Parte II
05. La nomina dell'On. Moro alla Presidenza della DC
Memoriale Moro
Documento aggiornato al 12/02/2005
(Comm. Moro, 169-170; Comm. stragi II 308-314)
Si parla da varie parti delle funzioni che io ho esercitato per un trentennio nella gestione della D.C. e della mia attuale qualità di Presidente della stessa. Credo sia giusto precisare con molta oggettività.
Sul primo punto dirò solo rapidamente, perché in larga parte è storia a tutti nota, che io sono, come tanti altri, entrato nella D.C. con la spontaneità e l'entusiasmo di una scelta, più che politica, religiosa; dal fervido ambiente associativo dell'Azione Cattolica, ed in ispecie della Fuci, e delle Acli, di cui fui tra i fondatori. Si era nell'ambito di quella che si chiamava la dottrina sociale della Chiesa, fondata sulla proprietà (tra altri diritti naturali) con una precisa funzione sociale però, il tutto aggiornato dal Codice Sociale di Malines e da quello di Camaldoli. In quel fervore iniziale c'era più fede che arte politica e tale stato d'animo restò per molti a lungo, tanto che si può parlare di quella come una D.C. religiosa di contro a quella laica che sopravvenne poi. S'intende bene che nemmeno quella prima, di cui ora abbiamo parlato, metteva in discussione l'autonomia della D.C. dalla Chiesa e della Chiesa dalla D.C. Ma è innegabile che quanto ai contenuti nella prima vibrava di più l'anima religiosa. La laicizzazione si è poi progressivamente accentuata nella terza o addirittura nella quarta D.C. che sta per nascere nell'ultimissima fase degli anni settanta. Francamente questa progressiva laicizzazione, auspicata da molti, può essere una necessità di contenuti tecnocratici e di conquista del consenso sociale, ma non è un bene né facilita equilibri costruttivi nella complessa realtà politica italiana. A parte questa origine, che tengo molto a rivendicare, perché senza di essa non sarei stato democratico cristiano, sarei stato chi sa che cosa o niente, non posso negare di avere esercitato funzioni di rilievo. Però è giusto che io leghi strettamente alla ispirazione religioso-sociale tutta la prima, entusiasmante, parte del mio lavoro alla Costituente con uomini come Togliatti, La Pira, Basso, Marchesi, Dossetti, con i quali sempre serbai stretta amicizia, la presidenza del Gruppo parlamentare dopo il 53, in un fair play con Togliatti semplicemente perfetto ed ancora le attività, che chiamerò umanistiche, di Ministro della Giustizia e di Ministro dell'Istruzione. Poi cominciarono le fasi più politiche, rivolte alla saldatura del partito dopo la grossa scossa della Domus Mariae ed alla preparazione urgente del centro-sinistra che ormai si affacciava come fatto non eludibile. S'iniziava cosi lo spostamento verso sinistra dell'asse politico del Paese, anche per l'insistenza dei partiti intermedi e per robuste ragioni politiche, delle quali ogni osservatore sereno non può disconoscere la validità.
Dopo vari governi (ed una sensibile attività al Ministero degli Esteri) si pervenne alle elezioni del 20 giugno, in occasione delle quali io, fatto il mio dovere, ero fermamente deciso a ritirarmi dalla attività politica. Notificai e confermai al Segretario la mia decisione convinto come ero che, a parte la inevitabile stanchezza e l'esaurimento della persona, il concorrere con il proprio ritiro (perché di questo si tratta) al rinnovamento del Partito, sia un serio dovere per tutti e lo era certamente per me. In questo proposito ero facilitato dal fatto che non vi erano grossi problemi di successione. La grossa parte della D.C. che si era raccolta con Forlani contro Zaccagnini aveva da tempo in Andreotti il suo candidato, del resto accetto anche ad altri, a Zaccagnini in ispecie, nella speranza, lungamente coltivata, che i buoni suoi rapporti con l'On. Mancini avrebbero fatto il miracolo di risuscitare collaborativi rapporti tra democristiani e socialisti. Così non fu, ma Andreotti s'impose ugualmente con le proprie doti e capacità. Il Sen. Fanfani mi fece presente che se Zaccagnini fosse rimasto alla Segreteria, era giocoforza che io abbandonassi il Governo. Risposi che mi andava bene Zaccagnini e mi andava bene di lasciare il Governo.
In questo contesto stava maturando tranquillamente il mio desiderato abbandono della politica attiva. Si fece cenno in quel punto alla posizione di Presidente della Camera, carica che io ho sempre considerato espressione del Parlamento e non dei partiti e per la quale, interpellato non dissi un no secco, ritenendola coerente con la mia decisione di lasciare la politica attiva. Ma se ne parlò solo per un minuto, sia per lo scrupolo che mi prese di non recare involontariamente danno al Sen. Fanfani, sia perché vennero da me persuasori più o meno occulti per indurmi a rendere possibile la mia nomina alla Presidenza del Consiglio Nazionale in successione dell'On. Fanfani. Le pressioni, alle quali opponevo la mia decisa non disponibilità, furono enormi, da parte di Zaccagnini, Fanfani, Salvi, Morlino, ed anche una persona per la quale ho il più grande rispetto, il giudice costituzionale Elia (allora non ancora in carica). Mi si prospettavano ragioni contraddittorie. L'On. Galloni, con la sua bella e tranquilla semplicità, assicurava trattarsi di una carica onorifica. E tale, in effetti, onestamente essa era stata ed era come presidenza del Consiglio Nazionale (mai del Partito), divenuta di ancor minor peso, dopo che si era pervenuti all'elezione in Assemblea del Segretario Nazionale, vero capo del partito. Dall'altra parte si faceva valere che era comunque utile, a parte le competenze statutarie (veramente inesistenti), associare al fascino indiscutibile della personalità, o, come si dice, della fama e del nome di Zaccagnini una certa esperienza politica per il tempo limitato che mancava al nuovo congresso. Io fui bloccato in maniera perentoria e dovetti assumere questa carica impropria e per la quale avevo una totale riluttanza. Naturalmente l'assetto fu poi quello che risultava dagli statuti. Zaccagnini non poteva, pur con tutto il suo buon cuore, cambiare le carte in tavola e sue giustamente rimasero tutte le competenze della gestione interna di partito, dei rapporti con la periferia, delle relazioni con i gruppi parlamentari, tenute in modo significativo, quando Zaccagnini era assente (e fu anche malato) da Galloni e non da me. Dispiace che, cosi stando le cose, un Segretario della specchiata rettitudine di Zaccagnini, non alzi più alta la voce, per dire che io sono stato là, su richiesta sua e dei suoi amici, restando intatte le sue competenze, con una funzione limitata e appena un po' al di sopra delle ragioni cerimoniali, alle quali accennava a suo tempo l'On. Galloni. Conscio dei miei doveri verso la verità, non voglio dire di non aver fatto nulla né di non aver auspicato lo sbocco politico che si è poi verificato. Ma l'ho fatto come potevo, con 4 discorsi pubblici ed uno ai gruppi parlamentari (in sostituzione del Segretario ammalato) e qualche colloquio individuale, posato ed amichevole. E stupisce e, francamente, addolora il fatto che la D.C. s'irrigidisca, come si è irrigidita, senza sentire, oltre che doveri umanitari e ragioni politiche generali, il dovere di non lasciare allo sbaraglio per una ragione di principio mal posta un vecchio ex dirigente che ha chiamato in causa per i suoi meccanismi interni ed ha poi sacrificato per quanto riguarda sacrosante ragioni familiari, senza pensarci a fondo, con più serietà, con un'autentica valutazione del caso e delle sue implicazioni.
Si parla da varie parti delle funzioni che io ho esercitato per un trentennio nella gestione della D.C. e della mia attuale qualità di Presidente della stessa. Credo sia giusto precisare con molta oggettività.
Sul primo punto dirò solo rapidamente, perché in larga parte è storia a tutti nota, che io sono, come tanti altri, entrato nella D.C. con la spontaneità e l'entusiasmo di una scelta, più che politica, religiosa; dal fervido ambiente associativo dell'Azione Cattolica, ed in ispecie della Fuci, e delle Acli, di cui fui tra i fondatori. Si era nell'ambito di quella che si chiamava la dottrina sociale della Chiesa, fondata sulla proprietà (tra altri diritti naturali) con una precisa funzione sociale però, il tutto aggiornato dal Codice Sociale di Malines e da quello di Camaldoli. In quel fervore iniziale c'era più fede che arte politica e tale stato d'animo restò per molti a lungo, tanto che si può parlare di quella come una D.C. religiosa di contro a quella laica che sopravvenne poi. S'intende bene che nemmeno quella prima, di cui ora abbiamo parlato, metteva in discussione l'autonomia della D.C. dalla Chiesa e della Chiesa dalla D.C. Ma è innegabile che quanto ai contenuti nella prima vibrava di più l'anima religiosa. La laicizzazione si è poi progressivamente accentuata nella terza o addirittura nella quarta D.C. che sta per nascere nell'ultimissima fase degli anni settanta. Francamente questa progressiva laicizzazione, auspicata da molti, può essere una necessità di contenuti tecnocratici e di conquista del consenso sociale, ma non è un bene né facilita equilibri costruttivi nella complessa realtà politica italiana. A parte questa origine, che tengo molto a rivendicare, perché senza di essa non sarei stato democratico cristiano, sarei stato chi sa che cosa o niente, non posso negare di avere esercitato funzioni di rilievo. Però è giusto che io leghi strettamente alla ispirazione religioso-sociale tutta la prima, entusiasmante, parte del mio lavoro alla Costituente con uomini come Togliatti, La Pira, Basso, Marchesi, Dossetti, con i quali sempre serbai stretta amicizia, la presidenza del Gruppo parlamentare dopo il 53, in un fair play con Togliatti semplicemente perfetto ed ancora le attività, che chiamerò umanistiche, di Ministro della Giustizia e di Ministro dell'Istruzione. Poi cominciarono le fasi più politiche, rivolte alla saldatura del partito dopo la grossa scossa della Domus Mariae ed alla preparazione urgente del centro-sinistra che ormai si affacciava come fatto non eludibile. S'iniziava cosi lo spostamento verso sinistra dell'asse politico del Paese, anche per l'insistenza dei partiti intermedi e per robuste ragioni politiche, delle quali ogni osservatore sereno non può disconoscere la validità.
Dopo vari governi (ed una sensibile attività al Ministero degli Esteri) si pervenne alle elezioni del 20 giugno, in occasione delle quali io, fatto il mio dovere, ero fermamente deciso a ritirarmi dalla attività politica. Notificai e confermai al Segretario la mia decisione convinto come ero che, a parte la inevitabile stanchezza e l'esaurimento della persona, il concorrere con il proprio ritiro (perché di questo si tratta) al rinnovamento del Partito, sia un serio dovere per tutti e lo era certamente per me. In questo proposito ero facilitato dal fatto che non vi erano grossi problemi di successione. La grossa parte della D.C. che si era raccolta con Forlani contro Zaccagnini aveva da tempo in Andreotti il suo candidato, del resto accetto anche ad altri, a Zaccagnini in ispecie, nella speranza, lungamente coltivata, che i buoni suoi rapporti con l'On. Mancini avrebbero fatto il miracolo di risuscitare collaborativi rapporti tra democristiani e socialisti. Così non fu, ma Andreotti s'impose ugualmente con le proprie doti e capacità. Il Sen. Fanfani mi fece presente che se Zaccagnini fosse rimasto alla Segreteria, era giocoforza che io abbandonassi il Governo. Risposi che mi andava bene Zaccagnini e mi andava bene di lasciare il Governo.
In questo contesto stava maturando tranquillamente il mio desiderato abbandono della politica attiva. Si fece cenno in quel punto alla posizione di Presidente della Camera, carica che io ho sempre considerato espressione del Parlamento e non dei partiti e per la quale, interpellato non dissi un no secco, ritenendola coerente con la mia decisione di lasciare la politica attiva. Ma se ne parlò solo per un minuto, sia per lo scrupolo che mi prese di non recare involontariamente danno al Sen. Fanfani, sia perché vennero da me persuasori più o meno occulti per indurmi a rendere possibile la mia nomina alla Presidenza del Consiglio Nazionale in successione dell'On. Fanfani. Le pressioni, alle quali opponevo la mia decisa non disponibilità, furono enormi, da parte di Zaccagnini, Fanfani, Salvi, Morlino, ed anche una persona per la quale ho il più grande rispetto, il giudice costituzionale Elia (allora non ancora in carica). Mi si prospettavano ragioni contraddittorie. L'On. Galloni, con la sua bella e tranquilla semplicità, assicurava trattarsi di una carica onorifica. E tale, in effetti, onestamente essa era stata ed era come presidenza del Consiglio Nazionale (mai del Partito), divenuta di ancor minor peso, dopo che si era pervenuti all'elezione in Assemblea del Segretario Nazionale, vero capo del partito. Dall'altra parte si faceva valere che era comunque utile, a parte le competenze statutarie (veramente inesistenti), associare al fascino indiscutibile della personalità, o, come si dice, della fama e del nome di Zaccagnini una certa esperienza politica per il tempo limitato che mancava al nuovo congresso. Io fui bloccato in maniera perentoria e dovetti assumere questa carica impropria e per la quale avevo una totale riluttanza. Naturalmente l'assetto fu poi quello che risultava dagli statuti. Zaccagnini non poteva, pur con tutto il suo buon cuore, cambiare le carte in tavola e sue giustamente rimasero tutte le competenze della gestione interna di partito, dei rapporti con la periferia, delle relazioni con i gruppi parlamentari, tenute in modo significativo, quando Zaccagnini era assente (e fu anche malato) da Galloni e non da me. Dispiace che, cosi stando le cose, un Segretario della specchiata rettitudine di Zaccagnini, non alzi più alta la voce, per dire che io sono stato là, su richiesta sua e dei suoi amici, restando intatte le sue competenze, con una funzione limitata e appena un po' al di sopra delle ragioni cerimoniali, alle quali accennava a suo tempo l'On. Galloni. Conscio dei miei doveri verso la verità, non voglio dire di non aver fatto nulla né di non aver auspicato lo sbocco politico che si è poi verificato. Ma l'ho fatto come potevo, con 4 discorsi pubblici ed uno ai gruppi parlamentari (in sostituzione del Segretario ammalato) e qualche colloquio individuale, posato ed amichevole. E stupisce e, francamente, addolora il fatto che la D.C. s'irrigidisca, come si è irrigidita, senza sentire, oltre che doveri umanitari e ragioni politiche generali, il dovere di non lasciare allo sbaraglio per una ragione di principio mal posta un vecchio ex dirigente che ha chiamato in causa per i suoi meccanismi interni ed ha poi sacrificato per quanto riguarda sacrosante ragioni familiari, senza pensarci a fondo, con più serietà, con un'autentica valutazione del caso e delle sue implicazioni.