Processo Metropoli
03. Rapporti di Piperno e Pace con le BR
Documento aggiornato al 15/04/2005
Nel corso delle indagini di P.G. seguite all'attentato alla sede del Comitato romano della D.C. in Piazza Nicosia l'attenzione degli investigatori si rivolgeva, sulla scorta di idonee indicazioni, su un appartamento sito al IV piano di uno stabile di viale Giulio Cesare, n° 47, occupato da Conforto Giuliana, ex militante del disciolto P.O., la quale "da notizie riservatissime", sembrava avere ospitato una coppia di presumibili clandestini.
In data 29 maggio 1979, dopo accurati servizi di appostamento, venivano arrestati in quell'abitazione i latitanti Morucci Valerio e Faranda Adriana, trovati in possesso di un vero e proprio arsenale di armi oltre che di un ingente quantitativo di moduli di patenti, carte di identità in bianco, documenti di provenienza illecita, già falsificati o da falsificare, timbri ed altri strumenti di contraffazione, giubbetti antiproiettili, ecc.
Nella camera da letto di una delle bambine della Conforto veniva recuperata una borsa contenente una "Skorpion" cal. 7,65, di fabbricazione cecoslovacca, con matricola abrasa , con relativi caricatori e munizioni e con il silenziatore applicabile, oltre che ad una bomba a mano, detonari ed altro.
Nella circostanza la Conforto dichiarava "di ospitare la coppia, da lei occasionalmente conosciuta al Pincio, sin dalla precedente Pasqua e di non aver mai nutrito sospetti sia sulla vera identità dell'uomo e della donna, presentatasi come "Enrico" e "Gabriella" sia di quanto da loro posseduto.
Ma, successivamente, nell'interrogatorio svolto dal P.M. la Conforto ammetteva che i due giovani le erano stati "segnalati" dal Piperno, suo collega nell'ateneo calabrese, e descritte come "persone oneste e corrette" che prestavano la loro opera "nella rivista Metropoli o nella rivista "Pre-print" collaborando con lo stesso Piperno "alla sua attività politica" ed a quella del suo gruppo e cioè di Oreste Scalzone, Lanfranco Pace ed altri".
Processati con rito direttissimo dal Tribunale di Roma, Morucci e Faranda venivano condannati alla pena complessiva di anni sette di reclusione e L. 2.000.000 di multa, mentre la Conforto veniva assolta per i d.p. (sent. 4/7/1979 passava in giudicato).
Dalle ammissioni degli interessati si riusciva a stabilire che alle vicenda non era estraneo Lanfranco Pace.
Costui per primo aveva parlato con la donna, anche a nome di Piperno, sollecitandola ad accogliere "anche per un breve periodo una coppia di compagni" che "avrebbero potuto aver noie con la giustizia".
Incontratasi successivamente con il Piperno presso l'Università dell'Aquila, Giuliana Conforto si era lasciata convincere per le garanzie da costui fornitele "in relazione col compito comportamento dei due", a prestare il suo assenso al trasferimento in casa sua di "Enrico" e Gabriella.
Nel corso di quel dibattimento (ud. 20.6.79) la Conforto, a contestazione del Tribunale, dichiarava che "avendo saputo dal Piperno che i due potevano essere ricercati" essendo stati i loro nomi trovati dalla Polizia "su un'agenda sospetta", aveva con essi concordato di dare, in caso di necessità, la versione del casuale incontro al Pincio.
Piperno, interrogato dal G.I., dopo la sua estradizione dalla Francia offriva una versione differente.
Era stato Pace ad avvertirlo, nel corso di un incontro avvenuto a Roma, dell'ospitalità accordata dalla Conforto a Morucci e Faranda, in virtù del suo interessamento.
La circostanza gli era, in seguito, stata confermata dalla stessa Conforto in occasione di un incontro avuto con costei a L'Aquila.
Col Pace egli si era doluto dell'iniziativa, essendogli sembrato che la Conforto avesse inteso utilizzare l'accordata ospitalità a Morucci a Faranda come "elemento di scambio" per un suo eventuale interessamento al suo trasferimento all'università dell'Aquila.
In un confronto con la Conforto (27/X/79 G.I.) F. Piperno negava quanto da costei asserito in ordine ad una telefonata che egli le avrebbe fatto, chiedendole ospitalità per i suoi due amici. E la Conforto replicava:
"Ho la certezza assoluta che le telefonate di presentazione è stata fatta da F. Piperno".
Interrogato il Pace dal G.I. il 24.1.1980 ammetteva di avere aiutato Morucci e Faranda a trovare provvisorie sistemazioni, su richiesta della stessa Faranda, che a lui si era rivolta verso la fine di gennaio o ai primi di febbraio 1979, preoccupata dalla propria sicurezza personale e di quella del Morucci, dopo la loro uscita dalle B.R.
Dopo averli sistemati per qualche giorno nell'abitazione di una persona che non intendeva nominare, aveva chiesto ad Aurelio Candido, giornalista del "Messaggero" di ospitarli in casa sua per qualche giorno, ottenendone l'assenso.
Ma l'ospitalità si era protratta per due-tre settimane.
Altro alloggio egli aveva procurato loro presso altra persona che non intendeva nominare.
Ed infine li aveva introdotti presso Giuliana Conforto, da lui conosciuta a Cosenza nel 1977, in occasione dei lavori di un Convegno.
"Era un sabato sera" - proseguiva testualmente il Pace "e a quattr'occhi le chiesi se poteva fare un favore a me e a Franco Piperno ospitando per un po' di tempo Enrico e Gabriella. Feci il nome di Franco Piperno perché la mia conoscenza con la Conforto era superficiale, mentre sapevo che Piperno era suo amico. La Conforto mi chiese chi fossero ed io risposi che erano due compagni latitanti, ma non per reati gravi".
Specificava il Pace di aver riferito a Piperno la circostanza solo dopo l'accordata ospitalità.
Ma Piperno già ne era stato informato dalla Conforto nel corso di un incontro avuto con lei nell'università dell'Aquila.
In data 23.1.1980 si presentava spontaneamente al G.I. a rendere le sue dichiarazioni il giornalista grafico de "Il Messaggero", Aurelio Candido.
Egli aveva conosciuto Pace tramite Stafania Rossini, collaboratrice esterna del giornale. Un giorno Pace lo aveva avvicinato chiedendogli di ospitare nella sua abitazione due suoi amici intransito per Roma, "che avevano problemi di alloggio".
Pur restìo ad accogliere le richieste, non conoscendo egli ancora bene il Pace, aveva acconsentito. L'ospitalità si era protratta alcuni giorni e a termine le due persone, da lui conosciute con i nomi di "Enrico" e "Gabriella" si erano allontanati, lasciandogli sul tavolo dello studio un biglietto di ringraziamento non firmato e le chiavi dell'appartamento.
In seguito, dopo l'arresto di Morucci e Faranda, nel vedere in redazione le loro foto, era rimasto come "folgorato" nel riconoscere le sembianze delle persone da lui ospitate.
Si era premurato a parlarne a Gianfranco Spadaccia, esprimendogli "in termini quanto mai generici, i suoi dubbi sui predetti. Lo Spadaccia gli aveva consigliato di riflettere, prima di "evitare inutili allarmismi".
Successivamente, nei primi giorni di gennaio 1980 aveva appreso dal collega De Nardo Evangelista del servizio "cronache giudiziarie" di essere nella "lista del 21 Dicembre".
Spaventato si era recato nuovamente dallo Spadaccia per raccontargli "per filo e per segno" l'episodio della ospitalità e dell'intermediazione di Pace (circostanza questa non riferita gli prima, perché gli era parsa trascurabile). Insieme a Spadaccio, nel cuore della notte (tra i giorni 4 e 5 gennaio '80), era andato a trovare Marco Pannella per chiedergli il da farsi. Questi lo aveva consigliato di stendere per iscritto la storia di quanto gli era successo e di consegnare il documento ad un notaio, prima di presentarsi al Magistrato. Ciò per motivi precauzionali.
L'on. Marco Pannella, presentatosi spontaneamente a questa Corte (ud. 7.4.87) il giorno successivo a quello della deposizione di Candido, confermava le circostanze, assumendosi la responsabilità di aver consigliato il compagno di Partito di annotare tutto quanto riuscva a ricordare della vicenda, per consegnare poi il documento, recante le annotazioni ad un notaio. Non si sarebbero, invero, da parte sua (di Candido) potete riferire al Magistrato "sospetti", "illazioni", "elucubrazioni", ma solo "cose sapute". Ogni altro elemento presuntivo e quant'altro potesse riflettere mere considerazioni personali, ancorché "assurde", e "cervellotiche" andava più opportunatamente esposto per iscritto in un atto riservato.
E sempre a fini precauzionali - proseguiva il parlamentare radicali - "contro situazioni di rischio oggettivo" sarebbe stato opportuno, poi, preparare la notizia dell'affidamento dell'atto al notaio, assumendosi essere in esso consegnato il "saputo" ed il "riflettuto" sulla vicenda di cui egli, Candido, era stato inconsapevole protagonista.
A seguito delle pubblicazioni su "Metropoli" nel giugno 1979 di un fumetto, disegnato da Madando Giuseppe sull'agguato di via Fani e sulle catture dell'on. Aldo Moro in cui erano rilevabili "a posteriori" una serie di elementi all'epoca del tutto ignoti ed, in particolare, le sembianze del parlamentare socialista, on. Signorile, il Magistrato inquirente decide di procedere alla sua audizione.
Precisava l'on. Signorile che, in effetti, durante l'ultima fase del sequestro dell'on. Moro, il P.S.I. aveva sviluppato una linea politica tendente ad ottenere la salvezza del sequestrato attraverso un atto autonomo dello Stato, che consentisse uno scambio con la persona dell'on. Moro.
E nello sforzo "di capire se una linea del genere poteva essere considerata come suscettibile di sviluppi positivi", si era cercato, nel contesto "di altri tentativi", un interlocutore "per una eventuale reazione positiva da parte delle Brigate rosse".
Ne aveva parlato, allora, al Direttore dell'Espresso, Livio Zanetti, suo buon amico, il quale, nel manifestargli "la sua contrarietà ad ogni trattativa", gli aveva accennato ad una serie di autorevoli informatori (tra i quali Franco Piperno e Oreste Scalzone), cui era solito ricorrere per i servizi affidatigli, il suo collaboratore dell'insufficienza del solo atto di clemenza da parte dello Stato per sbloccare il problema Moro, e ciò in coerenza con le posizione assunte dalle B.R. la necessità di un intervento che consentisse un riconoscimento di fatto delle B.R. come interlocutore politico". Il Piperno aveva sostenuto "che la richiesta della liberazione di ben tredici detenuti non aveva - a suo giudizio - un valore assoluto, prevalendo il significato politico che poteva rilevarsi da un atto che implicasse quel riconoscimento di fatto, al quale le B.R. ambivano".
Il Piperno, comunque, aveva tenuto sempre, ad escludere, ogni suo contatto con esponenti delle B.R. "limitandosi a dire che poteva capirli, nel senso che poteva intendere come funzionava il sistema mentale o meglio il codice di valori dei brigatisti". Aveva, altresì, posto in evidenza che l'iniziativa "del P.S.I. non era di per sé sufficiente a sbloccare la situazione, ma che occorreva un altro tipo di intervento che avesse caratteristiche, ufficiali od ufficiose, di maggiore rappresentatività".
Nell'occasione si era parlato "delle possibilità che allora si agitavano e cioè degli interventi di Amnesty International, della Croce Rossa, del Vaticano e della stessa D.C. ma in termini molto generici".
Dichiarava lo Zanetti (int. 26/6/79) in proposito che Piperno aveva asserito che, a suo parere, "le B.R. non avevano interesse politico ad uccidere Moro e che molto dipendeva da quello che poteva essere "inventato" non tanto dal P.S.I. quanto dalla D.C." che doveva prendere e rendere pubblica "qualche interessante iniziativa".
Nel prendere atto che uno degli argomenti trattati nel corso del primo incontro con il Piperno - la liberazione di tredici detenuti - doveva necessariamente essere successivo all'emissione, in data 24/4/78, del comunicato n° 7 recante la relativa richiesta, il Signorile dichiarava essere agevolmente collocabile la data del primo incontro in un giorno immediatamente successivo al 24/4/78.
A meno che detto argomento non fosse stato trattato nel corso di un secondo incontro da lui avuto con Piperno.
A detto incontro, cui aveva partecipato il Pace si era delineato "con maggiore precisione il ruolo che poteva essere assunto dalla D.C. o da un suo autorevole esponente".
L'intervento di un qualificato rappresentante del Partito di maggioranza
relativa, nelle trattative in corso, sarebbe valso a conferire alle B.R. un tacito riconoscimento come interlocutore ufficiale dello Stato.
Gli incontri - precisava il Signorile - da lui avuti con il Piperno ben potevano essere stati tre, anziché due. Comunque egli ricordava bene che l'ultimo abboccamento verificatosi "nel periodo compreso tra il 24 aprile e il 5 maggio 1978 e, comunque, prima del comunicato n° 9" era stato sollecitato telefonicamente dal Piperno che, con aria preoccupata, aveva insistito sulle "necessità di un urgente atto visibile da parte della D.C. per salvare la vita dell'on. Moro o almeno per ritardare i programmi eventuali delle B.R.… per interrompere i termini" (frase testualmente usata dal Piperno).
L'on. Signorile, dopo aver informato il segretario del suo Partito, si era rivolto il 6 maggio al sen. Amintore Fanfani per "una presa di posizione anche se cauta, senza far riferimento, peraltro, ai discorsi con Piperno".
Il sen. Fanfani aveva telefonato al Presidente del gruppo dei senatori democristiani, Giuseppe Bartolomei, "chiedendogli - nell'ambito del comunicato della Delegazione D.C. - di fare un accenno all'esigenza di non trascurare nulla per salvare la vita dell'on. Moro".
E il giorno seguente agenzie di stampa e giornali avevano "pubblicato una dichiarazione in tal senso del sen. Bartolomei".
Conforme, in proposito, era la deposizione del Presidente del Senato, Fanfani (dep. 28/6/79), il quale, dinanzi alla prospettazione di uno scambio tra l'on. Moro e "un prigioniero comunista" e della utilità di una "sua pubblica dichiarazione che facesse conoscere come la D.C. riduceva le sue opposizioni ad una ipotesi di scambio", aveva replicato che "il problema riguardava le Autorità competenti dello Stato e che nella sua veste istituzionale non intendeva "pregiudicare" la libertà di decisione sia del Governo che della D.C.".
Aveva così pensato di rivolgersi all'on. Bartolomei, Presidente del gruppo D.C. al Senato, per chiedergli un suo pubblico intervento capace di produrre "l'effetto di non far precipitare la situazione".
Della vicenda egli aveva avvertito subito la Presidenza della Repubblica "dato che l'on. Signorile aveva aggiunto che l'avv. Giuliano Vassalli sarebbe stato in condizioni di indicare qualche persona che poteva eventualmente essere scambiata con l'on. Moro".
Il lunedì successivo (8/5/78) l'on. Craxi aveva chiesto di vederlo; nella circostanza il Segretario del P.S.I. aveva espresso "la sua viva preoccupazione" ed aveva ripetuto "che mentre auspicava un approfondimento del problema giuridico dello scambio, sarebbe stato quanto mai utile, per non dire indifferibile, qualche manifestazione pubblica di attenuato rigore da parte della D.C. intorno al noto problema".
Il sen. Fanfani aveva promesso che in sede di Direzione della D.C. - già convocata - avrebbe "senz'altro preso la parola per invitare ad un approfondimento di una così grave questione".
L'on. Bettino Craxi (dep. 26/6/79) spiegava, a sua volta, che in una prima fase, "aderendo ad una sollecitazione della signora Eleonora Moro" aveva convocato l'avv. Giannino Guiso, difensore di alcuni brigatisti nel processo che si stava celebrando a Torino, per pregarlo "di prendere contatti con i suoi clienti" e di acquisire "elementi che potessero orientare ai fini di una soluzione positiva del caso". "Attraverso le notizie che si erano raccolte" i socialisti avevano "maturato la convinzione che senza una contropartita la sorte di Moro era segnata".
Vi erano stati "frequenti" incontri con l'avv. Guiso, dai quali si erano "ricavati suggerimenti e valutazioni ma nessun dato di fatto determinante".
L'on. Craxi affermava, ancora di avere autorizzato Claudio Signorile agli approcci con militanti della c.d. "Autonomia" ed anzi egli stesso si era incontrato, il 6 maggio 1978, con Lanfranco Pace che si era appunto qualificato come "aderente del Movimento di Autonomia": costui era stato accompagnato all'Hotel "Raphael" dove egli alloggiava dal sen. Antonio Landolfi.
Durante la conversazione, il Pace aveva sostenuto "che secondo la sua valutazione, la situazione stava precipitando e che bisognava fare qualcosa".
Ad una sua esplicita richiesta se avrebbe potuto avere contatti con i brigatisti, aveva risposto che ciò sarebbe stato molto difficile.
E che, comunque, sarebbe occorso "l'intervento di un esponente della D.C.".
In sede di confronto con il Pace, Craxi specificava che "a conclusione del discorso", aveva soggiunto che "per smuovere la D.C." avrebbe "dovuto avere in mano… una prova che Moro fosse ancora in vita" e che, a tal fine, "sarebbe stato utile ricevere uno scritto dell'on. Moro con la frase convenzionale "misura per misura"".
Sentito dal G.I. in data 28/6/79 Antonio Landolfi dichiarava di avere incontrato "per caso" il Pace il 6 maggio '78 verso le ore 12, nella zona tra piazza Navona ed il Pantheon. Costui gli aveva manifestato "l'opinione che, se il P.S.I. avesse insistito nella posizione di esperire qualsiasi tentativo per salvare la vita dell'on. Moro, si sarebbe potuto aprire qualche spiraglio".
Egli allora poiché tale la "linea del suo Partito", lo aveva invitato a "continuare la conversazione con il Segretario del Partito".
Nel pomeriggio di quello stesso giorno si erano entrambi recati a trovare l'on. Craxi, che alloggiava nell'Hotel "Raphael".
Il Pace, da lui presentato come un noto esponente dell'Autonomia romana, dopo aver escluso di essere un brigatista, aveva ribadito gli stessi argomenti svolti con lui, evidenziando l'importanza della "funzione che, a suo giudizio, ed a giudizio dei suoi amici e degli appartenenti al suo gruppo politico, poteva assumere il P.S.I. perché si arrivasse ad una soluzione del problema Moro"; aggiungendo che "la situazione era bensì grave, ma ancora suscettibile di una soluzione positiva, se i socialisti avessero potuto esprimere una iniziativa ancora più chiara ed esplicita".
Craxi aveva risposto che si ponevano due problemi: uno concernente la prova dell'esistenza in vita dell'on. Moro; l'altro concernente "la possibilità di sapere se, una volta che dallo Stato fosse venuto un atto di clemenza, questo sarebbe stato tale da provocare un atteggiamento, da parte di chi deteneva prigioniero l'on. Moro, positivo al fine di creare le condizioni per la salvezza della sua vita".
E allora altro non restava da fare che "ricercare un segnale, un messaggio del tipo "misura per misura"".
Pace aveva concluso che per lui sarebbe stato molto difficile fornire assicurazioni al riguardo.
Interrogato dal G.I. dopo il suo arresto e l'avvenuta estradizione dalla Francia, il Piperno dichiarava che gli incontri con l'on. Signorile erano avvenuti su sollecitazione del Dr. Zanetti, Direttore dell'Espresso e per il tramite del Dr. Mieli.
Nonostante le perplessità da lui avvertite ad incontrarsi con esponenti di Partiti politici, aveva accolto al richiesta.
L'incontro con Signorile e Scialoia era avvenuto a casa dello Zanetti in un periodo successivo al 24/4/78 (data in cui era già stati diffusi i comunicati n° 7 e n° 8 con i quali i terroristi avevano avanzato precise condizioni per il rilascio dell'on. Moro proponendo uno scambio con tredici prigionieri politici già condannati o imputati per delitti commessi a scopo di estorsione.
Il parlamentare socialista, nell'accennare a detta proposta da lui ritenuta inaccettabile, aveva ventilato l'ipotesi della liberazione di un solo detenuto in gravi condizioni di salute. Aveva, peraltro, accennato l'on. Signorile "all'iniziativa di Amnesty International e al problema delle carceri speciali", chiedendogli cosa ne pensasse. Egli aveva risposto che erano iniziative apprezzabili e suscettibili, comunque, di essere prese in considerazione.
In seguito aveva avuto altri due incontri con l'on. Signorile, su sua sollecitazione. All'ultimo di detti incontri aveva partecipato "di sua iniziativa" il Pace.
A detta di quest'ultimo (int. G.I. 19/2/80) era stato, invece, il Piperno a "pregarlo" di intervenire all'incontro sollecitato dall'on. Signorile.
Ciò era avvenuto la mattina dello stesso giorno del casuale incontro in Piazza Navona con il sen. Landolfi e del successivo incontro con il Segretario del P.S.I. on. Bettino Craxi
Secondo quanto dichiarato da Morucci (int. 13/X/1986) Lanfranco Pace, entrato nelle B.R. nel settembre/ottobre 1977, ne era uscito all'incirca nel successivo mese di dicembre.
Introdotto inizialmente in una "struttura di dibattito", dopo il fallimento del progetto di una rivista nazionale, che rispondesse all'esigenza di offrire un'elaborazione teorica ai problemi maturati nei tre anni precedenti (dal '74 al '77) a seguito del mutamento dell'orizzonte politico, allorché si era trattato di passare ad un livello superiore di coinvolgimento nell'organizzazione, aveva mostrato di non impegnarsi nei compiti affidatigli, disertando gli appuntamenti, compresi quelli c.d. "di recupero" che si sarebbero protratti fino al gennaio 1978.
In effetti Pace, per il breve periodo in cui aveva militato nelle B.R., aveva mostrato di considerare queste "una variabile assolutamente indipendente nel quadro del movimento nazionale". Variabile che "portava avanti una linea monca", cioè esclusivamente "militare", estranea "alle lotte sociali e politiche" e alle nuove problematiche maturate nel '77.
In quel contesto socio-politico era ravvisabile da una parte "l'estremo spontaneismo delle manifestazioni giovanili"; dall'altra "l'estrema sintesi organizzativa… del gruppo armato clandestino". Per ricomporre in un quadro unitario detta divaricazione e congiungere "i due monconi del movimento rivoluzionario" non restava che integrare la lotta armata nel tessuto delle nuove conflittualità sociali. Alla realizzazione di un tale progetto Pace intendeva muovere "dall'interno del movimento"; egli, Morucci, dalle B.R., ritenendole "una scelta obbligata".
Sia egli che la Faranda erano, in seguito, entrati in rotta di collisione con l'organizzazione per avere reiteratamente prospettato l'esigenza di una lotta armata fondata non "sullo scontro" tra le B.R. e lo Stato, ma più legata "ai contenuti della conflittualità che si esprimeva in quegli anni".
Dopo l'operazione Moro la frattura si era espansa, anche a seguito del dibattito sull'esigenza di costituire "un fronte largo, esteso, di nuclei in parte clandestini e in parte legali interni alla conflittualità sociale e disponibili a "portare avanti la pratica della lotta armata".
Era intendimento dei due "dissidenti" "usare il veicolo dell'M.P.R.O. per indurre un accostamento delle B.R. all'area dell'anzidetta conflittualità e, dunque, all'analisi dei fenomeni sociali e politici che si esprimevano in quegli anni".
Dal momento della conclusione dell'operazione Moro fino all'uscita di Morucci e Faranda dalle B.R. si era, dunque, sviluppato il loro "disagio politico" avvertito dapprima "in termini di disaccordo politico", quindi come "determinazione di un antagonismo politico", "di una linea alternativa", "della necessità di un'elaborazione alternativa a quella proposta dall'organizzazione" (v. atti parlamentari comm. parl. di inchiesta sulla strage di via Fani, Doc. XXIII, n° 5, vol. X, p. 624 sgg.).
Significativo, al riguardo, il testo di un documento rinvenuto nell'abitazione di viale G. Cesare, all'atto dell'arresto di Morucci e Faranda, dal titolo "Fase, passato, presente e futuro, un contributo critico" (rep. 2129), in cui, tra l'altro, è dato leggere:
"questa esigenza di lettura e comprensione… delle lotte operaie e proletarie" che si era inteso "sviluppare internamente e con il metodo corretto della discussione e della elaborazione collettiva" in direzione di colonna, era stato, "invece, arbitrariamente interpretato come linea politica contrapposta all'organizzazione". Da qui "la condanna" della "cricca di rinnegati", all'isolamento, al confino, all'annientamento, alla criminalizzazione e la denuncia dei loro "comportamenti deviazionistici piccolo borghesi", della "manovra" che "da lungo tempo era in atto" e del "gioco diretto da Scalzone o da chissacchì" che, avrebbe anche scritto "il documento" che aveva dato origine alla diaspora.
"L'attuazione di questa macabra strumentazione è una conseguenza della costituzione di uno Stato "dentro" lo Stato, costruito in modo tanto accuratamente "speculare" da farlo crescere altrettanto stupido.
La malafede dell'organizzazione quando afferma che avremmo "colpito" in modo del tutto inaspettato, è dimostrata dal fatto che il giorno dopo che avevamo esposto compiutamente la nostra posizione (su espressa richiesta della Direzione dell'O.) posizione che il compagno dell'esecutivo, incaricato dell' "indagine conoscitiva" aveva subito definito fuori della linea o della storia dell'organizzazione, due compagni della Direzione di colonna si sono precipitati a casa nostra dicendo che per "garanzia" e mancanza di fiducia dovevano fare inventario immediato del materiale in nostro possesso e trasferirci subito dopo nel luogo di "confino".
Ma lo "spazio politico" di un "carcere del popolo" riservato questa volta a dei compagni "non in linea" non ci è sembrato francamente sufficiente per condurre la nostra battaglia. Preferiamo lasciare il provvedimento di "confino politico" alla Magistratura, alla Legge Reale, alla Polizia che ne esprime le direttive".
Per quanto ci riguarda, abbiamo assunto nei confronti della "nuovissima"
polizia del proletariato il medesimo atteggiamento che tutti i compagni che combattono in nome e per la conquista della libertà e del comunismo, hanno da sempre riservato a tutte le polizie.
E il nostro diritto di continuare a combattere non ci sarà negato da una burocrazia neostalinista che si fregia arbitrariamente del titolo di "partito del proletariato" e prefigura un regime a fronte del quale il Capitalismo e la sua "falsa" democrazia rappresentano certo un paradiso terrestre.
Altro fatto rivelatore di questa malafede è che ancora prima di quell'esposizione, compagni della D.d.C. avevano già affermato all'interno delle strutture di lavoro che saremmo usciti in tre o quattro.
Comunque, nel diffidare coloro che avevano lanciato simili "calunnie" dal proseguire in inaccettabili atteggiamenti "quali la folle scompartimentazione di tutti i compagni usciti", "le visite domiciliari fatte …da ricercati o da altri che potrebbero esserlo presto", il sollecitare "l'appoggio del movimento (peraltro fermamente negato)", il parlare "con compagni non dell'organizzazione" della "fuga, con furto di due banditi" - gli autori dell'analisi precisavano che, sebbene "in posizione politica alternativa a quella dell'O.", non se ne proponevano, però, la "distruzione", perchè "si porterebbe dietro la perdita di un riferimento essenziale per la costruzione di un processo unitario di Partito, fatto che darebbe la stura a comportamenti anarchici e dispersivi sulla diffusione endemica e disgregata della guerriglia"
Ma, tornando a Pace, dichiarava il Morucci
(ud. 15/X/86, f.88) che nel corso dei 55 giorni di prigionia dell'on. Moro, l'aveva incontrato in un ristorante di Trastevere, dove egli e Adriana Faranda si erano recati a pranzare.
Non si era trattato di "un incontro accidentale", chè Pace faceva loro la "posta" nella zona già da alcuni giorni. E per questo anzi essi lo avevano rimproverato, dato che i suoi tentativi di porsi in contatto con loro avrebbero potuto condurre la Polizia sulle loro tracce, tanto più che alcuni giorni prima egli era stato "coinvolto" in una retata insieme ad altre persone della sinistra extraparlamentare.
Pace era "curioso" di conoscere i reali intendimenti delle B.R. sulla sorte che sarebbe stata riservata all'on. Moro, esternando nel contempo "anche le preoccupazioni di Piperno" in ordine alla piega che avrebbe potuto prendere la vicenda. Li aveva, altresì, informati di avere incontrato "alcuni esponenti politici" interessati ad avere delucidazioni sull' "universo brigatista" e a decrittare il linguaggio e i comunicati delle B.R..
Essi, di rimando, si erano limitati a manifestare il loro parere e cioè che occorreva "un pronunciamento politico" da parte della D.C., Partito che le B.R. identificavano, all'epoca, con lo Stato.
La preoccupazione del Piperno - ad avviso di Morucci - era sostanzialmente quella, condivisa da molti, della possibilità di far proseguire, comunque, il processo rivoluzionario; di talchè il ruolo svolto dalle B.R., sia pure avulso dalle esigenze del Movimento, sarebbe potuto essere quello di produrre "effetti destabilizzanti del quadro politico".
Il Morucci aveva, così, riferito al Moretti, esponente dell'ala intransigente dell'organizzazione, l'incontro avuto con Pace. Costui, pur non dimostrandosi eccessivamente turbato, nel dichiarare la propria contrarietà ad ogni trattativa che non fosse chiara, di pubblico dominio, aveva replicato che l'unico interlocutore ufficiale delle B.R. sarebbe dovuta essere la D.C..
Ribadiva il Morucci quanto dichiarato alla Commissione inquirente per la strage di via Fani (v. atti parl. Comm. Doc. XXIII, n° 5, vol. X, p.621) in relazione alle scadenze della fase attuativa della gestione del sequestro del Presidente della D.C..
In sostanza si era deciso di stringere i tempi (eseguendo la condanna a morte il nove maggio anzichè il dieci) per esservi stati segnali di un'incipiente "apertura della D.C. nei confronti del suo interlocutore"; di un'apertura, tuttavia, estremamente generica e, comunque, inappagante.
La liberazione, infatti, di un solo prigioniero politico avrebbe posto in difficoltà l'organizzazione che si sarebbe potuta trovare esposta al rischio di rifiutare, come insufficiente, l'eventuale contropartita sulla pelle di "un prigioniero comunista". Più che di un atto formale implicante il riconoscimento politico delle B.R. come interlocutore ufficiale dello Stato, si sarebbe trattato di un'iniziativa unilaterale dello Stato stesso volto alla ricerca di una soluzione incruenta della vicenda (v. ud. 9/3/87, f. 169).
D'altronde il discorso dell'on. Bartolomei ad Arezzo, la vicinanza in quei giorni alla famiglia Moro del sen. Fanfani, il quale era apparso "estremamente sensibile a tentare una via, che non fosse quella a livello governativo", potevano essere senz'altro interpretati come "segnali di un'interlocuzione politica", ma talmente generica da non essere ritenuta meritevole di considerazione ai fini pratici. Detti segnali, tuttavia, sarebbero stati sufficienti a "mettere nei guai" l'esecutivo per le ragioni dianzi accennate (f. 166).
Senza considerare che, al tempo, si sarebbe potuti "rimanere impastati nella capacità mediatrice della D.C.".
Comunque, concludeva sul punto il Morucci, la decisione dell'Esecutivo di uccidere l'on. Moro era stata comunicata loro fin dal 3 o 4 maggio e da quel momento l'esecuzione era stata differita di giorno in giorno.
Spiegava, altresì, Morucci (ud. 13/X/86) che sia egli che la Faranda avevano manifestato sin dall'inizio la loro contrarietà all'operazione Moro, ritenendo che essa sarebbe stata suscettibile di determinare una divaricazione nettissima "tra intervento organizzativo e dinamica della conflittualità sociale". In altri termini l'organizzazione non si sarebbe dovuta "arroccare" su "una posizione di chiusura organizzativa"; ma avrebbe dovuto cercare "di diluire le proprie istanze organizzative all'interno della dinamica di conflittualità sociale".
Essi erano, tuttavia, rimasti nell'organizzazione, ritenendo che solo dall'interno sarebbe stato possibile determinare o, quanto meno, esperire un tentativo di "regolare questa totale tangenzialità della linea che si stava affermando", nella consapevolezza dell'effetto dirompente che gli eventi che ne sarebbero potuti scaturire avrebbero avuto "nella dinamica interna delle relazioni sociali" del Paese (v. atti Comm. parl. strage di via Fani, Doc. XXIII, n°5, vol. X, f. 625).
Ove la "linea" da essi propugnata si fosse affermata vincente, ne sarebbe derivato un rafforzamento delle rispettive posizioni in seno alle B.R. e indirettamente - al dire di Savasta (int. G.I. Roma 9/2/1982) - di quelle di Piperno e Pace, "dagli altri ritenuti i veri artefici di quella linea politica".
Dichiarava il Savasta nel corso dell'interrogatorio svolto dal P.M. di Padova il 10/2/1982: "Dal dibattito politico che all'interno della Direzione della colonna romana seguì alla conclusione dell'operazione Moro potei desumere che gli organi direttivi dell'organizzazione ed anche il Pace ed il Piperno erano stati concordi nell'innalzamento del livello di scontro, cui era diretta l'operazione stessa, anche se poi si verificarono sostanziali divergenze sulla gestione finale del sequestro, che, come ho già precisato, avrebbe dovuto concludersi - secondo le tesi politiche prospettate dal Morucci - con il rilascio del prigioniero.
In seguito, ad operazione definita, si sarebbe parlato di un tentativo di "infiltrazione" nelle B.R., tramite Morucci e Faranda e lo stesso Pace, già militante della "brigata servizi" (int. G.I. Roma 14/2/82).
L'articolo "Dal terrorismo alla guerriglia" di F. Piperno aveva scatenato un'aspra polemica in direzione di colonna nel corso di una riunione tenutasi in una base di Moiano.
Erano presenti lo stesso Savasta, Seghetti, Piccioni, Gallinari, Morucci e Faranda e Balzarani.
Gallinari, sbattendo il giornale sul tavolo e indicando l'articolo, aveva contestato a Morucci e Faranda di essere i portatori da sempre di una linea politica estranea a quella delle B.R.. Si era venuta, in pratica, maturando la convinzione che quello della conduzione delle trattative "tra Pace e Piperno e il P.S.I." fosse stato il momento di "ingerenza politica" dei due "per assumere la Direzione di tutto il movimento combattente e in particolare delle B.R. (int. G.I. Roma 23/4/82).
In seguito, maturando il dissidio, Moretti aveva convocato una riunione della Direzione di colonna allo scopo di aprire un dibattito approfondito sulle "ragioni politiche del contrasto" e di pervenire ad un chiarimento. Al termine di detta riunione Morucci e Faranda erano stati invitati ad esprimere in un documento scritto il loro definitivo giudizio "su tutto l'operato politico dell'organizzazione" (int. Savasta G.I. Cagliari 27/2/82). Documento che sarebbe stato fatto girare all'interno come contributo al dibattito.
Poco dopo Morucci e Faranda avevano "dato le dimissioni dalla colonna", dicendo di non riconoscerne più l'autorità.
L'esecutivo, stante la gravità delle situazioni, aveva deciso di "risolvere drasticamente la questione" ingiungendo ad entrambi il recarsi a preparare il documento richiesto in una base dell'organizzazione e di approntare una lista di quanto avevano in dotazione.
Da quella base erano, però, riusciti a fuggire con l'aiuto di Pace (int. Faranda ud. 2/3/87) portando con sè armi, strumenti di falsificazione e documenti vari, lasciando la scritta: "no, al fermo di polizia".
Contemporaneamente erano usciti dalle B.R.
Massimo Cianfanelli, Norma Andriani, Carlo Drogi e Arnaldo Maj.
Gli "ex-compagni" allarmati, senza perdere tempo, avevano provveduto a contattare tutti i gruppi estremistici contigui per informarli dell'accaduto e delle ripercussioni negative che sarebbero derivate in caso di aiuti prestati ai transfughi.
Ma le polemiche erano continuate senza placarsi nemmeno dopo l'arresto di Morucci e Faranda.
"Ricordo" - aggiungeva Cianfanelli - "che successivamente all'uscita dalle B.R. mi incontrai con Gallinari in un bar nei pressi di Piazza di Spagna, su richiesta di Savasta e Libera, che erano venuti a trovarmi a casa.
Gallinari era chiaramente interessato al mio reinserimento nell'Organizzazione e soprattutto al recupero delle armi portate via dal Morucci . Il Gallinari mi disse che questi e Faranda erano due banditi e che si erano lasciati manovrare da personaggi ambigui quali Piperno e Pace, anche prima e durante il sequestro Moro. Risposi al Gallinari che non sapevo nulla dei rapporti tra Morucci e Faranda e Piperno e Pace…Cercai d'accordo con Gallinari di combinare un appuntamento tra la Faranda e uno delle B.R.. Dopo qualche giorno rividi Morucci, che io incontravo di frequente, e parlai sia della questione delle armi che di altre questioni legate ai problemi dell'organizzazione dell' "M.C.R." (che inizialmente doveva chiamarsi "M.C.C.", Movimento comunista combattente), sia dei suoi rapporti con Piperno e Pace, anche dopo il suo ingresso nelle B.R..
Il Morucci rispose che li aveva incontrati e che ciò peraltro non significava niente in quanto egli era legato a loro da antica amicizia. In quella stessa occasione o in altre circostanze, Rosati disse che Piperno e Pace si erano detti contrari all'uscita di Morucci e Faranda dalle B.R., poichè costoro dovevano continuare la loro battaglia per un diverso indirizzo politico all'interno dell'organizzazione".
Comunque sia di Piperno che di Pace - precisava il Cianfanelli nell'udienza del 17/2/87 (S. III) - se ne era sempre data all'interno delle B.R. una valutazione negativa, essendo essi considerati, nulla più che "grilli parlanti, cioè gente che amava parlare, amava starsene in finestra a guardare…con velleità di potere sugli altri".
Con l'opuscolo intitolato "Brigate Rosse n°7 Luglio 1979: dal campo dell'Asinara" allegato al volantino di esaltazione dell'omicidio del maresciallo Domenico Taverna, nella vicenda si erano voluti inserire pure "i militanti prigionieri", i quali si erano scagliati contro Valerio Morucci e Adriana Faranda, qualificandoli "neofiti della controgguerriglia psicologica, poveri mentecatti utilizzati dalla controrivoluzione", contro il "barone Piperno" e tutti i "sedicenti autonomi" che "dalla tranquillità delle loro cattedre e delle loro riviste incitavano i proletari detenuti alla lotta più truculenta e oggi, timidi agnellini, affidano allo sciopero della fame le loro rivendicazioni di innocenza".
In realtà, al dire di uno dei "capi storici" delle Brigate rosse, Alberto Franceschini (ud. 17/XII/86), il contrasto di fondo era essenzialmente un "contrasto sui modi diversi di concepire l'organizzazione" in rapporto col "Movimento".
Ed era un contrasto che passava anche all'interno del gruppo del carcere.
Tant'è che tracce se ne rinvenivano nel comunicato n°19 emesso nel corso del "processo di Torino", in cui vi era un richiamo "a un ritorno alla lotta di massa" e ad un suo "rapportarsi alla realtà". Ed in precedenza, in un comunicato emesso a Bologna nel febbraio-marzo 1977, donde era rilevabile una critica allo "spontaneismo", come all' "organizzativismo" inteso come "tendenza a concepire l'organizzazione separata dal movimento".
Ma la pubblicazione su "Lotta Continua", dopo l'arresto del Morucci, nei primi mesi del '79, di un documento a firma di costui e della Faranda in cui si tentava di avvalorare la linea da loro propugnata all'interno delle B.R. con il richiamo a quella originaria dei "Padri storici" (quale consegnata nel menzionato comunicato n°19), aveva fatto temere che il silenzio degli stessi "Padri storici" sarebbe potuto essere interpretato come confermativo dell'assunto dello stesso Morucci. E che, per tal verso, ne fosse potuta derivare una loro strumentalizzazione nel contesto di "diatribe esterne" a loro affatto estranee. Tanto estranee, che, al momento in cui essi avevano stilato quel documento, ignoravano che Morucci e Faranda erano usciti dall'organizzazione a seguito del dissenso maturatosi all'interno.
Ciò non di meno l'organizzazione stessa quel documento aveva "gestito"
in seguito, nell'autunno dello stesso anno, per sostenere la linea ufficiale (v. ud. 17/XII/86).
Affermava Franceschini l'inconsistenza di quanto sostenuto dal Buonavita, che a quel dibattito all'interno del carcere dell'Asinara non aveva neppure partecipato (all'epoca, infatti, era detenuto altrove) e cioè che l'iniziativa di Morucci era stata interpretata come pilotata dal Piperno (e dal P.S.I. che ne era alle spalle) e, in quanto tale, ritenuta pericolosa per l'Organizzazione.
Conforme era la deposizione sul punto di Lauro Azzolini, coautore del documento dell'Asinara. La linea di Morucci e Faranda non era "una linea peregrina", potendo, per contro, "intaccare a certi livelli l'organizzazione". Sarebbe stato, dunque, opportuno che il dibattito fosse continuato all'interno dell'organizzazione senza addivenire ad una rottura traumatica.
Tanto più che le motivazioni di fondo delle posizioni di Morucci e Faranda scaturivano "dal profondo dell'organizzazione" e, dunque, meritavano di essere sviluppate "nell'internità della stessa".
Tali considerazioni avevano determinato i reclusi a compilare quel "volantino", dopo l'uscita su "Lotta continua" del documento morucciano.
(...)
Dopo l'uscita di Morucci e Faranda dalle B.R. taluni dei militanti ortodossi dell'organizzazione avevano chiesto a Pace, di incontrare Piperno, convinti che i due dissidenti fossero in contatto con lui.
Essi ritenevano il Piperno e lo stesso Pace responsabili di quanto accaduto, della spaccatura, cioè, determinatasi nell'organizzazione.
Il Piperno - al dire di Morucci - si era subito recato all'appuntamento e in quell'occasione probabilmente era stato minacciato.
Interessante al riguardo la deposizione resa dal Savasta (int. G.I. Roma 9/2/82): "un altro episodio che dimostra gli stretti legami esistenti tra Piperno e Pace, Morucci e Faranda, è costituito dal fatto che subito dopo la fuga di Morucci e Faranda, i componenti della Direzione di colonna Seghetti, Gallinari, Balzarani, Piccioni ed io stesso ci rivolgemmo al Pace, in occasione di un incontro che avvenne casualmente presso il bar Fassi, per chiarire la questione dei rapporti delle B.R. con Morucci e Faranda e della restituzione delle armi (v. anche atti comm. parl. strage via Fani int. Savasta 6/7 aprile 1982).
In quella occasione si prese un accordo per un successivo incontro che si sarebbe dovuto tenere a casa del Piperno o in una casa messa a disposizione dal Piperno. In effetti questo incontro ci fu realmente. Ad esso parteciparono Moretti, Balzarani, Pace e Piperno. Nel corso della riunione, di fronte alle accuse di Moretti e Balzarani, Piperno e Pace non negarono di avere sempre mantenuto rapporti personali e politici con Morucci e Faranda, dei quali sostenevano di ignorare il rifugio.
Essi affermarono che "Metropoli" avrebbe sempre sostenuto, come aveva fatto fino a quel momento, l'azione delle B.R., rispetto alle quali essi si ponevano in un'azione di sostegno ideologico e politico.
Qualche tempo dopo la rivista "Metropoli" pubblicava un articolo nel quale si parlava dell'attentato a Schittini, sul quale si formulava un giudizio positivo"(v. pagg. precedenti 102 e 103 della presente sentenza).
Interessante, altresì, la deposizione del Buonavita resa al G.I. di Roma il 7/3/83 (v. anche int. Emilia Libera, vol.5, F.9, S.29):
"A proposito del Piperno noi detenuti delle B.R. del carcere di Palmi sapemmo che il comitato esecutivo della nostra organizzazione valutava negativamente l'opera dello stesso Piperno, poichè tramite gli uomini a lui legati, presenti nella nostra organizzazione, egli generava fratture e contraddizioni. Il comitato esecutivo, decise, pertanto, di intervenire molto duramente contro Piperno. Il Gallinari riuscì a mettersi in contatto con lui in un bar di Roma e parlando al nome dell'esecutivo gli intimò di non proseguire nella sua manovra diretta a mettere il suo cappello politico alle B.R. e nel contempo richiese la restituzione delle armi e del materiale che Morucci e Faranda avevano portato con loro sottraendolo all'organizzazione". Ciò - aggiungeva il Buonavita - aveva appreso leggendo una relazione che Seghetti e Gallinari avevano predisposto per la brigata di campo del carcere di Palmi "circa la situazione della colonna romana".
Una conferma di notevole rilevanza dell'esistenza di un rapporto mai definitivamente reciso dal Pace con esponenti delle B.R. proviene dalla stessa voce del Morucci (ud. 9/3/87), il quale dichiarava di avere appreso che, dopo la loro uscita dall'organizzazione, Moretti aveva incaricato Seghetti di cercare Pace, nella speranza che costui potesse stabilire dei contatti tra le B.R. e P.L.. Il Pace, invero, non aveva verosimilmente cessato di avere collegamenti con ex militanti di P.O. confluiti nell'una e nell'altra organizzazione.
Seghetti si era mostrato recalcitrante a contattare il Pace, ma Moretti aveva insistito nella sua richiesta, forse perchè convinto che Pace fosse la persona più idonea, il canale "meno rischioso" a tal fine.
Pur in difetto di un accordo politico con P.L., stanti le differenze di ordine tattico e strategico - spiegava Morucci - identico era l'obiettivo da perseguire: "il capovolgimento dell'ordine sociale" e in vista di tale obiettivo "era necessario accorciare le distanze, realizzando accordi operativi utili a costituire un unico fronte combattente comunista".
Anche per Savasta (int. P.M. Padova 5/2/82) Pace era un "canale obbligato" per stabilire un contatto tra B.R. e P.L., tanto "obbligato" che la decisione di ricorrere a lui era stata adottata in Direzione di colonna (atti Comm. parl. strage via Fani, sedute 6-7 aprile . v. Fasc. int.ri Savasta). Già in passato si era inteso "ampliare il fronte di combattimento" e costituire un'unità di attacco alla D.C. nel contesto della c.d. "campagna di primavera".
"Nell'ultima fase del sequestro Moro" - precisava Sandalo Roberto - " vi furono almeno due riunioni a Milano tra esponenti delle Brigate rosse ed esponenti di P.L.". Secondo quanto riferitogli da Marco Donat Cattin "per le B.R. si presentarono Azzolini e, pare, Franco Bonisoli; per il P.L. parteciparono lo stesso Donat Cattin e Nicola Solimano".
Oltre a discutere in generale, le B.R. "chiesero un aiuto squisitamente militare all'organizzazione P.L. per rompere l'accerchiamento; cioè, si sentivano un po' il fiato sul collo. Portare avanti quell'operazione nella Capitale e avere gli occhi puntati di tutte le forze dell'ordine comportava grossi problemi logistici e di spostamenti. Pertanto, poichè P.L. era abbastanza radicata nel nord-Italia, era stato chiesto che l'organizzazione facesse una serie di operazioni a Milano, a Torino, in altri luoghi, ove era presente, per distogliere l'attenzione dalla Capitale, proprio in supporto militare alla campagna che le B.R. stavano conducendo".
Marco Donat Cattin e Nicola Solimano però, "rifiutarono la proposta, affermando che la loro organizzazione non condivideva l'attacco alla D.C. e di conseguenza il sequestro di Aldo Moro". Ed espressero nettamente una valutazione negativa dell'operazione, non giudicando opportuno "alzare il livello di scontro" contro la D.C.
In data 29 maggio 1979, dopo accurati servizi di appostamento, venivano arrestati in quell'abitazione i latitanti Morucci Valerio e Faranda Adriana, trovati in possesso di un vero e proprio arsenale di armi oltre che di un ingente quantitativo di moduli di patenti, carte di identità in bianco, documenti di provenienza illecita, già falsificati o da falsificare, timbri ed altri strumenti di contraffazione, giubbetti antiproiettili, ecc.
Nella camera da letto di una delle bambine della Conforto veniva recuperata una borsa contenente una "Skorpion" cal. 7,65, di fabbricazione cecoslovacca, con matricola abrasa , con relativi caricatori e munizioni e con il silenziatore applicabile, oltre che ad una bomba a mano, detonari ed altro.
Nella circostanza la Conforto dichiarava "di ospitare la coppia, da lei occasionalmente conosciuta al Pincio, sin dalla precedente Pasqua e di non aver mai nutrito sospetti sia sulla vera identità dell'uomo e della donna, presentatasi come "Enrico" e "Gabriella" sia di quanto da loro posseduto.
Ma, successivamente, nell'interrogatorio svolto dal P.M. la Conforto ammetteva che i due giovani le erano stati "segnalati" dal Piperno, suo collega nell'ateneo calabrese, e descritte come "persone oneste e corrette" che prestavano la loro opera "nella rivista Metropoli o nella rivista "Pre-print" collaborando con lo stesso Piperno "alla sua attività politica" ed a quella del suo gruppo e cioè di Oreste Scalzone, Lanfranco Pace ed altri".
Processati con rito direttissimo dal Tribunale di Roma, Morucci e Faranda venivano condannati alla pena complessiva di anni sette di reclusione e L. 2.000.000 di multa, mentre la Conforto veniva assolta per i d.p. (sent. 4/7/1979 passava in giudicato).
Dalle ammissioni degli interessati si riusciva a stabilire che alle vicenda non era estraneo Lanfranco Pace.
Costui per primo aveva parlato con la donna, anche a nome di Piperno, sollecitandola ad accogliere "anche per un breve periodo una coppia di compagni" che "avrebbero potuto aver noie con la giustizia".
Incontratasi successivamente con il Piperno presso l'Università dell'Aquila, Giuliana Conforto si era lasciata convincere per le garanzie da costui fornitele "in relazione col compito comportamento dei due", a prestare il suo assenso al trasferimento in casa sua di "Enrico" e Gabriella.
Nel corso di quel dibattimento (ud. 20.6.79) la Conforto, a contestazione del Tribunale, dichiarava che "avendo saputo dal Piperno che i due potevano essere ricercati" essendo stati i loro nomi trovati dalla Polizia "su un'agenda sospetta", aveva con essi concordato di dare, in caso di necessità, la versione del casuale incontro al Pincio.
Piperno, interrogato dal G.I., dopo la sua estradizione dalla Francia offriva una versione differente.
Era stato Pace ad avvertirlo, nel corso di un incontro avvenuto a Roma, dell'ospitalità accordata dalla Conforto a Morucci e Faranda, in virtù del suo interessamento.
La circostanza gli era, in seguito, stata confermata dalla stessa Conforto in occasione di un incontro avuto con costei a L'Aquila.
Col Pace egli si era doluto dell'iniziativa, essendogli sembrato che la Conforto avesse inteso utilizzare l'accordata ospitalità a Morucci a Faranda come "elemento di scambio" per un suo eventuale interessamento al suo trasferimento all'università dell'Aquila.
In un confronto con la Conforto (27/X/79 G.I.) F. Piperno negava quanto da costei asserito in ordine ad una telefonata che egli le avrebbe fatto, chiedendole ospitalità per i suoi due amici. E la Conforto replicava:
"Ho la certezza assoluta che le telefonate di presentazione è stata fatta da F. Piperno".
Interrogato il Pace dal G.I. il 24.1.1980 ammetteva di avere aiutato Morucci e Faranda a trovare provvisorie sistemazioni, su richiesta della stessa Faranda, che a lui si era rivolta verso la fine di gennaio o ai primi di febbraio 1979, preoccupata dalla propria sicurezza personale e di quella del Morucci, dopo la loro uscita dalle B.R.
Dopo averli sistemati per qualche giorno nell'abitazione di una persona che non intendeva nominare, aveva chiesto ad Aurelio Candido, giornalista del "Messaggero" di ospitarli in casa sua per qualche giorno, ottenendone l'assenso.
Ma l'ospitalità si era protratta per due-tre settimane.
Altro alloggio egli aveva procurato loro presso altra persona che non intendeva nominare.
Ed infine li aveva introdotti presso Giuliana Conforto, da lui conosciuta a Cosenza nel 1977, in occasione dei lavori di un Convegno.
"Era un sabato sera" - proseguiva testualmente il Pace "e a quattr'occhi le chiesi se poteva fare un favore a me e a Franco Piperno ospitando per un po' di tempo Enrico e Gabriella. Feci il nome di Franco Piperno perché la mia conoscenza con la Conforto era superficiale, mentre sapevo che Piperno era suo amico. La Conforto mi chiese chi fossero ed io risposi che erano due compagni latitanti, ma non per reati gravi".
Specificava il Pace di aver riferito a Piperno la circostanza solo dopo l'accordata ospitalità.
Ma Piperno già ne era stato informato dalla Conforto nel corso di un incontro avuto con lei nell'università dell'Aquila.
In data 23.1.1980 si presentava spontaneamente al G.I. a rendere le sue dichiarazioni il giornalista grafico de "Il Messaggero", Aurelio Candido.
Egli aveva conosciuto Pace tramite Stafania Rossini, collaboratrice esterna del giornale. Un giorno Pace lo aveva avvicinato chiedendogli di ospitare nella sua abitazione due suoi amici intransito per Roma, "che avevano problemi di alloggio".
Pur restìo ad accogliere le richieste, non conoscendo egli ancora bene il Pace, aveva acconsentito. L'ospitalità si era protratta alcuni giorni e a termine le due persone, da lui conosciute con i nomi di "Enrico" e "Gabriella" si erano allontanati, lasciandogli sul tavolo dello studio un biglietto di ringraziamento non firmato e le chiavi dell'appartamento.
In seguito, dopo l'arresto di Morucci e Faranda, nel vedere in redazione le loro foto, era rimasto come "folgorato" nel riconoscere le sembianze delle persone da lui ospitate.
Si era premurato a parlarne a Gianfranco Spadaccia, esprimendogli "in termini quanto mai generici, i suoi dubbi sui predetti. Lo Spadaccia gli aveva consigliato di riflettere, prima di "evitare inutili allarmismi".
Successivamente, nei primi giorni di gennaio 1980 aveva appreso dal collega De Nardo Evangelista del servizio "cronache giudiziarie" di essere nella "lista del 21 Dicembre".
Spaventato si era recato nuovamente dallo Spadaccia per raccontargli "per filo e per segno" l'episodio della ospitalità e dell'intermediazione di Pace (circostanza questa non riferita gli prima, perché gli era parsa trascurabile). Insieme a Spadaccio, nel cuore della notte (tra i giorni 4 e 5 gennaio '80), era andato a trovare Marco Pannella per chiedergli il da farsi. Questi lo aveva consigliato di stendere per iscritto la storia di quanto gli era successo e di consegnare il documento ad un notaio, prima di presentarsi al Magistrato. Ciò per motivi precauzionali.
L'on. Marco Pannella, presentatosi spontaneamente a questa Corte (ud. 7.4.87) il giorno successivo a quello della deposizione di Candido, confermava le circostanze, assumendosi la responsabilità di aver consigliato il compagno di Partito di annotare tutto quanto riuscva a ricordare della vicenda, per consegnare poi il documento, recante le annotazioni ad un notaio. Non si sarebbero, invero, da parte sua (di Candido) potete riferire al Magistrato "sospetti", "illazioni", "elucubrazioni", ma solo "cose sapute". Ogni altro elemento presuntivo e quant'altro potesse riflettere mere considerazioni personali, ancorché "assurde", e "cervellotiche" andava più opportunatamente esposto per iscritto in un atto riservato.
E sempre a fini precauzionali - proseguiva il parlamentare radicali - "contro situazioni di rischio oggettivo" sarebbe stato opportuno, poi, preparare la notizia dell'affidamento dell'atto al notaio, assumendosi essere in esso consegnato il "saputo" ed il "riflettuto" sulla vicenda di cui egli, Candido, era stato inconsapevole protagonista.
A seguito delle pubblicazioni su "Metropoli" nel giugno 1979 di un fumetto, disegnato da Madando Giuseppe sull'agguato di via Fani e sulle catture dell'on. Aldo Moro in cui erano rilevabili "a posteriori" una serie di elementi all'epoca del tutto ignoti ed, in particolare, le sembianze del parlamentare socialista, on. Signorile, il Magistrato inquirente decide di procedere alla sua audizione.
Precisava l'on. Signorile che, in effetti, durante l'ultima fase del sequestro dell'on. Moro, il P.S.I. aveva sviluppato una linea politica tendente ad ottenere la salvezza del sequestrato attraverso un atto autonomo dello Stato, che consentisse uno scambio con la persona dell'on. Moro.
E nello sforzo "di capire se una linea del genere poteva essere considerata come suscettibile di sviluppi positivi", si era cercato, nel contesto "di altri tentativi", un interlocutore "per una eventuale reazione positiva da parte delle Brigate rosse".
Ne aveva parlato, allora, al Direttore dell'Espresso, Livio Zanetti, suo buon amico, il quale, nel manifestargli "la sua contrarietà ad ogni trattativa", gli aveva accennato ad una serie di autorevoli informatori (tra i quali Franco Piperno e Oreste Scalzone), cui era solito ricorrere per i servizi affidatigli, il suo collaboratore dell'insufficienza del solo atto di clemenza da parte dello Stato per sbloccare il problema Moro, e ciò in coerenza con le posizione assunte dalle B.R. la necessità di un intervento che consentisse un riconoscimento di fatto delle B.R. come interlocutore politico". Il Piperno aveva sostenuto "che la richiesta della liberazione di ben tredici detenuti non aveva - a suo giudizio - un valore assoluto, prevalendo il significato politico che poteva rilevarsi da un atto che implicasse quel riconoscimento di fatto, al quale le B.R. ambivano".
Il Piperno, comunque, aveva tenuto sempre, ad escludere, ogni suo contatto con esponenti delle B.R. "limitandosi a dire che poteva capirli, nel senso che poteva intendere come funzionava il sistema mentale o meglio il codice di valori dei brigatisti". Aveva, altresì, posto in evidenza che l'iniziativa "del P.S.I. non era di per sé sufficiente a sbloccare la situazione, ma che occorreva un altro tipo di intervento che avesse caratteristiche, ufficiali od ufficiose, di maggiore rappresentatività".
Nell'occasione si era parlato "delle possibilità che allora si agitavano e cioè degli interventi di Amnesty International, della Croce Rossa, del Vaticano e della stessa D.C. ma in termini molto generici".
Dichiarava lo Zanetti (int. 26/6/79) in proposito che Piperno aveva asserito che, a suo parere, "le B.R. non avevano interesse politico ad uccidere Moro e che molto dipendeva da quello che poteva essere "inventato" non tanto dal P.S.I. quanto dalla D.C." che doveva prendere e rendere pubblica "qualche interessante iniziativa".
Nel prendere atto che uno degli argomenti trattati nel corso del primo incontro con il Piperno - la liberazione di tredici detenuti - doveva necessariamente essere successivo all'emissione, in data 24/4/78, del comunicato n° 7 recante la relativa richiesta, il Signorile dichiarava essere agevolmente collocabile la data del primo incontro in un giorno immediatamente successivo al 24/4/78.
A meno che detto argomento non fosse stato trattato nel corso di un secondo incontro da lui avuto con Piperno.
A detto incontro, cui aveva partecipato il Pace si era delineato "con maggiore precisione il ruolo che poteva essere assunto dalla D.C. o da un suo autorevole esponente".
L'intervento di un qualificato rappresentante del Partito di maggioranza
relativa, nelle trattative in corso, sarebbe valso a conferire alle B.R. un tacito riconoscimento come interlocutore ufficiale dello Stato.
Gli incontri - precisava il Signorile - da lui avuti con il Piperno ben potevano essere stati tre, anziché due. Comunque egli ricordava bene che l'ultimo abboccamento verificatosi "nel periodo compreso tra il 24 aprile e il 5 maggio 1978 e, comunque, prima del comunicato n° 9" era stato sollecitato telefonicamente dal Piperno che, con aria preoccupata, aveva insistito sulle "necessità di un urgente atto visibile da parte della D.C. per salvare la vita dell'on. Moro o almeno per ritardare i programmi eventuali delle B.R.… per interrompere i termini" (frase testualmente usata dal Piperno).
L'on. Signorile, dopo aver informato il segretario del suo Partito, si era rivolto il 6 maggio al sen. Amintore Fanfani per "una presa di posizione anche se cauta, senza far riferimento, peraltro, ai discorsi con Piperno".
Il sen. Fanfani aveva telefonato al Presidente del gruppo dei senatori democristiani, Giuseppe Bartolomei, "chiedendogli - nell'ambito del comunicato della Delegazione D.C. - di fare un accenno all'esigenza di non trascurare nulla per salvare la vita dell'on. Moro".
E il giorno seguente agenzie di stampa e giornali avevano "pubblicato una dichiarazione in tal senso del sen. Bartolomei".
Conforme, in proposito, era la deposizione del Presidente del Senato, Fanfani (dep. 28/6/79), il quale, dinanzi alla prospettazione di uno scambio tra l'on. Moro e "un prigioniero comunista" e della utilità di una "sua pubblica dichiarazione che facesse conoscere come la D.C. riduceva le sue opposizioni ad una ipotesi di scambio", aveva replicato che "il problema riguardava le Autorità competenti dello Stato e che nella sua veste istituzionale non intendeva "pregiudicare" la libertà di decisione sia del Governo che della D.C.".
Aveva così pensato di rivolgersi all'on. Bartolomei, Presidente del gruppo D.C. al Senato, per chiedergli un suo pubblico intervento capace di produrre "l'effetto di non far precipitare la situazione".
Della vicenda egli aveva avvertito subito la Presidenza della Repubblica "dato che l'on. Signorile aveva aggiunto che l'avv. Giuliano Vassalli sarebbe stato in condizioni di indicare qualche persona che poteva eventualmente essere scambiata con l'on. Moro".
Il lunedì successivo (8/5/78) l'on. Craxi aveva chiesto di vederlo; nella circostanza il Segretario del P.S.I. aveva espresso "la sua viva preoccupazione" ed aveva ripetuto "che mentre auspicava un approfondimento del problema giuridico dello scambio, sarebbe stato quanto mai utile, per non dire indifferibile, qualche manifestazione pubblica di attenuato rigore da parte della D.C. intorno al noto problema".
Il sen. Fanfani aveva promesso che in sede di Direzione della D.C. - già convocata - avrebbe "senz'altro preso la parola per invitare ad un approfondimento di una così grave questione".
L'on. Bettino Craxi (dep. 26/6/79) spiegava, a sua volta, che in una prima fase, "aderendo ad una sollecitazione della signora Eleonora Moro" aveva convocato l'avv. Giannino Guiso, difensore di alcuni brigatisti nel processo che si stava celebrando a Torino, per pregarlo "di prendere contatti con i suoi clienti" e di acquisire "elementi che potessero orientare ai fini di una soluzione positiva del caso". "Attraverso le notizie che si erano raccolte" i socialisti avevano "maturato la convinzione che senza una contropartita la sorte di Moro era segnata".
Vi erano stati "frequenti" incontri con l'avv. Guiso, dai quali si erano "ricavati suggerimenti e valutazioni ma nessun dato di fatto determinante".
L'on. Craxi affermava, ancora di avere autorizzato Claudio Signorile agli approcci con militanti della c.d. "Autonomia" ed anzi egli stesso si era incontrato, il 6 maggio 1978, con Lanfranco Pace che si era appunto qualificato come "aderente del Movimento di Autonomia": costui era stato accompagnato all'Hotel "Raphael" dove egli alloggiava dal sen. Antonio Landolfi.
Durante la conversazione, il Pace aveva sostenuto "che secondo la sua valutazione, la situazione stava precipitando e che bisognava fare qualcosa".
Ad una sua esplicita richiesta se avrebbe potuto avere contatti con i brigatisti, aveva risposto che ciò sarebbe stato molto difficile.
E che, comunque, sarebbe occorso "l'intervento di un esponente della D.C.".
In sede di confronto con il Pace, Craxi specificava che "a conclusione del discorso", aveva soggiunto che "per smuovere la D.C." avrebbe "dovuto avere in mano… una prova che Moro fosse ancora in vita" e che, a tal fine, "sarebbe stato utile ricevere uno scritto dell'on. Moro con la frase convenzionale "misura per misura"".
Sentito dal G.I. in data 28/6/79 Antonio Landolfi dichiarava di avere incontrato "per caso" il Pace il 6 maggio '78 verso le ore 12, nella zona tra piazza Navona ed il Pantheon. Costui gli aveva manifestato "l'opinione che, se il P.S.I. avesse insistito nella posizione di esperire qualsiasi tentativo per salvare la vita dell'on. Moro, si sarebbe potuto aprire qualche spiraglio".
Egli allora poiché tale la "linea del suo Partito", lo aveva invitato a "continuare la conversazione con il Segretario del Partito".
Nel pomeriggio di quello stesso giorno si erano entrambi recati a trovare l'on. Craxi, che alloggiava nell'Hotel "Raphael".
Il Pace, da lui presentato come un noto esponente dell'Autonomia romana, dopo aver escluso di essere un brigatista, aveva ribadito gli stessi argomenti svolti con lui, evidenziando l'importanza della "funzione che, a suo giudizio, ed a giudizio dei suoi amici e degli appartenenti al suo gruppo politico, poteva assumere il P.S.I. perché si arrivasse ad una soluzione del problema Moro"; aggiungendo che "la situazione era bensì grave, ma ancora suscettibile di una soluzione positiva, se i socialisti avessero potuto esprimere una iniziativa ancora più chiara ed esplicita".
Craxi aveva risposto che si ponevano due problemi: uno concernente la prova dell'esistenza in vita dell'on. Moro; l'altro concernente "la possibilità di sapere se, una volta che dallo Stato fosse venuto un atto di clemenza, questo sarebbe stato tale da provocare un atteggiamento, da parte di chi deteneva prigioniero l'on. Moro, positivo al fine di creare le condizioni per la salvezza della sua vita".
E allora altro non restava da fare che "ricercare un segnale, un messaggio del tipo "misura per misura"".
Pace aveva concluso che per lui sarebbe stato molto difficile fornire assicurazioni al riguardo.
Interrogato dal G.I. dopo il suo arresto e l'avvenuta estradizione dalla Francia, il Piperno dichiarava che gli incontri con l'on. Signorile erano avvenuti su sollecitazione del Dr. Zanetti, Direttore dell'Espresso e per il tramite del Dr. Mieli.
Nonostante le perplessità da lui avvertite ad incontrarsi con esponenti di Partiti politici, aveva accolto al richiesta.
L'incontro con Signorile e Scialoia era avvenuto a casa dello Zanetti in un periodo successivo al 24/4/78 (data in cui era già stati diffusi i comunicati n° 7 e n° 8 con i quali i terroristi avevano avanzato precise condizioni per il rilascio dell'on. Moro proponendo uno scambio con tredici prigionieri politici già condannati o imputati per delitti commessi a scopo di estorsione.
Il parlamentare socialista, nell'accennare a detta proposta da lui ritenuta inaccettabile, aveva ventilato l'ipotesi della liberazione di un solo detenuto in gravi condizioni di salute. Aveva, peraltro, accennato l'on. Signorile "all'iniziativa di Amnesty International e al problema delle carceri speciali", chiedendogli cosa ne pensasse. Egli aveva risposto che erano iniziative apprezzabili e suscettibili, comunque, di essere prese in considerazione.
In seguito aveva avuto altri due incontri con l'on. Signorile, su sua sollecitazione. All'ultimo di detti incontri aveva partecipato "di sua iniziativa" il Pace.
A detta di quest'ultimo (int. G.I. 19/2/80) era stato, invece, il Piperno a "pregarlo" di intervenire all'incontro sollecitato dall'on. Signorile.
Ciò era avvenuto la mattina dello stesso giorno del casuale incontro in Piazza Navona con il sen. Landolfi e del successivo incontro con il Segretario del P.S.I. on. Bettino Craxi
Secondo quanto dichiarato da Morucci (int. 13/X/1986) Lanfranco Pace, entrato nelle B.R. nel settembre/ottobre 1977, ne era uscito all'incirca nel successivo mese di dicembre.
Introdotto inizialmente in una "struttura di dibattito", dopo il fallimento del progetto di una rivista nazionale, che rispondesse all'esigenza di offrire un'elaborazione teorica ai problemi maturati nei tre anni precedenti (dal '74 al '77) a seguito del mutamento dell'orizzonte politico, allorché si era trattato di passare ad un livello superiore di coinvolgimento nell'organizzazione, aveva mostrato di non impegnarsi nei compiti affidatigli, disertando gli appuntamenti, compresi quelli c.d. "di recupero" che si sarebbero protratti fino al gennaio 1978.
In effetti Pace, per il breve periodo in cui aveva militato nelle B.R., aveva mostrato di considerare queste "una variabile assolutamente indipendente nel quadro del movimento nazionale". Variabile che "portava avanti una linea monca", cioè esclusivamente "militare", estranea "alle lotte sociali e politiche" e alle nuove problematiche maturate nel '77.
In quel contesto socio-politico era ravvisabile da una parte "l'estremo spontaneismo delle manifestazioni giovanili"; dall'altra "l'estrema sintesi organizzativa… del gruppo armato clandestino". Per ricomporre in un quadro unitario detta divaricazione e congiungere "i due monconi del movimento rivoluzionario" non restava che integrare la lotta armata nel tessuto delle nuove conflittualità sociali. Alla realizzazione di un tale progetto Pace intendeva muovere "dall'interno del movimento"; egli, Morucci, dalle B.R., ritenendole "una scelta obbligata".
Sia egli che la Faranda erano, in seguito, entrati in rotta di collisione con l'organizzazione per avere reiteratamente prospettato l'esigenza di una lotta armata fondata non "sullo scontro" tra le B.R. e lo Stato, ma più legata "ai contenuti della conflittualità che si esprimeva in quegli anni".
Dopo l'operazione Moro la frattura si era espansa, anche a seguito del dibattito sull'esigenza di costituire "un fronte largo, esteso, di nuclei in parte clandestini e in parte legali interni alla conflittualità sociale e disponibili a "portare avanti la pratica della lotta armata".
Era intendimento dei due "dissidenti" "usare il veicolo dell'M.P.R.O. per indurre un accostamento delle B.R. all'area dell'anzidetta conflittualità e, dunque, all'analisi dei fenomeni sociali e politici che si esprimevano in quegli anni".
Dal momento della conclusione dell'operazione Moro fino all'uscita di Morucci e Faranda dalle B.R. si era, dunque, sviluppato il loro "disagio politico" avvertito dapprima "in termini di disaccordo politico", quindi come "determinazione di un antagonismo politico", "di una linea alternativa", "della necessità di un'elaborazione alternativa a quella proposta dall'organizzazione" (v. atti parlamentari comm. parl. di inchiesta sulla strage di via Fani, Doc. XXIII, n° 5, vol. X, p. 624 sgg.).
Significativo, al riguardo, il testo di un documento rinvenuto nell'abitazione di viale G. Cesare, all'atto dell'arresto di Morucci e Faranda, dal titolo "Fase, passato, presente e futuro, un contributo critico" (rep. 2129), in cui, tra l'altro, è dato leggere:
"questa esigenza di lettura e comprensione… delle lotte operaie e proletarie" che si era inteso "sviluppare internamente e con il metodo corretto della discussione e della elaborazione collettiva" in direzione di colonna, era stato, "invece, arbitrariamente interpretato come linea politica contrapposta all'organizzazione". Da qui "la condanna" della "cricca di rinnegati", all'isolamento, al confino, all'annientamento, alla criminalizzazione e la denuncia dei loro "comportamenti deviazionistici piccolo borghesi", della "manovra" che "da lungo tempo era in atto" e del "gioco diretto da Scalzone o da chissacchì" che, avrebbe anche scritto "il documento" che aveva dato origine alla diaspora.
"L'attuazione di questa macabra strumentazione è una conseguenza della costituzione di uno Stato "dentro" lo Stato, costruito in modo tanto accuratamente "speculare" da farlo crescere altrettanto stupido.
La malafede dell'organizzazione quando afferma che avremmo "colpito" in modo del tutto inaspettato, è dimostrata dal fatto che il giorno dopo che avevamo esposto compiutamente la nostra posizione (su espressa richiesta della Direzione dell'O.) posizione che il compagno dell'esecutivo, incaricato dell' "indagine conoscitiva" aveva subito definito fuori della linea o della storia dell'organizzazione, due compagni della Direzione di colonna si sono precipitati a casa nostra dicendo che per "garanzia" e mancanza di fiducia dovevano fare inventario immediato del materiale in nostro possesso e trasferirci subito dopo nel luogo di "confino".
Ma lo "spazio politico" di un "carcere del popolo" riservato questa volta a dei compagni "non in linea" non ci è sembrato francamente sufficiente per condurre la nostra battaglia. Preferiamo lasciare il provvedimento di "confino politico" alla Magistratura, alla Legge Reale, alla Polizia che ne esprime le direttive".
Per quanto ci riguarda, abbiamo assunto nei confronti della "nuovissima"
polizia del proletariato il medesimo atteggiamento che tutti i compagni che combattono in nome e per la conquista della libertà e del comunismo, hanno da sempre riservato a tutte le polizie.
E il nostro diritto di continuare a combattere non ci sarà negato da una burocrazia neostalinista che si fregia arbitrariamente del titolo di "partito del proletariato" e prefigura un regime a fronte del quale il Capitalismo e la sua "falsa" democrazia rappresentano certo un paradiso terrestre.
Altro fatto rivelatore di questa malafede è che ancora prima di quell'esposizione, compagni della D.d.C. avevano già affermato all'interno delle strutture di lavoro che saremmo usciti in tre o quattro.
Comunque, nel diffidare coloro che avevano lanciato simili "calunnie" dal proseguire in inaccettabili atteggiamenti "quali la folle scompartimentazione di tutti i compagni usciti", "le visite domiciliari fatte …da ricercati o da altri che potrebbero esserlo presto", il sollecitare "l'appoggio del movimento (peraltro fermamente negato)", il parlare "con compagni non dell'organizzazione" della "fuga, con furto di due banditi" - gli autori dell'analisi precisavano che, sebbene "in posizione politica alternativa a quella dell'O.", non se ne proponevano, però, la "distruzione", perchè "si porterebbe dietro la perdita di un riferimento essenziale per la costruzione di un processo unitario di Partito, fatto che darebbe la stura a comportamenti anarchici e dispersivi sulla diffusione endemica e disgregata della guerriglia"
Ma, tornando a Pace, dichiarava il Morucci
(ud. 15/X/86, f.88) che nel corso dei 55 giorni di prigionia dell'on. Moro, l'aveva incontrato in un ristorante di Trastevere, dove egli e Adriana Faranda si erano recati a pranzare.
Non si era trattato di "un incontro accidentale", chè Pace faceva loro la "posta" nella zona già da alcuni giorni. E per questo anzi essi lo avevano rimproverato, dato che i suoi tentativi di porsi in contatto con loro avrebbero potuto condurre la Polizia sulle loro tracce, tanto più che alcuni giorni prima egli era stato "coinvolto" in una retata insieme ad altre persone della sinistra extraparlamentare.
Pace era "curioso" di conoscere i reali intendimenti delle B.R. sulla sorte che sarebbe stata riservata all'on. Moro, esternando nel contempo "anche le preoccupazioni di Piperno" in ordine alla piega che avrebbe potuto prendere la vicenda. Li aveva, altresì, informati di avere incontrato "alcuni esponenti politici" interessati ad avere delucidazioni sull' "universo brigatista" e a decrittare il linguaggio e i comunicati delle B.R..
Essi, di rimando, si erano limitati a manifestare il loro parere e cioè che occorreva "un pronunciamento politico" da parte della D.C., Partito che le B.R. identificavano, all'epoca, con lo Stato.
La preoccupazione del Piperno - ad avviso di Morucci - era sostanzialmente quella, condivisa da molti, della possibilità di far proseguire, comunque, il processo rivoluzionario; di talchè il ruolo svolto dalle B.R., sia pure avulso dalle esigenze del Movimento, sarebbe potuto essere quello di produrre "effetti destabilizzanti del quadro politico".
Il Morucci aveva, così, riferito al Moretti, esponente dell'ala intransigente dell'organizzazione, l'incontro avuto con Pace. Costui, pur non dimostrandosi eccessivamente turbato, nel dichiarare la propria contrarietà ad ogni trattativa che non fosse chiara, di pubblico dominio, aveva replicato che l'unico interlocutore ufficiale delle B.R. sarebbe dovuta essere la D.C..
Ribadiva il Morucci quanto dichiarato alla Commissione inquirente per la strage di via Fani (v. atti parl. Comm. Doc. XXIII, n° 5, vol. X, p.621) in relazione alle scadenze della fase attuativa della gestione del sequestro del Presidente della D.C..
In sostanza si era deciso di stringere i tempi (eseguendo la condanna a morte il nove maggio anzichè il dieci) per esservi stati segnali di un'incipiente "apertura della D.C. nei confronti del suo interlocutore"; di un'apertura, tuttavia, estremamente generica e, comunque, inappagante.
La liberazione, infatti, di un solo prigioniero politico avrebbe posto in difficoltà l'organizzazione che si sarebbe potuta trovare esposta al rischio di rifiutare, come insufficiente, l'eventuale contropartita sulla pelle di "un prigioniero comunista". Più che di un atto formale implicante il riconoscimento politico delle B.R. come interlocutore ufficiale dello Stato, si sarebbe trattato di un'iniziativa unilaterale dello Stato stesso volto alla ricerca di una soluzione incruenta della vicenda (v. ud. 9/3/87, f. 169).
D'altronde il discorso dell'on. Bartolomei ad Arezzo, la vicinanza in quei giorni alla famiglia Moro del sen. Fanfani, il quale era apparso "estremamente sensibile a tentare una via, che non fosse quella a livello governativo", potevano essere senz'altro interpretati come "segnali di un'interlocuzione politica", ma talmente generica da non essere ritenuta meritevole di considerazione ai fini pratici. Detti segnali, tuttavia, sarebbero stati sufficienti a "mettere nei guai" l'esecutivo per le ragioni dianzi accennate (f. 166).
Senza considerare che, al tempo, si sarebbe potuti "rimanere impastati nella capacità mediatrice della D.C.".
Comunque, concludeva sul punto il Morucci, la decisione dell'Esecutivo di uccidere l'on. Moro era stata comunicata loro fin dal 3 o 4 maggio e da quel momento l'esecuzione era stata differita di giorno in giorno.
Spiegava, altresì, Morucci (ud. 13/X/86) che sia egli che la Faranda avevano manifestato sin dall'inizio la loro contrarietà all'operazione Moro, ritenendo che essa sarebbe stata suscettibile di determinare una divaricazione nettissima "tra intervento organizzativo e dinamica della conflittualità sociale". In altri termini l'organizzazione non si sarebbe dovuta "arroccare" su "una posizione di chiusura organizzativa"; ma avrebbe dovuto cercare "di diluire le proprie istanze organizzative all'interno della dinamica di conflittualità sociale".
Essi erano, tuttavia, rimasti nell'organizzazione, ritenendo che solo dall'interno sarebbe stato possibile determinare o, quanto meno, esperire un tentativo di "regolare questa totale tangenzialità della linea che si stava affermando", nella consapevolezza dell'effetto dirompente che gli eventi che ne sarebbero potuti scaturire avrebbero avuto "nella dinamica interna delle relazioni sociali" del Paese (v. atti Comm. parl. strage di via Fani, Doc. XXIII, n°5, vol. X, f. 625).
Ove la "linea" da essi propugnata si fosse affermata vincente, ne sarebbe derivato un rafforzamento delle rispettive posizioni in seno alle B.R. e indirettamente - al dire di Savasta (int. G.I. Roma 9/2/1982) - di quelle di Piperno e Pace, "dagli altri ritenuti i veri artefici di quella linea politica".
Dichiarava il Savasta nel corso dell'interrogatorio svolto dal P.M. di Padova il 10/2/1982: "Dal dibattito politico che all'interno della Direzione della colonna romana seguì alla conclusione dell'operazione Moro potei desumere che gli organi direttivi dell'organizzazione ed anche il Pace ed il Piperno erano stati concordi nell'innalzamento del livello di scontro, cui era diretta l'operazione stessa, anche se poi si verificarono sostanziali divergenze sulla gestione finale del sequestro, che, come ho già precisato, avrebbe dovuto concludersi - secondo le tesi politiche prospettate dal Morucci - con il rilascio del prigioniero.
In seguito, ad operazione definita, si sarebbe parlato di un tentativo di "infiltrazione" nelle B.R., tramite Morucci e Faranda e lo stesso Pace, già militante della "brigata servizi" (int. G.I. Roma 14/2/82).
L'articolo "Dal terrorismo alla guerriglia" di F. Piperno aveva scatenato un'aspra polemica in direzione di colonna nel corso di una riunione tenutasi in una base di Moiano.
Erano presenti lo stesso Savasta, Seghetti, Piccioni, Gallinari, Morucci e Faranda e Balzarani.
Gallinari, sbattendo il giornale sul tavolo e indicando l'articolo, aveva contestato a Morucci e Faranda di essere i portatori da sempre di una linea politica estranea a quella delle B.R.. Si era venuta, in pratica, maturando la convinzione che quello della conduzione delle trattative "tra Pace e Piperno e il P.S.I." fosse stato il momento di "ingerenza politica" dei due "per assumere la Direzione di tutto il movimento combattente e in particolare delle B.R. (int. G.I. Roma 23/4/82).
In seguito, maturando il dissidio, Moretti aveva convocato una riunione della Direzione di colonna allo scopo di aprire un dibattito approfondito sulle "ragioni politiche del contrasto" e di pervenire ad un chiarimento. Al termine di detta riunione Morucci e Faranda erano stati invitati ad esprimere in un documento scritto il loro definitivo giudizio "su tutto l'operato politico dell'organizzazione" (int. Savasta G.I. Cagliari 27/2/82). Documento che sarebbe stato fatto girare all'interno come contributo al dibattito.
Poco dopo Morucci e Faranda avevano "dato le dimissioni dalla colonna", dicendo di non riconoscerne più l'autorità.
L'esecutivo, stante la gravità delle situazioni, aveva deciso di "risolvere drasticamente la questione" ingiungendo ad entrambi il recarsi a preparare il documento richiesto in una base dell'organizzazione e di approntare una lista di quanto avevano in dotazione.
Da quella base erano, però, riusciti a fuggire con l'aiuto di Pace (int. Faranda ud. 2/3/87) portando con sè armi, strumenti di falsificazione e documenti vari, lasciando la scritta: "no, al fermo di polizia".
Contemporaneamente erano usciti dalle B.R.
Massimo Cianfanelli, Norma Andriani, Carlo Drogi e Arnaldo Maj.
Gli "ex-compagni" allarmati, senza perdere tempo, avevano provveduto a contattare tutti i gruppi estremistici contigui per informarli dell'accaduto e delle ripercussioni negative che sarebbero derivate in caso di aiuti prestati ai transfughi.
Ma le polemiche erano continuate senza placarsi nemmeno dopo l'arresto di Morucci e Faranda.
"Ricordo" - aggiungeva Cianfanelli - "che successivamente all'uscita dalle B.R. mi incontrai con Gallinari in un bar nei pressi di Piazza di Spagna, su richiesta di Savasta e Libera, che erano venuti a trovarmi a casa.
Gallinari era chiaramente interessato al mio reinserimento nell'Organizzazione e soprattutto al recupero delle armi portate via dal Morucci . Il Gallinari mi disse che questi e Faranda erano due banditi e che si erano lasciati manovrare da personaggi ambigui quali Piperno e Pace, anche prima e durante il sequestro Moro. Risposi al Gallinari che non sapevo nulla dei rapporti tra Morucci e Faranda e Piperno e Pace…Cercai d'accordo con Gallinari di combinare un appuntamento tra la Faranda e uno delle B.R.. Dopo qualche giorno rividi Morucci, che io incontravo di frequente, e parlai sia della questione delle armi che di altre questioni legate ai problemi dell'organizzazione dell' "M.C.R." (che inizialmente doveva chiamarsi "M.C.C.", Movimento comunista combattente), sia dei suoi rapporti con Piperno e Pace, anche dopo il suo ingresso nelle B.R..
Il Morucci rispose che li aveva incontrati e che ciò peraltro non significava niente in quanto egli era legato a loro da antica amicizia. In quella stessa occasione o in altre circostanze, Rosati disse che Piperno e Pace si erano detti contrari all'uscita di Morucci e Faranda dalle B.R., poichè costoro dovevano continuare la loro battaglia per un diverso indirizzo politico all'interno dell'organizzazione".
Comunque sia di Piperno che di Pace - precisava il Cianfanelli nell'udienza del 17/2/87 (S. III) - se ne era sempre data all'interno delle B.R. una valutazione negativa, essendo essi considerati, nulla più che "grilli parlanti, cioè gente che amava parlare, amava starsene in finestra a guardare…con velleità di potere sugli altri".
Con l'opuscolo intitolato "Brigate Rosse n°7 Luglio 1979: dal campo dell'Asinara" allegato al volantino di esaltazione dell'omicidio del maresciallo Domenico Taverna, nella vicenda si erano voluti inserire pure "i militanti prigionieri", i quali si erano scagliati contro Valerio Morucci e Adriana Faranda, qualificandoli "neofiti della controgguerriglia psicologica, poveri mentecatti utilizzati dalla controrivoluzione", contro il "barone Piperno" e tutti i "sedicenti autonomi" che "dalla tranquillità delle loro cattedre e delle loro riviste incitavano i proletari detenuti alla lotta più truculenta e oggi, timidi agnellini, affidano allo sciopero della fame le loro rivendicazioni di innocenza".
In realtà, al dire di uno dei "capi storici" delle Brigate rosse, Alberto Franceschini (ud. 17/XII/86), il contrasto di fondo era essenzialmente un "contrasto sui modi diversi di concepire l'organizzazione" in rapporto col "Movimento".
Ed era un contrasto che passava anche all'interno del gruppo del carcere.
Tant'è che tracce se ne rinvenivano nel comunicato n°19 emesso nel corso del "processo di Torino", in cui vi era un richiamo "a un ritorno alla lotta di massa" e ad un suo "rapportarsi alla realtà". Ed in precedenza, in un comunicato emesso a Bologna nel febbraio-marzo 1977, donde era rilevabile una critica allo "spontaneismo", come all' "organizzativismo" inteso come "tendenza a concepire l'organizzazione separata dal movimento".
Ma la pubblicazione su "Lotta Continua", dopo l'arresto del Morucci, nei primi mesi del '79, di un documento a firma di costui e della Faranda in cui si tentava di avvalorare la linea da loro propugnata all'interno delle B.R. con il richiamo a quella originaria dei "Padri storici" (quale consegnata nel menzionato comunicato n°19), aveva fatto temere che il silenzio degli stessi "Padri storici" sarebbe potuto essere interpretato come confermativo dell'assunto dello stesso Morucci. E che, per tal verso, ne fosse potuta derivare una loro strumentalizzazione nel contesto di "diatribe esterne" a loro affatto estranee. Tanto estranee, che, al momento in cui essi avevano stilato quel documento, ignoravano che Morucci e Faranda erano usciti dall'organizzazione a seguito del dissenso maturatosi all'interno.
Ciò non di meno l'organizzazione stessa quel documento aveva "gestito"
in seguito, nell'autunno dello stesso anno, per sostenere la linea ufficiale (v. ud. 17/XII/86).
Affermava Franceschini l'inconsistenza di quanto sostenuto dal Buonavita, che a quel dibattito all'interno del carcere dell'Asinara non aveva neppure partecipato (all'epoca, infatti, era detenuto altrove) e cioè che l'iniziativa di Morucci era stata interpretata come pilotata dal Piperno (e dal P.S.I. che ne era alle spalle) e, in quanto tale, ritenuta pericolosa per l'Organizzazione.
Conforme era la deposizione sul punto di Lauro Azzolini, coautore del documento dell'Asinara. La linea di Morucci e Faranda non era "una linea peregrina", potendo, per contro, "intaccare a certi livelli l'organizzazione". Sarebbe stato, dunque, opportuno che il dibattito fosse continuato all'interno dell'organizzazione senza addivenire ad una rottura traumatica.
Tanto più che le motivazioni di fondo delle posizioni di Morucci e Faranda scaturivano "dal profondo dell'organizzazione" e, dunque, meritavano di essere sviluppate "nell'internità della stessa".
Tali considerazioni avevano determinato i reclusi a compilare quel "volantino", dopo l'uscita su "Lotta continua" del documento morucciano.
(...)
Dopo l'uscita di Morucci e Faranda dalle B.R. taluni dei militanti ortodossi dell'organizzazione avevano chiesto a Pace, di incontrare Piperno, convinti che i due dissidenti fossero in contatto con lui.
Essi ritenevano il Piperno e lo stesso Pace responsabili di quanto accaduto, della spaccatura, cioè, determinatasi nell'organizzazione.
Il Piperno - al dire di Morucci - si era subito recato all'appuntamento e in quell'occasione probabilmente era stato minacciato.
Interessante al riguardo la deposizione resa dal Savasta (int. G.I. Roma 9/2/82): "un altro episodio che dimostra gli stretti legami esistenti tra Piperno e Pace, Morucci e Faranda, è costituito dal fatto che subito dopo la fuga di Morucci e Faranda, i componenti della Direzione di colonna Seghetti, Gallinari, Balzarani, Piccioni ed io stesso ci rivolgemmo al Pace, in occasione di un incontro che avvenne casualmente presso il bar Fassi, per chiarire la questione dei rapporti delle B.R. con Morucci e Faranda e della restituzione delle armi (v. anche atti comm. parl. strage via Fani int. Savasta 6/7 aprile 1982).
In quella occasione si prese un accordo per un successivo incontro che si sarebbe dovuto tenere a casa del Piperno o in una casa messa a disposizione dal Piperno. In effetti questo incontro ci fu realmente. Ad esso parteciparono Moretti, Balzarani, Pace e Piperno. Nel corso della riunione, di fronte alle accuse di Moretti e Balzarani, Piperno e Pace non negarono di avere sempre mantenuto rapporti personali e politici con Morucci e Faranda, dei quali sostenevano di ignorare il rifugio.
Essi affermarono che "Metropoli" avrebbe sempre sostenuto, come aveva fatto fino a quel momento, l'azione delle B.R., rispetto alle quali essi si ponevano in un'azione di sostegno ideologico e politico.
Qualche tempo dopo la rivista "Metropoli" pubblicava un articolo nel quale si parlava dell'attentato a Schittini, sul quale si formulava un giudizio positivo"(v. pagg. precedenti 102 e 103 della presente sentenza).
Interessante, altresì, la deposizione del Buonavita resa al G.I. di Roma il 7/3/83 (v. anche int. Emilia Libera, vol.5, F.9, S.29):
"A proposito del Piperno noi detenuti delle B.R. del carcere di Palmi sapemmo che il comitato esecutivo della nostra organizzazione valutava negativamente l'opera dello stesso Piperno, poichè tramite gli uomini a lui legati, presenti nella nostra organizzazione, egli generava fratture e contraddizioni. Il comitato esecutivo, decise, pertanto, di intervenire molto duramente contro Piperno. Il Gallinari riuscì a mettersi in contatto con lui in un bar di Roma e parlando al nome dell'esecutivo gli intimò di non proseguire nella sua manovra diretta a mettere il suo cappello politico alle B.R. e nel contempo richiese la restituzione delle armi e del materiale che Morucci e Faranda avevano portato con loro sottraendolo all'organizzazione". Ciò - aggiungeva il Buonavita - aveva appreso leggendo una relazione che Seghetti e Gallinari avevano predisposto per la brigata di campo del carcere di Palmi "circa la situazione della colonna romana".
Una conferma di notevole rilevanza dell'esistenza di un rapporto mai definitivamente reciso dal Pace con esponenti delle B.R. proviene dalla stessa voce del Morucci (ud. 9/3/87), il quale dichiarava di avere appreso che, dopo la loro uscita dall'organizzazione, Moretti aveva incaricato Seghetti di cercare Pace, nella speranza che costui potesse stabilire dei contatti tra le B.R. e P.L.. Il Pace, invero, non aveva verosimilmente cessato di avere collegamenti con ex militanti di P.O. confluiti nell'una e nell'altra organizzazione.
Seghetti si era mostrato recalcitrante a contattare il Pace, ma Moretti aveva insistito nella sua richiesta, forse perchè convinto che Pace fosse la persona più idonea, il canale "meno rischioso" a tal fine.
Pur in difetto di un accordo politico con P.L., stanti le differenze di ordine tattico e strategico - spiegava Morucci - identico era l'obiettivo da perseguire: "il capovolgimento dell'ordine sociale" e in vista di tale obiettivo "era necessario accorciare le distanze, realizzando accordi operativi utili a costituire un unico fronte combattente comunista".
Anche per Savasta (int. P.M. Padova 5/2/82) Pace era un "canale obbligato" per stabilire un contatto tra B.R. e P.L., tanto "obbligato" che la decisione di ricorrere a lui era stata adottata in Direzione di colonna (atti Comm. parl. strage via Fani, sedute 6-7 aprile . v. Fasc. int.ri Savasta). Già in passato si era inteso "ampliare il fronte di combattimento" e costituire un'unità di attacco alla D.C. nel contesto della c.d. "campagna di primavera".
"Nell'ultima fase del sequestro Moro" - precisava Sandalo Roberto - " vi furono almeno due riunioni a Milano tra esponenti delle Brigate rosse ed esponenti di P.L.". Secondo quanto riferitogli da Marco Donat Cattin "per le B.R. si presentarono Azzolini e, pare, Franco Bonisoli; per il P.L. parteciparono lo stesso Donat Cattin e Nicola Solimano".
Oltre a discutere in generale, le B.R. "chiesero un aiuto squisitamente militare all'organizzazione P.L. per rompere l'accerchiamento; cioè, si sentivano un po' il fiato sul collo. Portare avanti quell'operazione nella Capitale e avere gli occhi puntati di tutte le forze dell'ordine comportava grossi problemi logistici e di spostamenti. Pertanto, poichè P.L. era abbastanza radicata nel nord-Italia, era stato chiesto che l'organizzazione facesse una serie di operazioni a Milano, a Torino, in altri luoghi, ove era presente, per distogliere l'attenzione dalla Capitale, proprio in supporto militare alla campagna che le B.R. stavano conducendo".
Marco Donat Cattin e Nicola Solimano però, "rifiutarono la proposta, affermando che la loro organizzazione non condivideva l'attacco alla D.C. e di conseguenza il sequestro di Aldo Moro". Ed espressero nettamente una valutazione negativa dell'operazione, non giudicando opportuno "alzare il livello di scontro" contro la D.C.