2. Chi è Giulio Andreotti
Documento aggiornato al 24/02/2006
Nato il 14 Gennaio 1919 a Roma, ha decisamente dominato la scena politica italiana degli ultimi cinquant'anni: sette volte presidente del Consiglio, otto volte ministro della Difesa, cinque volte ministro degli Esteri, due volte delle Finanze, del Bilancio e dell’Industria, una volta ministro del Tesoro e una ministro dell’Interno, sempre in Parlamento dal 1945 ad oggi, ma mai segretario della Dc. La storia politica della Repubblica italiana è la storia di Giulio Andreotti.
Laureato in giurisprudenza, inizia la sua carriera politica come delegato nazionale dei gruppi democristiani; nel ‘45 partecipa all’Assemblea Costituente. L’attività di governo incomincia a 28 anni come sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel quarto governo De Gasperi. Dopo numerosi incarichi ministeriali diventa per la prima volta presidente del Consiglio nel 1972 (il governo più breve della repubblica solo 9 giorni di durata). L’incarico gli viene affidato di nuovo nel ’76, nella stagione del compromesso storico tra Dc e Pci. I comunisti si astengono e il monocolore democristiano può nascere. Ci sono da affrontare due drammatiche emergenze: la crisi economica e il terrorismo che insanguina l’Italia. L’accordo tra Enrico Berlinguer e Aldo Moro diventa sempre più stretto. Quest’ultimo è presidente della Dc ed è anche l’uomo che negli anni Sessanta aveva aperto le stanze del potere ai socialisti e adesso sta per tentare l’operazione con il Pci. L’occasione è il governo di solidarietà nazionale che nel ’78 si accinge a formare sempre Andreotti e che prevede non più l’astensione, ma il voto favorevole anche dei comunisti (che però non avrebbero incarichi di governo).
Aldo Moro viene rapito dalla Brigate rosse il 16 marzo, il giorno della nascita del nuovo esecutivo. La notizia dell’agguato e dell’uccisione degli uomini della scorta piomba in Parlamento proprio al momento del voto di fiducia al governo Andreotti. Sono momenti di grande tensione nel Paese, sull’orlo di una crisi istituzionale senza precedenti. Il governo non cede al ricatto brigatista – chiedono la liberazione di alcuni terroristi in carcere – e Andreotti sposa la linea della fermezza contro le Br, così il Pci e i repubblicani. Moro viene trovato morto il 9 maggio del ’78 in una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, nel centro di Roma, simbolicamente a metà strada tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù, le sedi rispettivamente di Pci e Dc.
La morte di Moro segnerà la vita politica italiana degli anni successivi. Francesco Cossiga, ministro dell’Interno, si dimette dall’incarico. I veleni legati al memoriale scritto dal presidente della Dc durante il suo sequestro, affioreranno in mezzo a storie di servizi segreti, ricatti e tragiche vicende che coinvolgeranno anche Andreotti.
Il governo di solidarietà nazionale dura poco, Berlinguer torna all’opposizione e dichiara finita la stagione del compromesso storico. Diventa presidente del Consiglio Arnaldo Forlani e Andreotti non partecipa all’esecutivo; la sua temporanea uscita di scena dura fino al governo Craxi (1983), quando assume la carica di ministro degli Esteri. Si tratta del primo esecutivo a guida socialista (in precedenza il primo non Dc alla guida del Paese era stato il repubblicano Giovanni Spadolini). A capo della Farnesina viene confermato anche nel secondo governo Craxi e negli esecutivi di Fanfani, Goria e De Mita.
Esperto degli equilibri di geopolitica, fa della distensione l’asse portante della politica estera italiana, insieme all’appoggio alla strategia atlantica. Ha un ruolo incisivo nelle tensioni medio-orientali, lavora alla composizione del conflitto Iraq-Iran, sostiene i Paesi dell’Est nel loro processo di democratizzazione e l’opera coraggiosa di Mikhail Gorbaciov in Urss, dà il sì italiano all’istallazione degli euromissili della Nato. Gli anni Ottanta si chiudono con il patto di ferro con Craxi e Forlani (Caf, dalle iniziali dei tre): Andreotti sale a Palazzo Chigi e Forlani alla segreteria democristiana. Nel ’91 Andreotti forma un nuovo esecutivo, l’ultimo perché la Dc viene travolta dall’inchiesta di Tangentopoli.
Andreotti non entra nell’indagini, ma a metà degli anni Novanta viene processato da due procure: quella di Perugia e quella di Palermo. I magistrati umbri lo accusano di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, il direttore dell’Op, ucciso il 20 marzo del ’79 che avrebbe ricattato Andreotti, tra l’altro, proprio per le verità del memoriale Moro. L’11 aprile 1996 comincia il processo: dopo 169 udienze, il 24 settembre 1999 viene pronunciato il verdetto che lo assolve “per non aver commesso il fatto”.
Ma un’altra accusa scuote l’imperturbabile Andreotti: quella di essere colluso con la mafia. La notizia fa il giro del mondo e, se provata, darebbe un duro colpo all’immagine dell’Italia: per cinquant’anni la Repubblica sarebbe stata guidata da un politico mafioso. Il 23 marzo del '93 l'ufficio di Giancarlo Caselli inoltra al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i magistrati Andreotti avrebbe favorito la mafia nel controllo degli appalti in Sicilia attraverso la mediazione di Salvo Lima. A riprova di ciò la testimonianza di alcuni pentiti fra cui Balduccio Di Maggio, che racconta agli inquirenti di aver visto Andreotti baciare Totò Rina (nel gergo mafioso il gesto significa che fra i due c’è un rapporto di conoscenza e stima reciproca). Il 13 maggio del ‘93, il Senato concede l'autorizzazione. Il dibattimento comincia il 26 settembre del '95, i Pm chiedono 15 anni di reclusione. Il processo di primo grado si chiude il 23 ottobre 1999: Giulio Andreotti viene assolto perché "il fatto non sussiste”. Ma la Procura di Palermo decide, comunque, di ricorrere in appello.
Risolte le questioni giudiziarie, a oltre ottant’anni, il “Divo Giulio” ritorna in politica. Lascia il Ppi e fa il suo rientro sulla scena con un nuovo partito fondato insieme all’ex leader della Csil Sergio D’Antoni e all’ex ministro dell’Università Ortensio Zecchino. Alle elezioni politiche 2001 la nuova formazione si presenta svincolata dai due poli e ottiene solo il 2,4 per cento dei voti non superando la soglia di sbarramento.
Andreotti è autore di molti libri fra cui: De Gasperi visto da vicino, Gli Usa visti da vicino, Onorevole stia zitto, Il potere logora, ma è meglio non perderlo.
Di lui Craxi ha detto: “E’ una volpe. Ma prima o poi tutte le volpi finiscono in pellicceria”.
Laureato in giurisprudenza, inizia la sua carriera politica come delegato nazionale dei gruppi democristiani; nel ‘45 partecipa all’Assemblea Costituente. L’attività di governo incomincia a 28 anni come sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel quarto governo De Gasperi. Dopo numerosi incarichi ministeriali diventa per la prima volta presidente del Consiglio nel 1972 (il governo più breve della repubblica solo 9 giorni di durata). L’incarico gli viene affidato di nuovo nel ’76, nella stagione del compromesso storico tra Dc e Pci. I comunisti si astengono e il monocolore democristiano può nascere. Ci sono da affrontare due drammatiche emergenze: la crisi economica e il terrorismo che insanguina l’Italia. L’accordo tra Enrico Berlinguer e Aldo Moro diventa sempre più stretto. Quest’ultimo è presidente della Dc ed è anche l’uomo che negli anni Sessanta aveva aperto le stanze del potere ai socialisti e adesso sta per tentare l’operazione con il Pci. L’occasione è il governo di solidarietà nazionale che nel ’78 si accinge a formare sempre Andreotti e che prevede non più l’astensione, ma il voto favorevole anche dei comunisti (che però non avrebbero incarichi di governo).
Aldo Moro viene rapito dalla Brigate rosse il 16 marzo, il giorno della nascita del nuovo esecutivo. La notizia dell’agguato e dell’uccisione degli uomini della scorta piomba in Parlamento proprio al momento del voto di fiducia al governo Andreotti. Sono momenti di grande tensione nel Paese, sull’orlo di una crisi istituzionale senza precedenti. Il governo non cede al ricatto brigatista – chiedono la liberazione di alcuni terroristi in carcere – e Andreotti sposa la linea della fermezza contro le Br, così il Pci e i repubblicani. Moro viene trovato morto il 9 maggio del ’78 in una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, nel centro di Roma, simbolicamente a metà strada tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù, le sedi rispettivamente di Pci e Dc.
La morte di Moro segnerà la vita politica italiana degli anni successivi. Francesco Cossiga, ministro dell’Interno, si dimette dall’incarico. I veleni legati al memoriale scritto dal presidente della Dc durante il suo sequestro, affioreranno in mezzo a storie di servizi segreti, ricatti e tragiche vicende che coinvolgeranno anche Andreotti.
Il governo di solidarietà nazionale dura poco, Berlinguer torna all’opposizione e dichiara finita la stagione del compromesso storico. Diventa presidente del Consiglio Arnaldo Forlani e Andreotti non partecipa all’esecutivo; la sua temporanea uscita di scena dura fino al governo Craxi (1983), quando assume la carica di ministro degli Esteri. Si tratta del primo esecutivo a guida socialista (in precedenza il primo non Dc alla guida del Paese era stato il repubblicano Giovanni Spadolini). A capo della Farnesina viene confermato anche nel secondo governo Craxi e negli esecutivi di Fanfani, Goria e De Mita.
Esperto degli equilibri di geopolitica, fa della distensione l’asse portante della politica estera italiana, insieme all’appoggio alla strategia atlantica. Ha un ruolo incisivo nelle tensioni medio-orientali, lavora alla composizione del conflitto Iraq-Iran, sostiene i Paesi dell’Est nel loro processo di democratizzazione e l’opera coraggiosa di Mikhail Gorbaciov in Urss, dà il sì italiano all’istallazione degli euromissili della Nato. Gli anni Ottanta si chiudono con il patto di ferro con Craxi e Forlani (Caf, dalle iniziali dei tre): Andreotti sale a Palazzo Chigi e Forlani alla segreteria democristiana. Nel ’91 Andreotti forma un nuovo esecutivo, l’ultimo perché la Dc viene travolta dall’inchiesta di Tangentopoli.
Andreotti non entra nell’indagini, ma a metà degli anni Novanta viene processato da due procure: quella di Perugia e quella di Palermo. I magistrati umbri lo accusano di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, il direttore dell’Op, ucciso il 20 marzo del ’79 che avrebbe ricattato Andreotti, tra l’altro, proprio per le verità del memoriale Moro. L’11 aprile 1996 comincia il processo: dopo 169 udienze, il 24 settembre 1999 viene pronunciato il verdetto che lo assolve “per non aver commesso il fatto”.
Ma un’altra accusa scuote l’imperturbabile Andreotti: quella di essere colluso con la mafia. La notizia fa il giro del mondo e, se provata, darebbe un duro colpo all’immagine dell’Italia: per cinquant’anni la Repubblica sarebbe stata guidata da un politico mafioso. Il 23 marzo del '93 l'ufficio di Giancarlo Caselli inoltra al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i magistrati Andreotti avrebbe favorito la mafia nel controllo degli appalti in Sicilia attraverso la mediazione di Salvo Lima. A riprova di ciò la testimonianza di alcuni pentiti fra cui Balduccio Di Maggio, che racconta agli inquirenti di aver visto Andreotti baciare Totò Rina (nel gergo mafioso il gesto significa che fra i due c’è un rapporto di conoscenza e stima reciproca). Il 13 maggio del ‘93, il Senato concede l'autorizzazione. Il dibattimento comincia il 26 settembre del '95, i Pm chiedono 15 anni di reclusione. Il processo di primo grado si chiude il 23 ottobre 1999: Giulio Andreotti viene assolto perché "il fatto non sussiste”. Ma la Procura di Palermo decide, comunque, di ricorrere in appello.
Risolte le questioni giudiziarie, a oltre ottant’anni, il “Divo Giulio” ritorna in politica. Lascia il Ppi e fa il suo rientro sulla scena con un nuovo partito fondato insieme all’ex leader della Csil Sergio D’Antoni e all’ex ministro dell’Università Ortensio Zecchino. Alle elezioni politiche 2001 la nuova formazione si presenta svincolata dai due poli e ottiene solo il 2,4 per cento dei voti non superando la soglia di sbarramento.
Andreotti è autore di molti libri fra cui: De Gasperi visto da vicino, Gli Usa visti da vicino, Onorevole stia zitto, Il potere logora, ma è meglio non perderlo.
Di lui Craxi ha detto: “E’ una volpe. Ma prima o poi tutte le volpi finiscono in pellicceria”.