I silenzi degli innocenti
Edito da Rizzoli, 2006
252 pagine, € 9,50
ISBN 8817013439
di Giovanni Fasanella, Antonella Grippo
Libro presente nelle categorie:
Quarta di copertina
Quasi 600 morti e 5000 feriti. E in più il calvario dei loro familiari. È il costo umano di una guerra dichiarata non solo contro lo Stato. Questo libro da voce a chi non l'ha mai avuta. Anzi, a coloro cui è stata, in mille modi, negata. Solo i carnefici sono stati chiamati a testimoniare su quei terribili anni. L'Italia, allora, rischia di essere l'unico paese al mondo dove paradossalmente la storia la si lascia scrivere dagli sconfitti, dagli ex terroristi. Avvicinando le vittime (scampati o sopravvissuti a stragi e ad attentati) e i loro familiari, mostrando loro interesse e facendoli parlare, si ascoltano racconti di delusioni, di solitudine e di disinteresse da parte delle istituzioni.
Quasi 600 morti e 5000 feriti. E in più il calvario dei loro familiari. È il costo umano di una guerra dichiarata non solo contro lo Stato. Questo libro da voce a chi non l'ha mai avuta. Anzi, a coloro cui è stata, in mille modi, negata. Solo i carnefici sono stati chiamati a testimoniare su quei terribili anni. L'Italia, allora, rischia di essere l'unico paese al mondo dove paradossalmente la storia la si lascia scrivere dagli sconfitti, dagli ex terroristi. Avvicinando le vittime (scampati o sopravvissuti a stragi e ad attentati) e i loro familiari, mostrando loro interesse e facendoli parlare, si ascoltano racconti di delusioni, di solitudine e di disinteresse da parte delle istituzioni.
Recensione
QUALCUNO TOCCHI ABELE
Ogni tanto ricompaiono in televisione, come Ulisse di ritorno a Itaca. Ma quanto sono brutti questi reduci di piombo, questi soprammobili della lotta armata ormai sformati, ingialliti ma sempre sgradevoli, sempre viscidi nel loro argomentare contorto, in quel delirare di guerre che solo loro avevano intrapreso eliminando a proprio arbitrio gente inerme, servitori dello Stato, studiosi, riformisti. Non uomini ma “simboli”. Oggi se la cavano con agghiaccianti bilanci utilitaristici, “non conveniva fare guerra allo Stato perchè l'abbiamo persa”. O, come la Susanna Ronconi delle BR: “La lotta armata come pratica totalizzante non ha più senso. Prendiamo atto che esistono gli organismi sociali: partiti, sindacati, governo. Occorre continuare ad essere oppositori e critici ma in termini di confronto e di dialettica”. E parla di istituzioni messe nel mirino dei terroristi come lei per 20 anni. Mai sentita una parola di ripensamento puro, non vanificato dai distinguo deliranti sulle vecchie imprese, su quei delitti assurdi. Non è proprio che la Ronconi abbia “preso atto”, è che è entrata nello staff del ministro rifondarolo Ferrero, che una più esperta di lei sulle tossicodipendenze proprio non riusciva a trovarla. Forse più che di droga Susanna è pratica di fatalismo: “Il passato non può tornare, quello che è stato è stato”, che alle orecchie di una vittima potrebbe suonare come il sarcasmo più crudele. Sempre meglio della Anna Laura Braghetti la carceriera di Moro, che della sua militanza brigatista mi parlò come di “una esperienza irripetibile”, come dopo un trionfo. Aggiungendo che, comunque, si piaceva ancora di più adesso.
Questi ex giustizieri considerano un diritto assoluto e un dovere supremo dello Stato il loro recupero, non si capisce bene perchè. Tra l'altro si contraddicono: non hanno mai davvero sbagliato, ma vogliono essere recuperati. Tutti hanno un grande futuro dietro le spalle: esperti, opinionisti, critici, artisti, letterati, nelle case editrici, nelle redazioni, nei posti chiave delle società, cerniere tra la politica, la finanza e l'industria, ripuliti e rilanciati da organizzazioni integraliste come CL, da preti-manager che hanno confuso la carità col cinismo vagamente delirante, vedi don Ciotti il cui “Gruppo Abele” sforna terroristi redenti, anche a coppie, e ne pretende il reinserimento in società ai posti di vertice. Altrimenti queste mine vaganti contro “il sistema” finiscono per rotolare, non si sa come, in società dirette da ex fiduciari dei Servizi, nel cuore di quello Stato che volevano far scoppiare, che come conquista democratica pare un po' mortificante, un po' sottotono. Per chi si accontenta, diciamo. Il capo storico delle BR Curcio ha querelato il figlio di una vittima, che si era azzardato a criticarlo. Moretti, il successore, la Sfinge sanguinaria, dall'alto dei suoi numerosi ergastoli cura per la ciellina “Lombardia Informatica”, diretta da un ex funzionario del Sim, nientemeno che l'informatizzazione del carcere di Opera, una dimensione per lui sempre più remota.
Si potrebbe magari considerare una vittoria dello Stato, viceversa, una condanna scontata seriamente o anche una vita libera ma appartata, non colma di memorie, interviste, semi di saggezza profusi oggi come ieri a spese di quella collettività pochi anni fa colpita a morte. Come invano protestava il figlio del sindaco fiorentino Lando Conti, un ragazzone ribollente d'indignazione al punto da indurre tenerezza, non fosse che anche lui si sceglie i compagni di strada sbagliati, quelli che lo usano, lo strumentalizzano.
È storia vecchia, i parenti delle vittime non fanno audience e per loro non c'è sostegno, nemmeno morale. Tantomeno per i loro aguzzini, che mai si sognano di cercarli, di guardarli in faccia. Morucci ancora pochi mesi fa irrideva in televisione la madre di un morto ammazzato di destra. Paiono contriti solo quando debbono lanciare l'ultimo libro. Forse non sarebbe male un'associazione “Qualcuno tocchi Abele”, perchè le vittime e chi sopravvive loro sembrano appestati per tutti, Stato e antistato, cronaca e memoria. Giusto qualche moglie o mamma spedite in Parlamento, così la smettono con le loro pretese di verità e giustizia. Si ribella, ed è almeno un primo passo, un libro drammatico, devastante da leggere, da poco uscito, “I silenzi degli innocenti”, a cura Giovanni Fasanella e Antonella Grippo per Rizzoli/Bur. Niente altro che le testimonianze, mai interrotte, scritte in prima persona, di una ventina di vittime di terrorismo e stragi o di loro parenti. Gli autori non compaiono mai, la parola è tutta per i martiri. Martiri davvero. Storie incredibili, di vorticose disumanità, tragedie di origini diverse che convergono verso stazioni comuni: le tragiche coincidenze, gli scherzi atroci del destino che non mancano mai e tormentano in eterno chi si salvò a scapito di qualcun altro. E lo sgomento dopo il dolore abissale, constatando d'essere diventati zavorre per quello Stato che non li ha protetti, non ha saputo o voluto difenderli. Che forse preferiva morti anche loro. La frustrazione che corrode, che uccide nell'assistere alla resistibile ascesa dei carnefici, tutti riabilitati, vezzeggiati, premiati dopo tanta ferocia. Quella ferocia che continua ancora, con l'indifferenza esibita per le vittime, col tentativo di screditarle sempre, col cinismo e l'oscenità deliberata, come quando la coppia nera Mambro-Fioravanti, nel pieno di un processo, pretende e ottiene un telo sulla gabbia perchè hanno da fare sesso in sprezzo dei superstiti, che li osservano sconvolti. Quale “Capriccio d'ironia”, per scomodare la Spoon River di Edgar Lee Masters, fa sì che criminali come questi, che perfino da un'antologia del neofascismo comprensiva come “La fiamma e la celtica” di Nicola Rao escono come una coppia di assassini nati, si occupino oggi di loro simili nella più orgogliosa libertà? Non è una vertigina che dà la nausea?
Chiede Adriano Sabbadin: “Chi e perchè protegge l'assassino di mio padre, Cesare Battisti?”. Un delinquente comune prestato alla politica, fuggito e rifuggito da Parigi non perchè sia un eroe come lo dipinge qualche imbecille esibizionista qui da noi, ma perchè se in metropolitana lo lasciano andare una ragione ci sarà. Ed è quasi catartico, è una sorta di pulizia morale dopo gli sproloqui di qualche cialtrone, rileggere nelle parole di Adriano Sabbadin i presupposti, la consistenza e i postumi di una tragedia che per lui, per la sua famiglia, non finisce mai: l'eroe Battisti, fra un libro e una fuga, ha lasciato in eredità un calvario per chi restava, del quale nessuno si cura. “Sapere perchè viene protetto uno che ha distrutto la nostra vita, e non si è fatto neppure un anno di carcere, è per noi una ragione di vita” dice Sabbadin. Su Battisti è appena uscito un altro libro di una vittima, “Ero in guerra ma non lo sapevo” di Alberto Torregiani, in carrozzina da quel 16 febbraio 1979 in cui fu ammazzato il padre (adottivo) dai Pac. Una larga parte è dedicata agli sproloqui di chi difende l'eroico giustiziere, le solite piattole malate d'arditismo d'accatto, gli esibizionisti del peggio, a metà tra l'ignoranza più drammatica e la malafede più squallida, autori di libercoli in difesa di Battisti che però, non essendo prodotti da Einaudi, nessuno si fila. Ma quella delle vittime resta una ragione negata, come dice Maria Fida Moro: “Se mio padre si fosse salvato, lo ucciderebbero ancora, e ancora, e ancora”. Ed è la cosa più vera di questo rosario di testimonianze dolenti, feroce di tenerezza e di ingiustizia: nessuno può rimediare al dolore, ma spesso neppure questo basta, occorre rinfocolare il dolore, tenerlo vivo come un fuoco venefico, uccidere ancora, e ancora, e ancora, anche i parenti, anche i corpi dilaniati ma che non si rassegnano al calvario. Anche la memoria. Tutte le vittime condensano la loro angoscia nella domanda più facile e più difficile: perchè?
Ma risposta non c'è. Si chiedeva l'ingenuo Conti: ma cos'avranno mai fatto, dove si saranno formati questi ex terroristi oggi consulenti se più di sparare non facevano? E lo è sì, ingenuo, a non capire che questi stanno dove stanno, negli enti locali, nelle segreterie dei parlamentari, nello stesso Parlamento, addirittura nelle fondazioni dedite alla legalità con accesso ai documenti sulle stragi, come nel caso dell'ex “grande vecchio” Giovanni Senzani, uomo dei Servizi, proprio per quello che sanno ma non dicono, per i segreti che allo Stato conviene restino tali. Come profetava il giornalista spione Pecorelli prima d'essere accoppato: “Un giorno, quando tutto sarà compiuto, verrà un'amnistia a tutto lavare, tutto obliare”.
Prendiamola per quella che è questa amnistia di fatto, questa soluzione politica inespressa ma effettiva degli anni di piombo i cui protagonisti (compreso il commando di via Fani) sono tutti liberi, recuperati e tra i pochi non precari in questo paese. Prendiamola per quella che è: pura e semplice ragion di Stato, per dire che capiamo come vanno le cose a questo mondo. Ma possiamo almeno farlo con rassegnazione anziché l'esaltazione di chi vorrebbe sostituirsi al Padreterno nel “perdonare”? O senza la penosa complicità morale di chi esalta simili scarti umani come eroi? Perchè questa storia della compassione per i carnefici piuttosto che le vittime a dirla tutta è dura da condividere, dura da mandar giù.
di Massimo Del Papa, pubblicata sul mensile "Il Mucchio" del Febbraio 2007
QUALCUNO TOCCHI ABELE
Ogni tanto ricompaiono in televisione, come Ulisse di ritorno a Itaca. Ma quanto sono brutti questi reduci di piombo, questi soprammobili della lotta armata ormai sformati, ingialliti ma sempre sgradevoli, sempre viscidi nel loro argomentare contorto, in quel delirare di guerre che solo loro avevano intrapreso eliminando a proprio arbitrio gente inerme, servitori dello Stato, studiosi, riformisti. Non uomini ma “simboli”. Oggi se la cavano con agghiaccianti bilanci utilitaristici, “non conveniva fare guerra allo Stato perchè l'abbiamo persa”. O, come la Susanna Ronconi delle BR: “La lotta armata come pratica totalizzante non ha più senso. Prendiamo atto che esistono gli organismi sociali: partiti, sindacati, governo. Occorre continuare ad essere oppositori e critici ma in termini di confronto e di dialettica”. E parla di istituzioni messe nel mirino dei terroristi come lei per 20 anni. Mai sentita una parola di ripensamento puro, non vanificato dai distinguo deliranti sulle vecchie imprese, su quei delitti assurdi. Non è proprio che la Ronconi abbia “preso atto”, è che è entrata nello staff del ministro rifondarolo Ferrero, che una più esperta di lei sulle tossicodipendenze proprio non riusciva a trovarla. Forse più che di droga Susanna è pratica di fatalismo: “Il passato non può tornare, quello che è stato è stato”, che alle orecchie di una vittima potrebbe suonare come il sarcasmo più crudele. Sempre meglio della Anna Laura Braghetti la carceriera di Moro, che della sua militanza brigatista mi parlò come di “una esperienza irripetibile”, come dopo un trionfo. Aggiungendo che, comunque, si piaceva ancora di più adesso.
Questi ex giustizieri considerano un diritto assoluto e un dovere supremo dello Stato il loro recupero, non si capisce bene perchè. Tra l'altro si contraddicono: non hanno mai davvero sbagliato, ma vogliono essere recuperati. Tutti hanno un grande futuro dietro le spalle: esperti, opinionisti, critici, artisti, letterati, nelle case editrici, nelle redazioni, nei posti chiave delle società, cerniere tra la politica, la finanza e l'industria, ripuliti e rilanciati da organizzazioni integraliste come CL, da preti-manager che hanno confuso la carità col cinismo vagamente delirante, vedi don Ciotti il cui “Gruppo Abele” sforna terroristi redenti, anche a coppie, e ne pretende il reinserimento in società ai posti di vertice. Altrimenti queste mine vaganti contro “il sistema” finiscono per rotolare, non si sa come, in società dirette da ex fiduciari dei Servizi, nel cuore di quello Stato che volevano far scoppiare, che come conquista democratica pare un po' mortificante, un po' sottotono. Per chi si accontenta, diciamo. Il capo storico delle BR Curcio ha querelato il figlio di una vittima, che si era azzardato a criticarlo. Moretti, il successore, la Sfinge sanguinaria, dall'alto dei suoi numerosi ergastoli cura per la ciellina “Lombardia Informatica”, diretta da un ex funzionario del Sim, nientemeno che l'informatizzazione del carcere di Opera, una dimensione per lui sempre più remota.
Si potrebbe magari considerare una vittoria dello Stato, viceversa, una condanna scontata seriamente o anche una vita libera ma appartata, non colma di memorie, interviste, semi di saggezza profusi oggi come ieri a spese di quella collettività pochi anni fa colpita a morte. Come invano protestava il figlio del sindaco fiorentino Lando Conti, un ragazzone ribollente d'indignazione al punto da indurre tenerezza, non fosse che anche lui si sceglie i compagni di strada sbagliati, quelli che lo usano, lo strumentalizzano.
È storia vecchia, i parenti delle vittime non fanno audience e per loro non c'è sostegno, nemmeno morale. Tantomeno per i loro aguzzini, che mai si sognano di cercarli, di guardarli in faccia. Morucci ancora pochi mesi fa irrideva in televisione la madre di un morto ammazzato di destra. Paiono contriti solo quando debbono lanciare l'ultimo libro. Forse non sarebbe male un'associazione “Qualcuno tocchi Abele”, perchè le vittime e chi sopravvive loro sembrano appestati per tutti, Stato e antistato, cronaca e memoria. Giusto qualche moglie o mamma spedite in Parlamento, così la smettono con le loro pretese di verità e giustizia. Si ribella, ed è almeno un primo passo, un libro drammatico, devastante da leggere, da poco uscito, “I silenzi degli innocenti”, a cura Giovanni Fasanella e Antonella Grippo per Rizzoli/Bur. Niente altro che le testimonianze, mai interrotte, scritte in prima persona, di una ventina di vittime di terrorismo e stragi o di loro parenti. Gli autori non compaiono mai, la parola è tutta per i martiri. Martiri davvero. Storie incredibili, di vorticose disumanità, tragedie di origini diverse che convergono verso stazioni comuni: le tragiche coincidenze, gli scherzi atroci del destino che non mancano mai e tormentano in eterno chi si salvò a scapito di qualcun altro. E lo sgomento dopo il dolore abissale, constatando d'essere diventati zavorre per quello Stato che non li ha protetti, non ha saputo o voluto difenderli. Che forse preferiva morti anche loro. La frustrazione che corrode, che uccide nell'assistere alla resistibile ascesa dei carnefici, tutti riabilitati, vezzeggiati, premiati dopo tanta ferocia. Quella ferocia che continua ancora, con l'indifferenza esibita per le vittime, col tentativo di screditarle sempre, col cinismo e l'oscenità deliberata, come quando la coppia nera Mambro-Fioravanti, nel pieno di un processo, pretende e ottiene un telo sulla gabbia perchè hanno da fare sesso in sprezzo dei superstiti, che li osservano sconvolti. Quale “Capriccio d'ironia”, per scomodare la Spoon River di Edgar Lee Masters, fa sì che criminali come questi, che perfino da un'antologia del neofascismo comprensiva come “La fiamma e la celtica” di Nicola Rao escono come una coppia di assassini nati, si occupino oggi di loro simili nella più orgogliosa libertà? Non è una vertigina che dà la nausea?
Chiede Adriano Sabbadin: “Chi e perchè protegge l'assassino di mio padre, Cesare Battisti?”. Un delinquente comune prestato alla politica, fuggito e rifuggito da Parigi non perchè sia un eroe come lo dipinge qualche imbecille esibizionista qui da noi, ma perchè se in metropolitana lo lasciano andare una ragione ci sarà. Ed è quasi catartico, è una sorta di pulizia morale dopo gli sproloqui di qualche cialtrone, rileggere nelle parole di Adriano Sabbadin i presupposti, la consistenza e i postumi di una tragedia che per lui, per la sua famiglia, non finisce mai: l'eroe Battisti, fra un libro e una fuga, ha lasciato in eredità un calvario per chi restava, del quale nessuno si cura. “Sapere perchè viene protetto uno che ha distrutto la nostra vita, e non si è fatto neppure un anno di carcere, è per noi una ragione di vita” dice Sabbadin. Su Battisti è appena uscito un altro libro di una vittima, “Ero in guerra ma non lo sapevo” di Alberto Torregiani, in carrozzina da quel 16 febbraio 1979 in cui fu ammazzato il padre (adottivo) dai Pac. Una larga parte è dedicata agli sproloqui di chi difende l'eroico giustiziere, le solite piattole malate d'arditismo d'accatto, gli esibizionisti del peggio, a metà tra l'ignoranza più drammatica e la malafede più squallida, autori di libercoli in difesa di Battisti che però, non essendo prodotti da Einaudi, nessuno si fila. Ma quella delle vittime resta una ragione negata, come dice Maria Fida Moro: “Se mio padre si fosse salvato, lo ucciderebbero ancora, e ancora, e ancora”. Ed è la cosa più vera di questo rosario di testimonianze dolenti, feroce di tenerezza e di ingiustizia: nessuno può rimediare al dolore, ma spesso neppure questo basta, occorre rinfocolare il dolore, tenerlo vivo come un fuoco venefico, uccidere ancora, e ancora, e ancora, anche i parenti, anche i corpi dilaniati ma che non si rassegnano al calvario. Anche la memoria. Tutte le vittime condensano la loro angoscia nella domanda più facile e più difficile: perchè?
Ma risposta non c'è. Si chiedeva l'ingenuo Conti: ma cos'avranno mai fatto, dove si saranno formati questi ex terroristi oggi consulenti se più di sparare non facevano? E lo è sì, ingenuo, a non capire che questi stanno dove stanno, negli enti locali, nelle segreterie dei parlamentari, nello stesso Parlamento, addirittura nelle fondazioni dedite alla legalità con accesso ai documenti sulle stragi, come nel caso dell'ex “grande vecchio” Giovanni Senzani, uomo dei Servizi, proprio per quello che sanno ma non dicono, per i segreti che allo Stato conviene restino tali. Come profetava il giornalista spione Pecorelli prima d'essere accoppato: “Un giorno, quando tutto sarà compiuto, verrà un'amnistia a tutto lavare, tutto obliare”.
Prendiamola per quella che è questa amnistia di fatto, questa soluzione politica inespressa ma effettiva degli anni di piombo i cui protagonisti (compreso il commando di via Fani) sono tutti liberi, recuperati e tra i pochi non precari in questo paese. Prendiamola per quella che è: pura e semplice ragion di Stato, per dire che capiamo come vanno le cose a questo mondo. Ma possiamo almeno farlo con rassegnazione anziché l'esaltazione di chi vorrebbe sostituirsi al Padreterno nel “perdonare”? O senza la penosa complicità morale di chi esalta simili scarti umani come eroi? Perchè questa storia della compassione per i carnefici piuttosto che le vittime a dirla tutta è dura da condividere, dura da mandar giù.
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