Processo Moro Quater

04. I motivi della decisione

Documento aggiornato al 15/04/2005
1. La difesa del Lojacono deduce nei suoi motivi di gravame la nullità del decreto di citazione a giudizio, conseguente alla sua notifica nelle forme previste per i latitanti, e dell'ordinanza dichiarativa della contumacia, determinata a sua volta dalla mancanza o dalla irritualità della notifica stessa.
Per vero le eccezioni di cui si tratta sono state sollevate nella fase degli atti preliminari del giudizio di primo grado e sono state respinte con ordinanza dibattimentale, che però non è stata oggetto di specifica impugnazione unitamente alla sentenza, secondo quanto disposto dall'art. 200 C.p.p. 1930. E dunque le relative questioni debbono intendersi in questa sede precluse poiché la mancata impugnazione dell'ordinanza ne determina l'irrevocabilità, essendo inammissibile l'esame di motivi di gravame che, se pure formalmente proposti contro la sentenza, sono in realtà coincidenti con quelli avversanti l'ordinanza non impugnata.
Peraltro l'eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio, sempre per le medesime ragioni connesse alla forma della notificazione, è stata dalla difesa dell'appellante formulata anche in relazione all'attuale fase del processo.
Al riguardo si deve però ribadire, richiamando il contenuto dell'apposita ordinanza di rigetto emessa dalla Corte, che il fatto di riparare nel territorio di uno Stato estero dopo la commissione del reato e nella previsione dell'emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale - tanto più se accompagnato, come nel caso in esame, dalla scelta dell'interessato di acquisire la cittadinanza di quello Stato - si risolve in un atto di volontaria sottrazione all'esecuzione del provvedimento ed è idoneo ad attribuire al responsabile lo status di latitante. D'altro canto tale qualifica permane fino a che l'azione della polizia o il volontario comportamento dell'imputato non l'abbiano fatta venir meno. A nulla infatti rileva l'impossibilità sopravvenuta di far cessare lo stato di latitanza a causa dell'arresto avvenuto per altro motivo nello stato estero. Come a nulla rileva, neppure ai fini dell'applicabilità della disciplina dettata dall'art. 177-bis C.p.p. 1930 per le notificazioni all'imputato dimorante all'estero, la conoscenza da parte dell'autorità giudiziaria procedente del luogo della detenzione del soggetto. E ciò perché quel che conta ai fini del riconoscimento della qualifica di latitante è l'impossibilità per lo Stato, di ottenere l'esecuzione del proprio provvedimento di cattura nei confronti dell'imputato.

2. Nel merito, e con riferimento alla posizione del Lojacono rispetto alle imputazioni correlate ai fatti di Via Fani, occorre subito osservare che non possono avere rilievo le doglianze con le quali la difesa dell'appellante, richiamandosi del resto alle due istanze di ricusazione proposte nel corso del giudizio di primo grado, stigmatizza che il Collegio giudicante sia stato presieduto, e la relativa sentenza sia stata redatta, dallo stesso magistrato che aveva già trattato altri due processi sulla vicenda del rapimento e dell'uccisione dell'On. Moro. Essendo da ciò derivato, secondo l'assunto difensivo, che sia stata adottata, quanto alle "modalità esecutive dell'azione terroristica posta in essere in Via Fani", la medesima ricostruzione operata negli altri giudizi. Con violazione del diritto dell'imputato ad avere una ricostruzione del fatto che fosse del tutto autonoma rispetto ai precedenti ed alla quale non partecipasse il magistrato che aveva preso parte, nella veste di Presidente del collegio giudicante, agli altri processi.
A parte il fatto che la tesi difensiva postula l'estensione della casistica dell'incompatibilità del giudice ben oltre il dato normativo e perfino al di là dei limiti di tollerabilità del sistema sul piano pratico, si può rilevare che del tutto legittimamente il giudice di primo ha fatto riferimento - tanto sul punto dell'appartenenza del Lojacono alla banda armata denominata Brigate Rosse con ruolo distinto da quello del semplice partecipe e della sua responsabilità in ordine a fatti specifici riferibili a quell'organizzazione (omicidio Tartaglione e reati connessi), quanto su quello concernente la dinamica dell'azione di Via Fani - alle acquisizioni che risultano dalle sentenze della Corte di Assise di Roma in data, rispettivamente, 24.1.1983 e 12.10.1988. In verità non sussistono, né sono dedotte dalla parte appellante, ragioni che impediscano un rinvio di natura ricettizia, a torto definito come dogmatico, a fatti che, per essere stati accertati con sentenza irrevocabile, debbono considerarsi assistiti dall'autorità del giudicato. Anzi esso appare non solo opportuno ed utile sotto il profilo dell'economia processuale, ma addirittura doveroso in funzione dell'esigenza di evitare contrasti tra i giudicati. In ogni caso non ne è derivato alcun pregiudizio per le garanzie di difesa
del prevenuto giacché, per un verso, il problema della causa nei confronti del Lojacono è soltanto quello di stabilire se egli abbia o meno partecipato ai fatti così come risultano accertati, quanto alle modalità di esecuzione, sulla base dei precedenti giudicati; e, per l'altro, non emerge che siano stati ricavati in merito a quegli stessi fatti elementi di prova a carico dall'accertata militanza nell'organizzazione che se ne è proclamata responsabile.
Ebbene, il giudice di primo grado, nell'affrontare il problema della partecipazione del Lojacono ai fatti di Via Fani e della specifica condotta da lui posta in essere, ha, valutato anzitutto il C.d. memoriale Morucci. Al riguardo ha stabilito, utilizzando le dichiarazioni rese dallo stesso Morucci all'udienza del 2.10.1991 dinanzi alla Terza Sezione del Tribunale di Roma, che il documento contenente il riepilogo delle varie fasi dell'operazione "Moro", compresa quella dell'esecuzione, e completo della indicazione dei componenti del nucleo operativo e dei compiti a ciascuno assegnati e in concreto svolti - è autentico in ogni sua parte, anche in quella costituita dalla annotazione, a fianco delle identificazioni di tipo numerico, dei nominativi dei componenti di quel gruppo. Fugato così ogni dubbio di manipolazione del memoriale, ha dato atto come dal medesimo risultasse che il Lojacono si era trovato la mattina del 16 marzo in Via Fani, insieme a Casimirri, a bordo della Fiat 128 bianca
(veicolo b) appostatasi nella parte alta della via e sul lato destro, poco più avanti della Fiat 128 targata C.D. (veicolo a), con il compito di bloccare il traffico nella strada, una volta che fosse stata imboccata dall'autovettura dell'On. Moro e dalla macchina di scorta, e di rispondere ad eventuali attacchi da parte delle forze di polizia; che tale veicolo con a bordo Lojacono e Casimirri, subito dopo il tamponamento della Fiat 128 con targa del Corpo Diplomatico ad opera della Fiat 130 dell'uomo politico e del successivo urto contro di questa dell'Alfetta di scorta, si era collocato dietro di questa, in senso trasversale all'asse stradale; che la stessa autovettura del Lojacono e del Casitnirri, dopo l'attacco agli uomini della scorta ed il prelevamento dell'On. Moro, aveva raccolto il Gallinari e si era accodata alla Fiat 132 sulla quale era stato fatto salire l'ostaggio, seguendola fino al luogo del suo trasferimento all'interno di un furgone; che in seguito l'imputato, dopo aver abbandonato il veicolo in Via Licinio Calvo, si era separato dal Gallinari direttosi verso Via Montalcini e si era portato in Piazza delle Medaglie d'Oro ove aveva provveduto, insieme agli altri componenti della colonna romana (Balzerani e Casimirri), a recuperare giubbetti antiproiettile, impermeabili e armi consegnati da Fiore e Bonisoli.
Quindi ha considerato, quale ulteriore apporto probatorio, le dichiarazioni rese all'udienza del 2.12.1993 da Barbara Balzerani, anche lei partecipe dei fatti di Via Fani con ruolo identico a quello svolto dal Lojacono dalla parte opposta della strada, giudicate particolarmente significative in direzione della convalida dell'impianto accusatorio, per effetto delle precise specificazioni in ordine alla dinamica dell'azione terroristica, alla strutturazione del nucleo operativo, al ruolo avuto da ciascuno dei componenti, alla individuazione dei compiti assegnati al "cancelletto superiore" formato da due uomini entrambi irregolari aggregati al direttivo della colonna romana, al coinvolgimento di tutti i componenti di questa colonna nelle "inchieste" in vista dell'operazione relativa all'On. Moro, alla circostanza che tutti e sette i componenti della colonna romana che avevano preso parte all'azione di Via Fani erano stati poi interpellati sulla sorte dell'ostaggio prima dell'assassinio.
E, infine, ha posto a carico del giudicabile le emergenze ricavabili dalla deposizione della giornalista Carla Mosca e dai suoi riferimenti alle indicazioni ricevute, nel corso di vari colloqui con Mario Moretti, in merito ad una partecipazione del Lojacono ai fatti di Via Fani con una funzione "speculare" a quella di Barbara Balzerani.
Tanto premesso, la Corte ritiene che gli elementi accusatori individuati dal primo giudice siano idonei a costituire un quadro probatorio di affidabile certezza, adeguato a sostenere l'affermazione della penale responsabilità, del Lojacono in ordine a tutte le imputazioni connesse al sequestro ed alla uccisione dell'On. Aldo Moro.
Indubbiamente la prova a carico dell'imputato è costituita dalla chiamata in correità operata dal Morucci. E perciò è corretto il richiamo della difesa dell'appellante al rispetto delle regole stabilite dal vigente sistema processuale in materia di valutazione di una prova di tale natura la quale, come è noto, non può da sola fondare il giudizio di responsabilità, ma deve essere apprezzata unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità (art. 192/3 C.p.p., applicabile anche ai procedimenti celebrati secondo il precedente codice di rito). Come è corretta l'impostazione metodologica dell'analisi proposta nell'atto di impugnazione, giacché la verifica dell'attendibilità intrinseca della chiamata in correità costituisce un'imprescindibile condizione per poter poi procedere alla ricerca dei riscontri di natura estrinseca.
Dato atto di ciò, si deve tuttavia rilevare che la serrata critica rivolta alle indicazioni accusatorie provenienti dal Morucci non riesce a scalfirne, neanche in parte, la validità.
Intanto, non ha alcun rilievo la circostanza che il Morucci abbia fatto per la prima volta il nome del Lojacono come componente del nucleo operativo di Via Fani soltanto a distanza di dieci anni dai fatti. La spiegazione fornita in merito alla causale di quel suo intervento inteso, da un lato, a chiarire una volta per tutte le ricorrenti polemiche sulla presenza nel luogo dell'azione di stranieri o di appartenenti alla criminalità organizzata; ed attuato, dall'altro, senza arrecare pregiudizio alle posizioni del Casimirri e del Lojacono perché ormai stabilmente lontani dal territorio dello Stato appare senz'altro logica ed attendibile. Dovendosi tener conto non solo del percorso di maturazione del Morucci, approdato com'è noto ad una posizione di semplice dissociazione, ma anche delle sue intuibili remore a rivelare la partecipazione a quei gravi fatti di un soggetto come il Lojacono che, oltre ad essere un amico personale, era stato proprio da lui introdotto nelle Brigate Rosse.
Ugualmente priva di significato e del tutto inidonea ad indurre in sospetto è poi la considerazione che l'accusa all'indirizzo del Lojacono sarebbe stata determinata, piuttosto che dal desiderio di dire la verità, dall'intento di troncare le voci diffamatorie sulla partecipazione all'operazione Moro di stranieri e di delinquenti comuni. Neanche una netta prevalenza di interessi di altra natura su quello della pura e semplice verità può infatti bastare, in mancanza di altri dati di contrasto, per decretare il mendacio delle dichiarazioni rese dal Morucci.

D'altra parte a nulla rileva a tal fine la circostanza che questi, nuovamente interrogato a distanza di pochi mesi, si sia avvalso della facoltà di non rispondere, come del resto ha fatto anche nel corso del presente giudizio nella fase del dibattimento di primo grado. Tanto più che alla fine egli, nonostante il rifiuto inizialmente espresso, non ha mancato di rispondere a talune domande del Pubblico Ministero, comprese quelle riferite al suo memoriale.
E non si può neppure sostenere che la risposta di non poter confermare "dichiarazioni rese o scritti fuori dai vincoli di una sede processuale" si sia in sostanza risolta in un rifiuto a confermare il memoriale contenente le accuse nei confronti di Lojacono. E tanto perché quel memoriale aveva già ricevuto, da parte dell'interessato e dinanzi al giudice istruttore, una piena e chiara conferma, di certo non invalidabile con l'argomento che l'espressione usata ("debbo confermare") alluderebbe ad una sorta di stato di necessità del dichiarante, costretto appunto a quell'atteggiamento per non perdere i benefici già conseguiti. Un tale argomento è con ogni evidenza di stampo congetturale e basta a contrastarlo la considerazione che il Morucci, se avesse in effetti avuto la riserva mentale che gli si vorrebbe attribuire, si sarebbe ben guardato dall'esprimerla tanto ingenuamente proprio davanti al giudice.

Positivamente conclusa la verifica dell'attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie del Morucci, deve rilevarsi che le risultanze processuali offrono elementi di riscontro più che sufficienti, per numero e consistenza, a corroborarne la portata.
Invero - anche a dare atto, in accoglimento dell'assunto difensivo, che non si possono cogliere, né nelle dichiarazioni della Faranda né in quelle della Braghetti, spunti di valore convalidativo - non può farsi a meno di sottolineare che hanno invece un cospicuo peso le indicazioni rilasciate dalla Balzerani e dalla giornalista Carla Mosca.
I riferimenti della prima, presente anche lei in Via Fani a presidio del "cancelletto inferiore", all'identico ruolo svolto dalla parte superiore della strada da due uomini qualificati come brigatisti irregolari aggregati alla direzione della colonna romana, non solo risultano pienamente convergenti con le indicazioni provenienti dal Morucci. Ma appaiono anche dotati di un'incontestabile efficacia accusatoria, quasi di rilievo autonomo rispetto a quelle del Morucci, essendo al di là di ogni dubbio idonee ad identificare nel Lojacono e nel Casimirri, appunto in virtù della loro ormai accertata qualità di brigatisti irregolari aggregati alla direzione della colonna romana, i componenti del nucleo operativo dell'azione terroristica incaricati della gestione del "cancelletto superiore" di Via Fani.

Mentre le dichiarazioni della seconda, che riportano le indicazioni di Mario Moretti in merito alla partecipazione del Lojacono all'operazione di Via Fani con ruolo "speculare" rispetto a quello svolto da Barbara Balzerani, sono di segno identico e perciò valgono, ancorché in forma indiretta, ad attestare la presenza dell'imputato sulla scena del delitto, con il compito che risulta già delineato dai riferimenti del Morucci e della Balzerani. D'altra parte le dichiarazioni della giornalista non sono in alcun modo indebolite dalla deposizione di Rossana Rossanda che, escussa in sede di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ad istanza della difesa dell'appellante, si è trincerata dietro una lunga serie di non ricordo, per vero giustificata dal suo manifesto disinteresse per la questione del numero dei partecipanti all'eccidio e del ruolo svolto da ciascuno. Né risultano in qualche misura inficiate, data la convincente risposta fornita sul punto dalla testimone, dalla circostanza che non emerga dalle conversazioni registrate con il Moretti alcun riferimento al nome del Lojacono.
Si deve peraltro aggiungere che il quadro accusatorio fin qui delineato, già sufficiente a giustificare il giudizio di colpevolezza, si è vieppiù rafforzato per effetto delle dichiarazioni rese in sede di rinnovazione parziale del dibattimento dall'imputato per reato connesso Etro Raimondo. Il quale, nel confermare le dichiarazioni confessorie già rilasciate nei procedimenti a suo carico per i fatti di Via Fani e per l'omicidio del Giudice Palma, ha riferito di aver partecipato insieme al Lojacono a furti di autovetture da utilizzare nell'operazione contro l'On. Moro e di aver successivamente appreso dal Casimirri che all'azione vera e propria aveva preso parte anche il suddetto imputato.
Deriva che deve essere confermato il giudizio di colpevolezza pronunciato nei confronti dell'imputato in ordine ai fatti di Via Fani.
2.2 La sentenza impugnata deve essere confermata anche per quanto riguarda il tentativo di omicidio ai danni di Alessandro Marini come contestato al capo 9) della rubrica. Il reato commesso nel corso del sequestro di persona in danno dell'On. Moro, esplodendo alcuni colpi di arma da fuoco che attingevano il parabrezza del motoveicolo condotto dalla vittima - non è che un'appendice dell'operazione di Via Fani. La sua sussistenza è ormai coperta dal giudicato ed in ordine ad esso vi è già stata condanna irrevocabile nei confronti di tutti gli altri compartecipi finora giudicati per quell'azione terroristica. D'altronde a sostegno della richiesta di assoluzione si deduce l'unico argomento che il giudicato operante per gli altri imputati noti può essere automaticamente confermato nei confronti del Lojacono. Al quale si può replicare che in realtà è alla accertata responsabilità per il sequestro dell'on. Moro e per gli altri fatti che immancabilmente si aggancia quella in ordine al tentativo di omicidio in danno del Marini, commesso in quella stessa occasione.
3. Quanto all'omicidio del Giudice Palma ed ai reati connessi, la Corte di Assise ha valutato a carico del Lojacono le dichiarazioni rese da Adriana Faranda, la quale ha riferito al Giudice Istruttore che l'uccisione del magistrato, sollecitata da militanti detenuti e proposta dal Fronte Nazionale della Contro, era stata organizzata ed eseguita dal settore romano della Contro, composto all'epoca dalla stessa Faranda nonché da Gallinari, Casimirri, Algranati, Lojacono e da un sesto soggetto che, incaricato di sparare contro l'obiettivo preso di mira, non se l'era sentita di farlo e all'ultimo momento si era tirato indietro, venendo immediatamente sostituito nell'incombenza dal Gallinari presente con il compito di copertura ravvicinata. Ed ha considerato che le dichiarazioni accusatorie avevano trovato conferma di attendibilità, nelle risultanze acquisite nei due procedimenti definiti con sentenze passate in giudicato, grazie alla accertata appartenenza del Lojacono alle Brigate Rosse ed al suo collocamento proprio in seno al settore romano della "Contro", cioè della struttura istituzionalmente competente per gli attacchi contro la magistratura e le forze dell'ordine, che nel caso aveva agito in una linea di continuità con il precedente omicidio in danno del magistrato Tartaglione, attribuito anch'esso all'imputato con una delle due sentenze passate in cosa giudicata.
La conclusione del primo giudice deve essere in pieno condivisa, essendo correttamente fondata su una chiamata in correità intrinsecamente attendibile e convalidata da elementi di riscontro di elevata consistenza e di univoco significato.
Del resto gli argomenti avversanti dell'appellante si risolvono in una generica censura di inattendibilità al riguardo delle dichiarazioni accusatorie della Faranda e in un altrettanto generico rilievo di insufficienza dell'utilizzato dato di riscontro a dimostrare la partecipazione del Lojacono all'omicidio Palma. Oltre tutto quest'ultimo rilievo, che si traduce nell'ovvia affermazione che l'appartenenza ad una determinata associazione criminosa non comporta automaticamente la responsabilità di ciascun partecipe per tutti i delitti ad essa riconducibili, sembra postulare una sostanziale equivalenza, sul piano probatorio, tra l'elemento di riscontro e la prova.
A parte tutto questo, si deve rilevare che l'interrogatorio di Etro Raimondo in sede di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ha arrecato un ulteriore e risolutivo contributo all'assunto accusatorio. Avendo egli reso piena confessione della partecipazione materiale all'assassinio del giudice Palma, proprio nel ruolo del precedentemente ignoto personaggio incaricato di far fuoco ed all'ultimo momento riluttante, ed avendo asseverato la presenza dell'imputato tra i componenti del nucleo operativo a bordo di un'autovettura dislocata nelle vicinanze in funzione di copertura armata.

4. In linea subordinata è invocata per il Lojacono la concessione delle attenuanti generiche.
La richiesta, che si basa sull'unico argomento del lungo tempo trascorso dall'epoca dei fatti e del conseguente cambiamento della personalità del giudicabile, non può essere accolta. Hanno infatti rilievo assolutamente preponderante, rispetto alle annotazioni della difesa, la estrema gravità dei fatti - tanto in rapporto alla entità del danno cagionato che in relazione alle modalità dell'esecuzione, in qualche caso con vile approfittamento della sorpresa a danno di inermi cittadini, ed alla particolare intensità del dolo - ed il comportamento susseguente al reato, del tutto privo di segni di ravvedimento ed anzi volto a sottrarsi con ogni mezzo alle proprie responsabilità.

5. Per quanto concerne la posizione del Capuano deve riscontrarsi la totale infondatezza della richiesta di assoluzione dalla più grave
imputazione di tentativo di omicidio in danno degli appartenenti all'Arma dei Carabinieri e di derubricazione dell'imputazione di rapina in quella di furto.
Le risultanze processuali danno invero conto che l'imputato all'epoca latitante, essendo stato sorpreso dalla pattuglia dei carabinieri in Via S. Francesco a Ripa insieme a Cappelli Roberta, si era dato alla fuga ed aveva esploso, per sottrarsi all'inseguimento ed all'arresto, alcuni colpi con un'arma da fuoco, trovata del resto ancora in suo possesso al momento dell'arresto eseguito poco dopo. Come comprovano al di là di ogni dubbio che l'impossessamento della motovespa ai danni di Cardella Maria Pia è avvenuto, e non avrebbe potuto essere diversamente data la presenza della parte lesa, con l'uso di minaccia.
Né vale richiamarsi, in relazione alla imputazione di tentativo di omicidio, alla circostanza che il ferimento del Pellegrini, peraltro attribuito sotto il profilo dell'aberratio ictus, era stato involontario in quanto provocato da un pezzo di intonaco del muro staccatosi in conseguenza dell'impatto di uno dei proiettili. Piuttosto è il caso di osservare che non sono acquisiti dati essenziali (numero e direzione dei colpi, distanza tra lo sparatore ed i carabinieri) per poter definire la sussistenza degli elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi, del contestato delitto. Dal che consegue che l'originaria imputazione di cui al capo 65) deve essere derubricata in quella di resistenza aggravata a pubblici ufficiali ai sensi degli artt. 337 e 339 C.p.
Deve essere respinta la richiesta per la concessione delle attenuanti generiche, con conseguente riduzione delle pene inflitte, avanzata in favore del Capuano e di Petrella Marina con identica motivazione.
Il richiamo al tempo ormai trascorso dai fatti, al diverso contesto storico e sociale nel quale essi sono maturati, alla evoluzione della personalità degli imputati ed al loro progressivo e costante reinserimento nella vita civile e lavorativa non può bastare, tenuto anche conto che si tratta di pene esigue ed assorbite, a giustificare un più indulgente giudizio sui fatti.
La pena da applicare nei confronti del Capuano a titolo aumento per continuazione su quella inflitta con sentenza della Corte di Assise di Roma in data 12.10.1988 può essere congruamente determinata in tre anni di reclusione. La stessa resta assorbita nella pena detentiva temporanea massima di trenta anni di reclusione irrogata con detta sentenza ed a sua volta assorbita nella pena dell'ergastolo con isolamento diurno determinata in applicazione dell'art. 72 C.p.

6. Lojacono Alvaro e Petrella Marina debbono essere condannati in solido al pagamento delle spese del grado.
Lo stesso Lojacono e Capuano Marcello debbono essere condannati al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili, liquidate per ciascuna come da dispositivo.
P. Q. M. visti gli artt 213-523 C.P.P. 1930, in riforma della sentenza della Corte di Assise di Roma in data 1.12.1994, appellata da CAPUANO Marcello, LOJACONO Alvaro e PETRELLA Marina dichiara CAPUANO Marcello colpevole di resistenza continuata, P.U. ai sensi degli artt. 337 e 339 C.P. aggravata dalla finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine costituzionale, così modificata l'imputazione di cui al capo 65) e, ferma restando la continuazione interna ed esterna, determina la pena complessivamente inflitta in tre anni di reclusione, che resta assorbita nella pena di trenta anni di reclusione inflitta con sentenza della Corte d'Assise di Roma 12.10.1988, a sua volta assorbita nella pena dell'ergastolo con isolamento diurno per anni uno determinata dalla predetta sentenza ai sensi dell'art. 72 C.P.; conferma nel resto l'impugnata sentenza e condanna LOJACONO Alvaro e PERELLA Marina al pagamento in solido delle spese del grado;
condanna LOJACONO Alvaro al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili che liquida in £ 4.000.000 a favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell'Interno e del Ministero di Grazia e Giustizia; in lire 2.040.000 in favore di Maria Agnese e Giovanni Moro ed in lire 6.030.000 per Cinzia Leonardi, Paolo Ricci, Giovanni Ricci, Ileana Lattanzi e Maria Rocchetti;
condanna CAPUANO Marcello al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili Presidenza del Consiglio dei Ministri e Ministero dell'Interno liquidate in lire 1.200.000.
 
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