Parte II

03. L'emergenza italiana: il governo programmatico-parlamentare e la politica della fermezza

Memoriale Moro

Documento aggiornato al 12/02/2005
(Comm. Moro, 135, 137-141; Comm. stragi, II 210-233)

Innanzitutto io tengo, davanti a tante irrispettose insinuazioni, affermare che io, non fatto oggetto di alcuna coercizione personale, sono in pieno possesso delle mie facoltà intellettuali e volitive e che quel che dico, discutibile quanto si voglia, esprime il mio pensiero. Certo non posso dimenticare di essere qui a causa di un'azione di guerra, da venti giorni, nel corso dei quali ho vissuto, com'è immaginabile e inevitabile, in circostanze eccezionali. Ma non solo sono stato debitamente assistito, ma ho potuto lavorare e farmi le mie convinzioni lucidamente. Non si potrà dire pertanto domani che io in fondo trovavo giuste ed avallavo le posizioni delle forze politiche, a cominciare da quelle della D.C., ma si dovrà dire invece che le consideravo disumane, pericolose, politicamente improduttive. Il mio vivo stupore è stato di non trovare eco alcuna di queste complesse valutazioni nei dibattiti parlamentari, ma di coglierli grigi e privi di vibrazioni umane come non mai. Può essere che un Paese come l'Italia, ricco di sentimenti, capace di cogliere la sofferenza in tutte le sue forme per istinto indotto all'equità, sia stato così duro, spietato, miope, monocorde in questa circostanza. E' come se un'ondata di terrore, un rifiuto del ragionamento abbiano percorso e paralizzato il Paese e reso monotono un Parlamento, altra volta ricco di vibrazioni umane. Questa è l'amara constatazione nella quale si trova il segno di un impoverimento della nostra vita democratica, come se essa dovesse combattere con le armi e solo con le armi per la sua salvezza. E poi? E i contenuti di cui si discute con profonde differenze di metodo e di impostazione, ma che pure esistono e non possono essere annullati?
In precedenti messaggi, non coartato, ma facendo anzi riferimento ad idee precedentemente espresse, ho accennato all'eventualità di scambio di prigionieri politici. Non l'ho fatto solo perché anch'io mi trovavo tra essi, ostaggio come quelli cui alle Fosse Ardeatine non fu concesso di salvare la vita. L'ho fatto, certo anche pensando a me, ma sinceramente a prescindere da me, per ragioni generali di umanità, perché così si pratica in molti Paesi civili, perché vale ben poco affermare un astratto principio di legalità e poi sacrificare vite umane innocenti, perché la stessa sicurezza dello Stato guadagna da un minimo di distensione, come quando gruppi irriducibilmente ostili si disperdono fuori del territorio nazionale, sia pure acquisendo un po' di respiro che è loro altrimenti precluso. Mi si dimostri a che giovano le tensioni e le vittime come quelle dei vari processi di Torino, quando, con minor dispendio di vite umane e con il riconoscimento di ragioni di equità, i prigionieri potevano essere dispersi fuori del territorio nazionale e resi praticamente innocui. Così invece essi concorrono ad alimentare una guerra che è, si voglia o no, una guerra, non riconducibile ad un'operazione di polizia, non riportabile a comune delinquenza, ma espressione di una sfida essenzialmente politica, per ragioni di fondo che una visione riduttiva delle cose non gioverebbe a cogliere. Proprio perché il fenomeno è così complesso bisognerebbe rifletterci su molto e dare tempo al tempo, per pervenire ad una decisione accettabile ed efficace. Desidero ricordare la grande emozione che circondò, in modo ricorrente, le manifestazioni del terrorismo in Alto Adige. Fenomeno, a suo modo, durissimo e ben difficile da contenere. Ebbene in quel caso, non senza molte incertezze, fu trovata una formula politica che permise di placare gradualmente il fenomeno, soddisfacendo esigenze che, si dimostrò, andavano soddisfatte. Non sarò certo così superficiale da equiparare meccanicamente due fenomeni che hanno sì affinità, ma anche rilevanti diversità. Bisognerebbe andare perciò al fondo delle cose. Ma resta il fatto che una fretta semplificatoria ed irrigidente non portò a nessun risultato, come accadde invece con una politica più cauta, di tempi più lunghi, non priva, anche in prospettiva, di provvedimenti di clemenza, capace di ricondurre dalla sua rozza scorza di fatto terroristico, alla più complessa essenza di fenomeno politico.
Quel che vediamo particolarmente allineate in questa vicenda sono le forze politiche della D.C. e del Partito Comunista. Se sulla bocca del Sen. Saragat, se nel linguaggio del Partito Socialista italiano si colgono, pur con ovvia cautela, accenni umanitari e, sussurrati, accenni alla complessità del fenomeno, nei due Partiti ora citati sembra vi sia un eguale plumbeo rigore. Come se il Partito Comunista fosse infastidito di riscontrare un obiettivo riferimento a se medesimo di un fatto che è là, con indubbia vivacità, porta il segno di una più rigorosa coerenza di principi, non può essere liquidato sul piano del dibattito e del confronto, ma con una riduzione, tenuto conto della sua incisività, a fatto di dimensione criminale. La D.C. ha bisogno di dimostrare quanto essa acquista in efficienza e capacità di tenuta contro il disordine sociale e politico in forza del patto che ha testé stipulato. Per i comunisti il rigore, il rifiuto della flessibilità ed umanità, è un certificato di ineccepibile condotta. Per la D.C. è il contrassegno di un buon affare.
Capisco, la circostanza è eccezionale ed anche molto buona da cogliere. Chi oserebbe, proprio in momenti come questi, fare sfoggio di autonomia, riservarsi una posizione, articolare un dibattito come tanti ve ne sono stati, sempre ricchi e soprattutto vari nel Parlamento italiano? Ma se qualcuno in passato poté lamentare certi eccessi polemici, certe diversità di toni, il fatto che il Parlamento risultasse sempre multiforme, ora forse ha da lamentare il contrario e da questo primo esperimento, trarre la convinzione che ci si avvia a pochi, ben definiti indirizzi politici, che si può far presto quando si vuole, che l'ordine si ottiene se si paga. Se si paga con un rifiuto di spirito critico, con un certo equilibrio nelle cose, non con la rinuncia a ragioni di ordine, ma con il rifiuto della più piccola concessione, del più modesto riesame critico, dell'esitazione, anche solo l'esitazione, che ogni paese civile prova quando sono proposti così gravi problemi di coscienza.
D'altra parte la D.C., la cui sinistra umanitaria e democratica sembra essere diventata particolarmente fioca, mentre la destra evidentemente esalta la riconquista di un ordine altrimenti ritenuto impossibile, sembra sul punto, in presenza di questa in certo modo fortunata circostanza, di riassorbire le molte angosciose incertezze che hanno caratterizzato il travagliato cammino della crisi. Dio sa quanto è stato difficile questo cammino, caratterizzato dal timore che la Dc perdesse, anche elettoralmente, la sua identità, che essa non fosse più ricollocata in quella posizione che l'aveva resa accetta per la sua equilibrata conduzione delle cose. Ora è venuta questa prova, queste garanzie, di cui si era tanto dubitato, vengono date e non c'è un solo tentennamento né per il mai tradito umanesimo cristiano né per la carenza di quella saggezza politica che ha sempre consentito di affrontare con successo anche i fenomeni più intricati e complessi. E' vero, l'ordine è stabilito: non c'è alcuna indulgenza, ma un po' della Democrazia Cristiana se ne è andata. Ridurre la D.C. ad una sola dimensione può essere una vittoria apparente. Ridurre il PCI ad un ferreo blocco, senza, come si dice, alcuna connivenza, alcuna nostalgia di quel retroterra politico che sembra essere perduto, significa ridurre le, pur esigue, possibilità di una certa costruttiva normalizzazione della situazione nella forma di una distensione anche solo parziale. In questo quadro grande sembra essere la responsabilità del Partito Socialista in conformità delle sue antiche ed univoche tradizioni umanitarie e libertarie. E queste responsabilità coincidono con la diversità da esso sempre rivendicata (e non disconosciuta neppure dal Partito Comunista), dalla sua scelta strategica dell'alternativa di sinistra, dal suo rifiuto del compromesso storico come regime della unanimità (o quasi unanimità) e dell'irreversibilità degli assetti delle forze politiche.
Di fronte a molteplici richieste circa gli assetti economico sociali dell'Europa di domani, ed in essa dell'Italia, devo dire onestamente che quello che si ha di mira è il rinvigorimento, su base tecnocratica, del modo di produzione capitalistico, ovviamente temperato dalle moderne tecniche razionalizzatrici e con l'opportuna coesistenza di piccole e medie imprese e di botteghe artigianali. Ma il nerbo della nuova economia, assunto come condizione di efficienza, è l'imprenditorialità privata ed anche pubblica con opportuna divisione del lavoro. Questo modo di essere dell'Europa, strettamente legata all'America e da essa condizionata, non varia con il mutare, in generale, degli assetti interni dei vari Paesi, come si riscontra nella fiducia parimenti accordata a Governi laburisti o conservatori in Inghilterra come a Governi socialdemocratici o democristiani in Germania Occidentale. Anzi qualche volta maggior favore è andato alle formule socialdemocratiche nell'affermarsi di una ideologia di fondo produttivistica e tecnocratica Mitteleuropea. E' noto come questo indirizzo e questo spirito siano coltivati da libere organizzazioni paragovernative come la nota Trilateral.
Il senso dell'unione strettissima ideologica, economica, politica e militare può essere trovato in un episodio, di notevole durata, ma unitario nel suo significato, verificatosi qualche anno fa all'inizio della gestione Kissinger. Il Segretario di Stato aveva proclamato (non ricordo se tra il 72 o il 73) l'anno dell'Europa e cioè uno sforzo di collocazione dell'Europa nel quadro mondiale e nel contesto della politica americana. L'intendimento apparentemente di esaltazione dell'Europa, era in realtà, come fu subito (ma invano) rilevato, altamente riduttivo, poiché si trattava di ridurre l'Europa a dimensione regionale, lasciando ovviamente all'America lo spazio proprio della grandissima potenza con riflesso mondiale. E ciò, va sottolineato, in senso non solo politico, ma ovviamente economico e militare. Le reazioni naturalmente non mancarono, ma sia pure con qualche tempo e qualche fatica, furono fatte rientrare. Rientrare nel senso dell'adeguamento alle esigenze della politica americana. Sta di fatto che nelle sedi diplomatiche (Nato da una parte; Comunità economica europea dall'altra) si cercava di elaborare due carte: una per l'aggiornamento della Nato ai nuovi tempi, tenendo conto, tra l'altro, dell'esistenza di un'Europa in via di unificazione; l'altra per la definizione di una identità europea, la quale doveva essere economica, politica e in certo senso militare (ma c'era l'Irlanda neutrale) e doveva veder definiti i suoi rapporti nel senso dell'autonomia, ma anche delle relazioni con l'Ovest, con l'Est e con il Sud (terzo mondo). In realtà gli sforzi nelle varie sedi per questi nuovi aggiornamenti programmatici procedevano con estrema fatica e modesti risultati. Poiché quello che la parte americana, rappresentata da un Kissinger particolarmente reattivo, [contrastava] era il fatto nuovo, anche se assai pallido, dell'unità europea e della sua reale autonomia (salvi i normali rapporti) nei confronti dell'America. Si andò avanti così del tempo, finché una provvida riunione tenuta a [Gimnich] in Germania, proprio per mediazione tedesca ed inglese, risolse il problema eliminandolo, sicché in un'atmosfera da Club Privato (forse era così la Trilateral che io non ho frequentato mai) non si parlò più di una carta sull'identità, e cioè sull'autonomia, dell'Europa e si pose la premessa per la nuova carta atlantica sancita qualche tempo dopo ad Ottawa e nella quale il riferimento all'Europa nel contesto atlantico era limitatissimo fino ad essere praticamente inesistente. Cadde così l'unico tentativo che fu fatto con un certo impegno da parte europea, per rivendicare la propria identità ed autonomia e restò il fatto di uno spazio economico che, a parte gli sforzi, in declino, per commerciare a base di prestiti con l'Est europeo, i tentativi del dialogo euro arabo e le iniziative individuali di questo o quel Paese, fu saldamente legato a quello americano. E' ovvio poi che le regole del gioco nella comunità economica europea porta[ro]no a regolamentazioni, contemperamenti, limitazioni e riconoscimenti di spazi con i quali si gestiva la politica comunitaria. In questa realtà delicata e complessa dovrà inserirsi il Partito comunista, dimostra[re] se e come esso sia capace di non soggiacere ad un meccanismo che corrisponde ad una logica diversa dalla sua.
La storia dell'ingresso del PCI nell'area, come si dice, della maggioranza programmatico-parlamentare è molto lunga e complessa. Essa prende le sue mosse dall'insoddisfacente andamento dell'attuazione del programma di luglio, fermo in tutto ed anche nei punti minuziosamente stipulati, dall'inquietudine crescente ed infine rabbia operaia, dal malcontento alla base e la frequente divisione ai vertici del Partito, sembra con punte polemiche acute di Pajetta, Longo e lo stesso Chiaromonte. A quel momento assai delicato, ma nel quale sembrava che il Partito Comunista ancora dominasse la sua base, si verificò la grande adunata dei metalmeccanici, non sembra propriamente dovuta ad iniziativa comunista, che espresse vivissimo malcontento e pose in discussione il Governo Andreotti. Bisogna ricordare che la permanenza del regime della non sfiducia era stata chiesta inderogabilmente da parte democristiana al tempo dell'accordo programmatico di luglio e i comunisti accedettero sottovalutando l'aspetto della formula o garanzia, [al]le quali gli altri Partiti, socialisti in testa, attribuivano grande importanza. Ma essi si dovettero fermare davanti al possibilismo del PCI. Ebbene fu questo punto che fu posto a base della nuova impostazione, quando il PCI passò all'offensiva e fece intravedere la crisi di governo. Si voleva infatti un governo di emergenza, al quale partecipassero tutti gli altri partiti, compresi comunisti e socialisti. La richiesta fu più volte sottolineata, ma non poté trovare accoglimento da parte della D.C., la quale pressoché unanime dichiarò di preferire di gran lunga le elezioni ad un assetto governativo che avrebbe dato la sensazione di una vera alleanza tra i partiti, anche se stipulata nel segno dell'emergenza. Ma dato lo stato dell'economia, doveva comunque trattarsi di una emergenza di lunga durata. Il PCI prese atto che questa via era impraticabile e che nessun dirigente avrebbe avuto l'autorità di consigliarla e di ottenerne l'accettazione. Forse questo possibilismo comunista era già calcolato in anticipo. Non così quello della D.C. il quale rimase obiettivamente incerto per parecchio tempo, non essendo chiaro come la D.C. avrebbe risposto, o avrebbe potuto rispondere, ad una richiesta di vedere il comunismo partecipare ad una maggioranza, chiara, esplicita e contrattata.
L'iniziativa immaginata dall'On. Moro, di coinvolgere i gruppi parlamentari prima, il Consiglio Nazionale poi per un grande dibattito di fondo che rendesse apertamente responsabile tutta la D.C. non andò in porto, perché ritenuta troppo impegnativa. Si preferì, dopo non poche tensioni le quali videro coinvolti specie i capi dei gruppi parlamentari, una politica di piccoli passi, da effettuare in Direzione, escludendo maggioranza politica e coalizioni di governo, e puntando sull'aspetto programmatico-parlamentare. La deliberazione era avvolta in un'atmosfera confusa che ne rendeva sfumato il significato, il quale avrebbe poi dovuto definirsi nell'ulteriore elaborazione programmatica. Bisogna dire per chiarezza che non era la D.C. a premere per il raggiungimento dell'accordo, ma invece il partito comunista, cui premeva una qualche forma di accesso al potere, per il quale era disposto a pagare il prezzo di un programma di sacrifici ritenuti da Lama e dal Partito necessari per risollevare la situazione economica e riprendere lo sviluppo produttivo. La D.C. non era certo in dissenso circa questa necessità, ma essa non fece pressioni, non essendo parte richiedente. Peraltro, se l'accordo si fosse dovuto fare, avrebbe dovuto contemplare dei sacrifici, ritenuti funzionali alla ripresa graduale dello sviluppo. Mentre dunque il programma nei suoi vari punti si andava elaborando ed i gruppi della D.C. insistevano per impegni precisi, limitati, chiari, si poneva in una grande assemblea dei due gruppi riuniti quel dibattito che l'On. Moro aveva immaginato [avesse] dovuto precedere il Consiglio Nazionale. Il dibattito è stato molto ampio ed in qualche punto oscuro nella sua portata e nelle sue conseguenze. Contese di gruppi i quali rivendicavano cifre di aderenti tra loro incompatibili, timori di veti per la partecipazione al governo, incertezze sul programma, perduranti difficoltà sui punti politici; erano tutte queste cose un groviglio che l'On. Moro cercò di tagliare con un'argomentazione di fondo sulla opportunità di evitare al paese il trauma delle elezioni, della necessità di realizzare una tregua fino alla presidenza della repubblica, di rispettare lo stato di emergenza che sul terreno economico e politico era una indiscutibile realtà. Non furono usati strumenti magici, ma quelli del senso comune. Il computo dei voti non poté essere molto preciso, perché, per evidente convenienza, si unificarono mozioni e relativi sottoscrittori. Non mancò qualche polemica retrospettiva, ma il Governo si poté dire costituito, salvo qualche strascico sulla composizione. La formula era quella della maggioranza programmatico-parlamentare, la quale nascondeva sin troppo bene una reale maggioranza politica. L'impegno reciproco era temporaneo, fino all'elezione cioè della presidenza della repubblica, e sul dopo regnava grande incertezza, poiché nessuno avrebbe potuto o saprebbe dire, se dopo quella data si sarebbe arrivati all'incontro o allo scontro. Una tipica tregua cioè che lascia aperte tutte le questioni. Fatto sta che in questo momento il Partito Comunista si trova vincolato con la D.C. in una politica diretta a superare la crisi attraverso sacrifici ritenuti indispensabili.
Per quanto riguarda le forze in campo, si può dire che la Chiesa sia stata molto riservata, la classe imprenditoriale divisa ed incerta, il mondo operaio piuttosto diffidente e diviso, rassegnato, più che convinto, il ceto borghese. Dato quello che si è detto prima, si può dire che la Comunità europea era estremamente diffidente, salva la preoccupazione della Commissione che una più lunga crisi facesse perdere tempo (segnalazione del Commissario Natali). Gli stati europei in quanto tali e la Comunità erano per ovvie ragioni ostili. Ed ostili pure gli Stati Uniti d'America. A questo proposito si noterà il contemporaneo evolvere della crisi in Francia ed in Italia. In Francia ci sono state (visita di Carter, incontro con Mitterrand) alcune iniziative variamente valutabili e che si potevano forse interpretare come segno di un interesse molto vivo, anche se spesso mal diretto e male espresso. Nel quadro dell'Europa si può dire, mi pare, che la Francia conti di più e che la sua presenza nello schieramento politico militare atlantico (benché la Francia non faccia parte della Nato) sia ritenuto più importante e decisivo. In definitiva una sconfitta di Giscard avrebbe pesato di più che un mezzo successo di Berlinguer, pur essendo quest'ultimo a capo di un partito più potente. Il mezzo, o comunque parziale, successo di Berlinguer non è certo piaciuto, non è stato accettato, ma è stato lasciato passare per molteplici ragioni: la necessità, l'emergenza, la precarietà della situazione, l'attesa degli eventi, forse un minimo d'incertezza su quel che significa o può significare eurocomunismo, che l'Amministrazione Nixon bollava a sangue, ma quella Carter forse guarda con occhio, se non favorevole, perplesso. Si può dire dunque che Berlinguer sia entrato con lo sguardo benevolo del detentore del potere. Ma se si guardano le cose che stanno accadendo e la durezza senza compromessi (come per scansare un sospetto) della posizione di Berlinguer (oltre che di altri) sull'odierna vicenda delle Brigate Rosse, è difficile scacciare il sospetto che tanto rigore serva al nuovo inquilino della sede del potere in Italia per dire che esso ha tutte le carte in regola, che non c'è da temere defezioni, che la linea sarà inflessibile e che l'Italia ed i Paesi europei nel loro complesso hanno più da guadagnare che da perdere da una presenza comunista al potere. E la D.C., conservando il Governo in modo così rigoroso senza un attimo di ripensamento, dice che con il PCI sta bene e che esso è il suo alleato degli anni '80.
Qualche considerazione finale si può fare, al termine, sull'atteggiamento di quella che si suole chiamare la destra nuova, la destra tecnocratica della D.C. Questo gruppo si è molto agitato, sino a strapparsi le vesti. Correva più che tutto l'idea del voto contrario. Io non so come le cose siano andate a finire, non mi sembra che la sollecitudine ed il rigore propiziati per il rapimento possano aver fatto rientrare per lo più questa crisi di coscienza. E se si pone mente all'austerità senza spiragli del Partito Comunista, a questa prima prova data di salvezza del sistema, si può pensare che almeno per ora l'atteggiamento debba essere considerato di riguardo e di benevola attesa. Non che naturalmente tutti i problemi siano finiti né con gl'italiani né con gli americani. Ma certo è un caso a sé, pieno di obiettive conseguenze in una situazione molto delicata.
 
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