Parte II
04. La politica dell'Italia in Medio Oriente
Memoriale Moro
Documento aggiornato al 12/02/2005
(Comm. Moro, 167-168; Comm. stragi, II 238-243)
Un capitolo importante della nostra politica estera e, in certo senso, generale, di questi trent'anni è quello relativo al Medio Oriente. Data la complessità e minuziosità degli avvenimenti non ne è possibile, e tanto meno a memoria, una ricostruzione compiuta. Si può cogliere però il filo orientatore del discorso, sia perché si tratta di regione a noi vicina e strettamente collegata, sia perché questo tema ha molte risonanze di politica interna ed internazionale. Si ricorderà infatti, a quest'ultimo proposito, i rigidi schieramenti di opinione pubblica che accompagnarono i momenti salienti di queste vicende, con iniziale rilevante prevalenza dello schieramento filo israeliano forse per la supposizione inesatta che l'altra tesi comportasse la rinuncia alla integrità e sicurezza d'Israele. In questo campo l'Italia si trovò perciò frequentemente in difficoltà anche per le intuibili pressioni americane le quali tenevano limitato conto degli interessi propri del nostro Paese e, a parte ogni ragione di giustizia, del gran mare arabo entro il quale si trovava arroccato il pur potentissimo Israele. Talché, ai più saggi, anche in dialogo con gl'lsraeliani (Golda Meyr) toccava dire di non contare troppo sul fattore tempo, perché probabilmente il tempo non giocava a favore d'Israele. In talune occasioni, come è noto, la potenza americana riuscì a disinnescare la guerra, bloccando truppe già avviate all'attacco. Rimase comunque sempre una profonda ferita che il mondo arabo, anche nel momento delle sue migliori disposizioni, non ha potuto considerare sanata. Io stesso, in occasione della speciale dell'Onu, mi pare intorno al 67, ebbi la prova nell'appassionato dibattito in aula e nei contatti bilaterali, della difficilissima conciliabilità dei punti di vista. Ricordo di quell'epoca numerosi incontri in compagnia dell'On. Fanfani e, oltre che con tutte le parti in causa, con i grandi del tempo: Kossighin e Gromiko in un lungo e cordiale incontro conviviale ed il Presidente Johnson. Si vedevano le posizioni di fondo, le compatibilità o non compatibilità, delle varie parti. Ma si avvertiva, come si avverte ancora, il limite costituito dall'impossibilità di imporre con la forza il ritiro agli Israeliani (anche da parte sovietica) e l'estrema difficoltà di costruire e armonizzare un modus vivendi pacifico in una qualche forma, rispettando ovviamente essenziali ragioni di giustizia. Non è difficile perciò spiegare come questa sostanziale tregua non negoziata e con comprensibili acuti momenti di tensione non era destinata a sfociare nella pace, ma nella guerra, come infatti avvenne. E fu questa volta, negli anni settanta, la guerra più difficile per la lunga inutile stasi, per ragioni psicologiche, per l'ira non repressa (e non reprimibile) dei Palestinesi, per la solidarietà tra Paesi arabi diversi, ricchi e poveri, per il ricorso alla limitazione delle forniture ed al rialzo del prezzo del petrolio, fatto quest'ultimo, che, con tutte le sue buone ragioni, ha rappresentato l'inizio di una fase assai più difficile dell'economia dei paesi industrializzati dell'occidente. L'Europa sotto la stretta della necessità, e malgrado le remore di reiterati e robusti interventi americani, coglieva la prima intuizione di quel dialogo euro arabo che era la condizione naturale del nostro continente (e avrebbe dovuto finire per interessare anche l'Urss, come dissi più volte a Gromiko). Io, per parte mia, dichiarai nel '70 alla Commissione Esteri della Camera che i Palestinesi semplicemente attendevano non degli aiuti, ma una patria. Lo dissi con il consenso di larga parte dello schieramento e riserve a destra e centro destra. Ma il punto, serio, di conflitto con gli americani e con il Sig. Kissinger era la vincolabilità della crisi con i moduli politico militari della Nato e l'uso di nostri punti di approdo o di atterraggio per i rifornimenti americani alla parte israeliana. Noi, con non piccolo rischio di frizione con il potente alleato, negammo, soprattutto in vista di un mancato preavvertimento e di un'adeguata spiegazione di ragioni e finalità, che quella potesse essere considerata una crisi Nato e suscettibile perciò di dibattito e d'indirizzo in quella sede. E rifiutammo i punti di appoggio che venivano richiesti per i rifornimenti ad Israele nel corso della guerra, che ebbe vicende alterne e che durò ancora.
Il nuovo orientamento proarabo, o almeno più calibrato di Europa ed Italia continuò ad essere maldigerito dagli americani che sul fatto, sulle modalità, sui limiti, sui presupposti politici del dialogo euro arabo continuarono ad intervenire, con l'effetto di rallentare alquanto il ritmo dell'operazione e svuotarla di una parte del suo contenuto. Questa era in larga parte la posizione personale di Kissinger che del resto non ne fece mistero e coltivò un'animosità per la parte italiana e per la mia persona, che venne qualificata, come mi fu chiarito in sede obiettiva e come risultò da episodi certamente spiacevoli, come protesa ad una intesa indiscriminata con il Pci, mentre la mia, com'è noto, è una meditata e misurata valutazione politica, come ho avuto modo di esporla e realizzarla nelle fortunose vicende di questi ultimi tempi.
Un capitolo importante della nostra politica estera e, in certo senso, generale, di questi trent'anni è quello relativo al Medio Oriente. Data la complessità e minuziosità degli avvenimenti non ne è possibile, e tanto meno a memoria, una ricostruzione compiuta. Si può cogliere però il filo orientatore del discorso, sia perché si tratta di regione a noi vicina e strettamente collegata, sia perché questo tema ha molte risonanze di politica interna ed internazionale. Si ricorderà infatti, a quest'ultimo proposito, i rigidi schieramenti di opinione pubblica che accompagnarono i momenti salienti di queste vicende, con iniziale rilevante prevalenza dello schieramento filo israeliano forse per la supposizione inesatta che l'altra tesi comportasse la rinuncia alla integrità e sicurezza d'Israele. In questo campo l'Italia si trovò perciò frequentemente in difficoltà anche per le intuibili pressioni americane le quali tenevano limitato conto degli interessi propri del nostro Paese e, a parte ogni ragione di giustizia, del gran mare arabo entro il quale si trovava arroccato il pur potentissimo Israele. Talché, ai più saggi, anche in dialogo con gl'lsraeliani (Golda Meyr) toccava dire di non contare troppo sul fattore tempo, perché probabilmente il tempo non giocava a favore d'Israele. In talune occasioni, come è noto, la potenza americana riuscì a disinnescare la guerra, bloccando truppe già avviate all'attacco. Rimase comunque sempre una profonda ferita che il mondo arabo, anche nel momento delle sue migliori disposizioni, non ha potuto considerare sanata. Io stesso, in occasione della speciale dell'Onu, mi pare intorno al 67, ebbi la prova nell'appassionato dibattito in aula e nei contatti bilaterali, della difficilissima conciliabilità dei punti di vista. Ricordo di quell'epoca numerosi incontri in compagnia dell'On. Fanfani e, oltre che con tutte le parti in causa, con i grandi del tempo: Kossighin e Gromiko in un lungo e cordiale incontro conviviale ed il Presidente Johnson. Si vedevano le posizioni di fondo, le compatibilità o non compatibilità, delle varie parti. Ma si avvertiva, come si avverte ancora, il limite costituito dall'impossibilità di imporre con la forza il ritiro agli Israeliani (anche da parte sovietica) e l'estrema difficoltà di costruire e armonizzare un modus vivendi pacifico in una qualche forma, rispettando ovviamente essenziali ragioni di giustizia. Non è difficile perciò spiegare come questa sostanziale tregua non negoziata e con comprensibili acuti momenti di tensione non era destinata a sfociare nella pace, ma nella guerra, come infatti avvenne. E fu questa volta, negli anni settanta, la guerra più difficile per la lunga inutile stasi, per ragioni psicologiche, per l'ira non repressa (e non reprimibile) dei Palestinesi, per la solidarietà tra Paesi arabi diversi, ricchi e poveri, per il ricorso alla limitazione delle forniture ed al rialzo del prezzo del petrolio, fatto quest'ultimo, che, con tutte le sue buone ragioni, ha rappresentato l'inizio di una fase assai più difficile dell'economia dei paesi industrializzati dell'occidente. L'Europa sotto la stretta della necessità, e malgrado le remore di reiterati e robusti interventi americani, coglieva la prima intuizione di quel dialogo euro arabo che era la condizione naturale del nostro continente (e avrebbe dovuto finire per interessare anche l'Urss, come dissi più volte a Gromiko). Io, per parte mia, dichiarai nel '70 alla Commissione Esteri della Camera che i Palestinesi semplicemente attendevano non degli aiuti, ma una patria. Lo dissi con il consenso di larga parte dello schieramento e riserve a destra e centro destra. Ma il punto, serio, di conflitto con gli americani e con il Sig. Kissinger era la vincolabilità della crisi con i moduli politico militari della Nato e l'uso di nostri punti di approdo o di atterraggio per i rifornimenti americani alla parte israeliana. Noi, con non piccolo rischio di frizione con il potente alleato, negammo, soprattutto in vista di un mancato preavvertimento e di un'adeguata spiegazione di ragioni e finalità, che quella potesse essere considerata una crisi Nato e suscettibile perciò di dibattito e d'indirizzo in quella sede. E rifiutammo i punti di appoggio che venivano richiesti per i rifornimenti ad Israele nel corso della guerra, che ebbe vicende alterne e che durò ancora.
Il nuovo orientamento proarabo, o almeno più calibrato di Europa ed Italia continuò ad essere maldigerito dagli americani che sul fatto, sulle modalità, sui limiti, sui presupposti politici del dialogo euro arabo continuarono ad intervenire, con l'effetto di rallentare alquanto il ritmo dell'operazione e svuotarla di una parte del suo contenuto. Questa era in larga parte la posizione personale di Kissinger che del resto non ne fece mistero e coltivò un'animosità per la parte italiana e per la mia persona, che venne qualificata, come mi fu chiarito in sede obiettiva e come risultò da episodi certamente spiacevoli, come protesa ad una intesa indiscriminata con il Pci, mentre la mia, com'è noto, è una meditata e misurata valutazione politica, come ho avuto modo di esporla e realizzarla nelle fortunose vicende di questi ultimi tempi.