4. I tentativi golpisti
09. Organismi di sicurezza internazionale
Documento aggiornato al 30/11/2005
Ma il fatto più grave sul quale la magistratura di Roma omise di indagare è comunque l'esistenza stessa di un'organizzazione che, per un certo verso, era istituzionale. Quest’organismo, aveva accertato il giudice Tamburino, coordinava l'attività eversiva della Rosa dei Venti, ma ne era strutturalmente al di sopra. Mentre quest'ultima era un'organizzazione eversiva in senso stretto, "l'organismo di sicurezza", come lo chiamava Spiazzi, era qualcosa di molto più istituzionale – anche se giuridicamente inesistente – dai fini non necessariamente eversivi. Nel mandato di cattura contro Vito Miceli, il giudice Tamburino lo definiva così: "Una organizzazione che, definita ‘di sicurezza’, di fatto si pone come ostacolo rispetto a determinate modificazioni della politica interna e internazionale, ostacolo che limitando la sovranità popolare e realizzandosi con modalità di azione anormali, illegali, segrete e violente, conferisce carattere eversivo all'organizzazione stessa".
L'organismo, con carattere di sopranazionalità, coincideva in gran parte – secondo le affermazioni di Spiazzi – con la struttura dei vertici degli uffici "I" delle varie forze armate, e agiva in assoluta segretezza e in collegamento con le forze analoghe degli altri paesi della Nato. Questo è l'aspetto più delicato della vicenda, quello che probabilmente mise in moto il precipitoso meccanismo di avocazione delle indagini a Roma.
Quali gli scopi dell'organizzazione? Prima della svolta epocale del 9 novembre 1989, giorno della caduta del muro di Berlino, lo scopo prioritario, se non esclusivo, era quello di impedire una conquista delle leve effettive del potere nelle nazioni appartenenti alla Nato da parte dei comunisti o, più in generale, delle sinistre. I mezzi da impiegare erano i più vari e potevano comprendere anche, ma non necessariamente, lo spargimento di sangue. In questo senso l'organismo non poteva essere considerato un'organizzazione eversiva in senso stretto, tendendo più a conservare lo status quo politico che a sovvertirlo.
La pressoché totale scomparsa del nemico storico ha probabilmente generato variazioni anche rilevanti negli scopi dell'organizzazione, se non nell'esistenza stessa dell'organismo. La scoperta, poi, nel 1990, dell'esistenza della struttura Gladio, ha posto un problema di possibile coincidenza, e certamente di contiguità, tra i due organismi. Sul piano ufficiale – come vedremo più avanti – è stato ripetutamente affermato che la Gladio non avrebbe svolto attività illegali, anche se vi sono documenti che evidenziano ripetute richieste da parte americana, almeno nel 1966 e nel 1972, di orientare l'attività della struttura "ad un programma che possa dar frutti sin dal tempo di pace e che offra attuali possibilità di valorizzazione quale quella che potrebbe ispirarsi alla dottrina della ‘insorgenza e controinsorgenza’".
Le testimonianze di Vinciguerra, Cavallaro e Spiazzi delineano invece una struttura che sarebbe intervenuta decisamente nella realtà politica italiana, anche promuovendo gravi atti eversivi.
I due organismi avevano comunque in comune la psicologia di base di chi vi aderiva. I suoi adepti si sentivano prioritariamente membri di una struttura internazionale in cui un blocco di nazioni – il mondo occidentale o, se si preferisce, il mondo capitalistico – era in guerra, sia pure sotterranea, con il mondo comunista. In questa ottica, gli aderenti alle strutture delineate da Vinciguerra e Cavallaro (ma, come abbiamo visto, anche parte degli aderenti alla Gladio) ritenevano che qualsiasi azione, anche violenta, fosse da considerare legittima. Non si poneva nessun problema di rispetto del giuramento di fedeltà alla repubblica e alla sua Costituzione, perché la motivazione dello "stato di necessità" era assolutamente prioritaria. Anche violazioni del codice penale trovavano piena giustificazione.
È una logica da guerra fredda, da anni cinquanta, ma era una logica che ha guidato per decenni le azioni degli aderenti a queste strutture occulte. I membri delle organizzazioni erano insomma una strana commistione di militari militanti e di militanti non giuridicamente militari che erano anch'essi così addentro all'ambiente delle forze armate da potersi facilmente mimetizzare in esso.
Quando al Sid giunse notizia che Spiazzi stava rivelando al giudice Tamburino l'esistenza di questo organismo sovranazionale, il confronto con il tenente colonnello, prima evitato, venne alla fine affrontato. Miceli delegò per questo incarico il generale Alemanno, capo dell'Ufficio sicurezza del Sid: una scelta che aveva il valore di una ammissione. Il confronto fu verbalizzato e registrato. Le parole di Alemanno furono poche ma chiarissime: "Devi dire che tutto questo lo facevate voi privatamente. Non devi coinvolgere altri". Amos Spiazzi da quel giorno tacque.
Il giudice Tamburino continuò le indagini e il 24 ottobre spedì al capo del Sid, Vito Miceli, un avviso di reato per "cospirazione politica". Ormai era una lotta contro il tempo: i settimanali di destra preannunciavano apertamente l'unificazione a Roma di tutte le istruttorie sulle trame eversive ed apparivano singolarmente informati sulle mosse dei magistrati di Torino e Padova. Il 31 ottobre Tamburino decise di rompere gli indugi e spiccò mandato di cattura contro Miceli.
L'arresto di Miceli fece sorgere molte speranze: dopo anni di torbide manovre affossatrici, mentre l'eversione era ancora dietro l'angolo, sembrò che il gesto coraggioso di un giudice di provincia potesse chiudere un'epoca ed aprirne un'altra, quella della resa dei conti. Probabilmente erano state sottovalutate le capacità del sistema di neutralizzare l'azione di un magistrato, anche se circondato dalla solidarietà dell'opinione pubblica.
Se a fine ottobre 1974 i giudici D'Ambrosio a Milano, Tamburino a Padova e Violante a Torino potevano dirsi proiettati verso un definitivo smantellamento dell'organizzazione eversiva, due mesi dopo lo scenario era totalmente cambiato. Il 30 dicembre, la paventata pronuncia della cassazione sottrasse l'istruttoria ai giudici padovani e la affidò alla procura di Roma. Qui fu unificata con quella sul golpe Borghese e, come era nelle previsioni, il quadro cospirativo che Tamburino stava scoprendo fu disintegrato in mille episodi tra i quali non si volle vedere la connessione. Andava così perso, per una precisa scelta, l'aspetto più grave della vicenda, tanto più che l'istruttoria sul "Sid parallelo", affidata ad altro giudice, fu rapidamente insabbiata.
Dell'indagine di Padova, rimase una realtà angosciosa appena intravista, insieme a due nomi, "Supersid" e "Sid parallelo", inventati dalla stampa.
Resta il problema insoluto di un'organizzazione supersegreta che ha agito alle spalle di tutti e di ciascuno. Un'organizzazione la cui esistenza non è mai stata negata nemmeno da Miceli. Questi, trincerandosi dietro il segreto politico-militare, ha spesso affermato che, se sciolto da esso, avrebbe rivelato quanto richiesto.
L'autorizzazione, ovviamente, non giunse. Vito Miceli trascorse alcuni mesi in carcere finché una magistratura compiacente lo pose in libertà provvisoria. Nello scontro tra lo Stato di diritto e il potere delle strutture occulte, egli accettò di buon grado di pagare una parte delle sue responsabilità, ben sapendo che, mantenendo il silenzio, la liberazione non sarebbe tardata.
Molti anni dopo, nel novembre 1983, Amos Spiazzi, nel frattempo promosso colonnello, fornì interessanti particolari alla commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2.
Interrogato in seduta pubblica, egli esordì affermando di autosciogliersi dal segreto militare, motivando questa decisione con suoi "seri dubbi" che alcuni piani, alcune direttive ricevute nel 1973 fossero incostituzionali. Poi egli spiegò senza reticenze come operava la struttura occulta di sicurezza delle forze armate. Essa si articolava su due piani: da un lato mediante la selezione, all'interno dei reparti, di uomini politicamente affidabili, che potessero costituire, all'occorrenza, nuclei "sicuri": "Ogni sera, noi avevamo il compito di aggiornare una lista di personale che, attraverso i modelli D, cioè quelli che arrivano dai carabinieri, desse certezza assoluta di non essere praticamente aderente alle opposizioni. […] Con questo personale non si poteva certamente mettere in piedi un reparto organico, ma un reparto organico di minore unità". Questi nuclei erano destinati a rimanere sulla carta fino al giorno in cui fosse scattato un determinato piano di emergenza, o una sua esercitazione.
Il secondo organismo, segretissimo, sarebbe entrato in azione qualora fosse accaduto qualcosa di molto grave, con scontri di opposte fazioni politiche, o in caso di elezioni che avessero dato un risultato di parità contestata; in questo caso, l'esercito si sarebbe dovuto predisporre "per non restare alla finestra, ma per intervenire, per sedare la situazione, bloccarla e poi eventualmente decidere in merito".
Questo piano, secondo Spiazzi, sarebbe stato strettamente connesso con il reclutamento, attraverso l'Arma dei carabinieri, gli ufficiali "I" e soprattutto attraverso i centri di mobilitazione, "di personale che non fa parte delle Forze armate, ne ha fatto parte ma non ne è parte attiva (di gente congedata, di ufficiali o sottufficiali in pensione o anche, semplicemente, di gente che ha ricevuto un addestramento di tipo particolare)".
L'organismo, con carattere di sopranazionalità, coincideva in gran parte – secondo le affermazioni di Spiazzi – con la struttura dei vertici degli uffici "I" delle varie forze armate, e agiva in assoluta segretezza e in collegamento con le forze analoghe degli altri paesi della Nato. Questo è l'aspetto più delicato della vicenda, quello che probabilmente mise in moto il precipitoso meccanismo di avocazione delle indagini a Roma.
Quali gli scopi dell'organizzazione? Prima della svolta epocale del 9 novembre 1989, giorno della caduta del muro di Berlino, lo scopo prioritario, se non esclusivo, era quello di impedire una conquista delle leve effettive del potere nelle nazioni appartenenti alla Nato da parte dei comunisti o, più in generale, delle sinistre. I mezzi da impiegare erano i più vari e potevano comprendere anche, ma non necessariamente, lo spargimento di sangue. In questo senso l'organismo non poteva essere considerato un'organizzazione eversiva in senso stretto, tendendo più a conservare lo status quo politico che a sovvertirlo.
La pressoché totale scomparsa del nemico storico ha probabilmente generato variazioni anche rilevanti negli scopi dell'organizzazione, se non nell'esistenza stessa dell'organismo. La scoperta, poi, nel 1990, dell'esistenza della struttura Gladio, ha posto un problema di possibile coincidenza, e certamente di contiguità, tra i due organismi. Sul piano ufficiale – come vedremo più avanti – è stato ripetutamente affermato che la Gladio non avrebbe svolto attività illegali, anche se vi sono documenti che evidenziano ripetute richieste da parte americana, almeno nel 1966 e nel 1972, di orientare l'attività della struttura "ad un programma che possa dar frutti sin dal tempo di pace e che offra attuali possibilità di valorizzazione quale quella che potrebbe ispirarsi alla dottrina della ‘insorgenza e controinsorgenza’".
Le testimonianze di Vinciguerra, Cavallaro e Spiazzi delineano invece una struttura che sarebbe intervenuta decisamente nella realtà politica italiana, anche promuovendo gravi atti eversivi.
I due organismi avevano comunque in comune la psicologia di base di chi vi aderiva. I suoi adepti si sentivano prioritariamente membri di una struttura internazionale in cui un blocco di nazioni – il mondo occidentale o, se si preferisce, il mondo capitalistico – era in guerra, sia pure sotterranea, con il mondo comunista. In questa ottica, gli aderenti alle strutture delineate da Vinciguerra e Cavallaro (ma, come abbiamo visto, anche parte degli aderenti alla Gladio) ritenevano che qualsiasi azione, anche violenta, fosse da considerare legittima. Non si poneva nessun problema di rispetto del giuramento di fedeltà alla repubblica e alla sua Costituzione, perché la motivazione dello "stato di necessità" era assolutamente prioritaria. Anche violazioni del codice penale trovavano piena giustificazione.
È una logica da guerra fredda, da anni cinquanta, ma era una logica che ha guidato per decenni le azioni degli aderenti a queste strutture occulte. I membri delle organizzazioni erano insomma una strana commistione di militari militanti e di militanti non giuridicamente militari che erano anch'essi così addentro all'ambiente delle forze armate da potersi facilmente mimetizzare in esso.
Quando al Sid giunse notizia che Spiazzi stava rivelando al giudice Tamburino l'esistenza di questo organismo sovranazionale, il confronto con il tenente colonnello, prima evitato, venne alla fine affrontato. Miceli delegò per questo incarico il generale Alemanno, capo dell'Ufficio sicurezza del Sid: una scelta che aveva il valore di una ammissione. Il confronto fu verbalizzato e registrato. Le parole di Alemanno furono poche ma chiarissime: "Devi dire che tutto questo lo facevate voi privatamente. Non devi coinvolgere altri". Amos Spiazzi da quel giorno tacque.
Il giudice Tamburino continuò le indagini e il 24 ottobre spedì al capo del Sid, Vito Miceli, un avviso di reato per "cospirazione politica". Ormai era una lotta contro il tempo: i settimanali di destra preannunciavano apertamente l'unificazione a Roma di tutte le istruttorie sulle trame eversive ed apparivano singolarmente informati sulle mosse dei magistrati di Torino e Padova. Il 31 ottobre Tamburino decise di rompere gli indugi e spiccò mandato di cattura contro Miceli.
L'arresto di Miceli fece sorgere molte speranze: dopo anni di torbide manovre affossatrici, mentre l'eversione era ancora dietro l'angolo, sembrò che il gesto coraggioso di un giudice di provincia potesse chiudere un'epoca ed aprirne un'altra, quella della resa dei conti. Probabilmente erano state sottovalutate le capacità del sistema di neutralizzare l'azione di un magistrato, anche se circondato dalla solidarietà dell'opinione pubblica.
Se a fine ottobre 1974 i giudici D'Ambrosio a Milano, Tamburino a Padova e Violante a Torino potevano dirsi proiettati verso un definitivo smantellamento dell'organizzazione eversiva, due mesi dopo lo scenario era totalmente cambiato. Il 30 dicembre, la paventata pronuncia della cassazione sottrasse l'istruttoria ai giudici padovani e la affidò alla procura di Roma. Qui fu unificata con quella sul golpe Borghese e, come era nelle previsioni, il quadro cospirativo che Tamburino stava scoprendo fu disintegrato in mille episodi tra i quali non si volle vedere la connessione. Andava così perso, per una precisa scelta, l'aspetto più grave della vicenda, tanto più che l'istruttoria sul "Sid parallelo", affidata ad altro giudice, fu rapidamente insabbiata.
Dell'indagine di Padova, rimase una realtà angosciosa appena intravista, insieme a due nomi, "Supersid" e "Sid parallelo", inventati dalla stampa.
Resta il problema insoluto di un'organizzazione supersegreta che ha agito alle spalle di tutti e di ciascuno. Un'organizzazione la cui esistenza non è mai stata negata nemmeno da Miceli. Questi, trincerandosi dietro il segreto politico-militare, ha spesso affermato che, se sciolto da esso, avrebbe rivelato quanto richiesto.
L'autorizzazione, ovviamente, non giunse. Vito Miceli trascorse alcuni mesi in carcere finché una magistratura compiacente lo pose in libertà provvisoria. Nello scontro tra lo Stato di diritto e il potere delle strutture occulte, egli accettò di buon grado di pagare una parte delle sue responsabilità, ben sapendo che, mantenendo il silenzio, la liberazione non sarebbe tardata.
Molti anni dopo, nel novembre 1983, Amos Spiazzi, nel frattempo promosso colonnello, fornì interessanti particolari alla commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2.
Interrogato in seduta pubblica, egli esordì affermando di autosciogliersi dal segreto militare, motivando questa decisione con suoi "seri dubbi" che alcuni piani, alcune direttive ricevute nel 1973 fossero incostituzionali. Poi egli spiegò senza reticenze come operava la struttura occulta di sicurezza delle forze armate. Essa si articolava su due piani: da un lato mediante la selezione, all'interno dei reparti, di uomini politicamente affidabili, che potessero costituire, all'occorrenza, nuclei "sicuri": "Ogni sera, noi avevamo il compito di aggiornare una lista di personale che, attraverso i modelli D, cioè quelli che arrivano dai carabinieri, desse certezza assoluta di non essere praticamente aderente alle opposizioni. […] Con questo personale non si poteva certamente mettere in piedi un reparto organico, ma un reparto organico di minore unità". Questi nuclei erano destinati a rimanere sulla carta fino al giorno in cui fosse scattato un determinato piano di emergenza, o una sua esercitazione.
Il secondo organismo, segretissimo, sarebbe entrato in azione qualora fosse accaduto qualcosa di molto grave, con scontri di opposte fazioni politiche, o in caso di elezioni che avessero dato un risultato di parità contestata; in questo caso, l'esercito si sarebbe dovuto predisporre "per non restare alla finestra, ma per intervenire, per sedare la situazione, bloccarla e poi eventualmente decidere in merito".
Questo piano, secondo Spiazzi, sarebbe stato strettamente connesso con il reclutamento, attraverso l'Arma dei carabinieri, gli ufficiali "I" e soprattutto attraverso i centri di mobilitazione, "di personale che non fa parte delle Forze armate, ne ha fatto parte ma non ne è parte attiva (di gente congedata, di ufficiali o sottufficiali in pensione o anche, semplicemente, di gente che ha ricevuto un addestramento di tipo particolare)".