedire lo sviluppo delle forze produttive e quindi l'insorgere delle contraddizioni che determinano le condizioni dello scontro rivoluzionario.
In questa fase la lotta di classe assume, per iniziativa delle avanguardie rivoluzionarie, la forma della guerra. Proprio questo impedisce al nemico di "normalizzare la situazione" e cioè di riportare una vittoria tattica sul movimento di lotta degli ultimi dieci anni e sui bisogni, le aspettative e le speranze che esso ha generato.
E' importante ciò che dice Habasch:
"... l'incapacità di distruggere la rivoluzione in una determinata fase è di per sé una vittoria per la rivoluzione. Attraverso questa verità, la politica della violenza si cristallizza come una tradizione delle masse, accelera e approfondisce il processo di formazione del partito... si intensifica progressivamente fino a riportare sul nemico una schiacciante vittoria."
Certo siamo noi a volere la guerra!
Siamo anche consapevoli del fatto che la pratica della violenza rivoluzionaria spinge il nemico ad affrontarla, lo costringe a muoversi, a vivere sul terreno della guerra: anzi ci proponiamo di fare emergere, di stanare la controrivoluzione imperialista dalle pieghe della società "democratica" dove in tempi migliori se ne stava comodamente nascosta!
Ma, detto questo, è necessario far chiarezza su un punto: non siamo noi a "creare" la controrivoluzione. Essa è la forma stessa che assume l'imperialismo nel suo divenire: non è un aspetto ma la sua sostanza. L'imperialismo è controrivoluzione. Far emergere attraverso la pratica della guerriglia questa fondamentale verità è il presupposto necessario della guerra di classe rivoluzionaria nella metropoli.
Fatta questa considerazione si capisce allora perché lo Stato imperialista impegni tutte le sue forze per negare alla violenza proletaria qualsiasi valenza politica. Si capisce perché, con metodi diretti o indiretti, esso cerca di annientare qualsiasi forza che non escluda nel modo più assoluto dai suoi metodi di lotta il ricorso a forme di violenza rivoluzionaria.
L'ordine sociale che lo Stato imperialista vorrebbe imporre presuppone la riduzione preventiva e generalizzata degli individui umani a "cose", in una società di cose retta in tutte le sue regioni dalle leggi del mercato capitalistico.
E' l'ordine impossibile della soppressione delle contraddizioni, del puro svolgersi quantitativo, dell'immutabile, della morte!
Come una bella attrice al volgere dei suoi anni e delle sue fortune, lo Stato imperialista vorrebbe bloccare il tempo, fermare la storia, ma ciò - nonostante la sua potenza - non è proprio possibile.
Anzi, ironia della storia, quanto più la legge del capitale si afferma in tutti gli interstizi della vita sociale e si fa generale, assoluta, tanto più genera, rendendo intollerabile la "qualità della vita", nuovi bisogni di liberazione e più radicali movimenti di lotta.
Ecco, questa è la contraddizione che sta portando la borghesia imperialista verso la sconfitta e che ci spiega perché essa non può ammettere, né tollerare, contraddizioni e comportamenti di classe antagonistici; perché non può riconoscerli se non come "devianze criminaloidi", "terrorismo", "insorgenze irrazionali", per usare una divertente definizione del ministro, "manifestazioni di follia ideologizzante".
In questo quadro la pretesa inaccettabile della borghesia imperialista recita così l'opposizione al regime per essere "politica" e con ciò legittima e tollerata, non deve manifestarsi come antagonismo in atto. Cioè deve accettare di svolgersi interamente dentro il cerchio magico tracciato dalle sue leggi, dalle sue convenzioni e dai suoi codici di comportamento sociale "normale". L'alternativa è: crimine!
Ferma questa pretesa, anche il concetto di "reato politico", mai negato dalle democrazie liberali, non ha più spazio per resistere. Diventa una contraddizione in termini: le due parti che compongono il concetto non sono forse assolutamente incompatibili? Come dire, gli "atti" politici, in quanto interni a leggi, patti, convenzioni, codici, non possono assumere la forma di reati. Se ciò avviene vuol dire che hanno sconfinato, dunque sono crimini.
E' fin troppo evidente che se questa tesi venisse accettata dalle classi subalterne ne determinerebbe automaticamente la subordinazione perenne al dominio della borghesia imperialista. Ma non c'è da spaventarsi perché in realtà questa tesi-limite non si dà come storicamente possibile in quanto il modo di produzione capitalistico non potrà mai impedire lo sviluppo delle forze produttive e quindi l'insorgere delle contraddizioni che determinano le condizioni dello scontro rivoluzionario.