Sette anni di desiderio. Cronache 1977-1983
Edito da Bompiani, 1983
308 pagine
di Umberto Eco
Libro presente nelle categorie:
Quarta di copertina
INTRODUZIONE
Ogni tanto raccolgo in volume gli scritti occasionali, gli articoli, le polemiche, le nugae, quelle osservazioni che un tempo si stendevano come pagine di diario privato. Oggi, con i mezzi di massa che non solo permettono, ma incoraggiano la messa in pubblico delle proprie reazioni immediate agli eventi e ai problemi, le pagine di diario escono a stampa, e a puntate. Hanno il vantaggio di non poter essere riscritte ad uso dei posteri. Sono scritte per i propri contemporanei, possono incorrere in contraddizioni, e nel reato di giudizio avventato. Sono, per chi scrive di professione, il modo più giusto (e in ogni caso il più responsabile) di impegnarsi politicamente.
Nel 1973 raccoglievo le riflessioni degli anni sessanta in Il costume di casa; nel 1976 riunivo interventi di attualità e ricordi di viaggio in Dalla perifetia dell'impero. Ora in questo libro appaiono pezzi vari scritti dal 1977 a oggi.
Cronacha di sette anni, dunque, e per puro caso la periodizzazione non è casuale. Dal 1977 in avanti sono accaduti in Italia alcuni fatti degni di un certo interesse. Fatti politici e sociali, e "fatti" culturali, ovvero discussioni, e mode. La crisi delle ideologie, le tentazioni del riflusso, e contemporaneamente i moti del Settantasette, la loro crisi, lo sviluppo massiccio del terrorismo... Sette anni interessanti, senza dubbio, anche se non sempre si vorrebbe vivere in un'epoca troppo interessante.
Perché parlo di sette anni di desiderio? Perché mi pare che uno dei termini chiave di questo settennio non fosse rivoluzione, lotta di classe, marxismo o "nella misura in cui", come era stato tipico degli anni precedenti. In questo settennio, contrassegnato dalla scoperta o riscoperta del privato, dei bisogni, della libertà delle pulsioni, si è parlato tanto, tantissimo di desiderio. Si sono scritte pagine di psicoanalisi, di letteratura, ci si è spogliati nudi in piazza, si è sparato, si è riscoperto (dicono) il sacro, tutto all'insegna del desiderio. Come si suggerisce in uno dei saggetti di questo libro, solo un altro concetto ha abitato con altrettanta insistenza le pagine a stampa e le dichiarazioni verbali: la rabbia. Anni di rabbia e di desiderio. Ma credo che le due passioni siano legate da molte e sottili parentele. Se poi si va a ricuperare un altro termine chiave di questi anni, la crisi della ragione, si vede che, se la ragione è in crisi, cosa rimane? La celebrazione degli impulsi, in politica come in letteratura, e in varie altre attività, compresa - che so - la compravendita di immobili, lo sport, o l'assunzione di sostanze chimiche via endovena. E siccome la celebrazione degli impulsi non dà mai i risultati sperati, sopravviene la rabbia, oppure il desiderio si orienta in direzioni oscure, e diventa voglia di morte.
Ecco il senso dei titoli che contrassegnano le prime quattro sezioni di questa raccolta. Al desiderio di riflusso, per reagire alla crisi delle ideologie, fa seguito, o si accompagna, il desiderio (detto negli anni scorsi "trasversale") di celebrare il desiderio - mai come in questi anni si è parlato di carnevalizzazione della vita. Intanto, un profondo desiderio di morte (che ha contrassegnato il terrorismo, molti dei suoi nemici, e altre manifestazioni di tanatofilia) ci ha fatto sorgere il dubbio che del carnevale totale facessero parte anche le bande di "arance meccaniche", di qualsiasi colore si tingessero. Si provi a rileggere il fenomeno del pentitismo come l'inizio liberatorio di una nuova quaresima. Davvero, sono stati sette anni di grande religiosità - ma si badi, quando si parla di religiosità si pensa anche alle religioni che prediligono i sacrifici umani.
Patetico, irriducibile, quale antistrofe, ha accompagnato questi anni il desiderio di trasparenza da parte di coloro che, non riuscendo più a capire cosa stesse accadendo, chiedevano ai mezzi di massa di dire almeno la verità. Ahimè, anche con le illusioni di questo desiderio si è dovuto fare i conti.
Le ultime due sezioni del libro non sono intitolate al desiderio. Non bisogna insistere con le metafore oltre il dovuto. La sezione sul potere e i contropoteri riflette tuttavia un altro aspetto caratteristico di questi anni: mentre esplodevano desideri di colpire al cuore il potere e di individuare altri modelli di cultura (la festa, la rivolta, il massacro, il ritrovamento di nuove forme di consenso) ci si è anche domandati quale fosse e dove stesse il potere che si voleva mettere in causa. In questi sette anni molti erano contro lo stato, altri con lo stato, alcuni né con lo stato né contro lo stato. Tutti parlavano di "stato" in termini abbastanza estranei alla filosofia del diritto. Per lo più si pensava a qualcosa d'altro, diverso per ciascuno, e in definitiva era in questione la natura del potere. Ma proprio negli anni precedenti era iniziata una discussione sul potere e non dimentichiamo che tra gli anni sessanta e i settanta astuti teorici hanno gradatamente dimostrato che non esistono più potere, sesso, soggetto, linguaggio, classe, inconscio e non ricordo bene cosa d'altro. Morti Marx, Dio, Nietzsche, Freud, gravemente ammalati i leaders storici ancora viventi (ma via via eliminati da malattie o vecchiaia), se si negavano anche i grandi concetti su cui era sino ad allora vissuto di rendita il pensiero occidentale - a chi si poteva dare la colpa? Al settennio sono rimasti, alla fine, pochi e imprecisi colpevoli, il Grande Vecchio, i bulgari, qualche assessore corrotto, Toni Negri e la mafia. Poco (e di dimensioni troppo, troppo umane) per soddisfare l'ansia metafisica di una intera società. E che il settennío non ha avuto abbastanza lucidità per riconoscere le nuove forme di potere, e individuare le nuove tecniche di sopravvivenza, se non di confrontazíone, che esse richiedono. Simbolo di questo smarrimento, il terrorismo, che ha continuato a cercare il cuore di un potere antropomorfo per colpirlo a morte. Non essendoci riuscito, non gli restava che pentirsi.
L'ultima sezione raccoglie scritti che, di tutti gli eventi e i desideri trattati nelle sezioni precedenti, offrono il controcanto grottesco. Grottesco non vuole dire scherzoso. Ovvero, la rivisitazione ironica di fatti e miti può costituire, talvolta, l'unico modo desiderabile di capire. A tal punto che il pezzo apparentemente più fantascientifico e "comico", una meditata farneticazione su "cosa sarebbe accaduto se..." (un sofferto esercizio di condizionali controfattuali), trova ia sua collocazione più degna non nell'ultima sezione (che qualche lettore di gran sussiego potrebbe ostinarsi a ritener evasiva) ma in quella dedicata al desiderio di morte che ha pervaso in questi sette anni la nostra penisola. Continuo a pensare che quel pezzo - che qui ho intitolato "Una storia vera" - sia una delle cose più vere che ho mai scritto, e la prova è che nessuno l'ha mai presa sul serio.
Dicevo all'inizio che in questo settennio non si è più detto "nella misura in cui". Invece si è continuato a dire "discorsi di un certo tipo". Abbiamo tutti ironizzato a lungo sulle vicende del sinistrese e sancito l'impossibilità di usare ancora certe espressioni che non volevano dire più nulla. Eppure mi viene il sospetto che tra due espressioni entrambe ormai prive di senso, l'una possa comportare connotazioni diverse dall'altra, e sia interessante capire quale scompare per prima e perché.
"Nella misura in cui" era una brutta espressione. Avevo osservato altrove che poteva essere sostituita da "se-allora" (nella misura in cui piove, porta l'ombrello), da "questo provoca quello" (nella misura in cui il governo aumenta le tasse sugli immobili diminuirà l'acquisto di case in proprio), da "quando-allora" (nella misura in cui egli tornerà a chiederti soldi prendilo a calci), e così via. Ma, malgrado le esagerazioni, "nella misura in cui" manifestava una volontà di calcolo, di commisurazione, una ricerca di adeguatezza tra risposta e domanda, una aspirazione alla soluzione proporzionata. I sette anni di desiderio si sono svolti invece all'insegna della dismisura, e semmai lo slogan sessantottesco che (anche se tacito) ha continuato a prevalere è stato "prendete i vostri desideri per la realtà" - che è appunto l'opposto di ciò che si deve o si può fare solo nella misura in cui.
E siccome la regola era ormai la dismisura suggerita dal desiderio, come poteva essere descritta la soluzione? Come, appunto, una soluzione, un approccio, una gestione in prima persona, un discorso "di un certo tipo".
Si parla di crisi delle ideologie. Errore. Caso mai bisognerebbe parlare di modificazione delle ideologie. È caratteristico delle nuove ideologie non essere riconoscibili come tali, così che possano essere vissute come verità. Ecco, nel settennio hanno danzato tante nuove verità, tutte indefinibili e quindi tutte di un certo tipo.
Macché crisi della ragione. Crisi di una teoria dei tipi. Ma allora, di che tipo sono stati i desideri del settennio?
Ecco, nella prudente misura in cui si poteva rispondere a questa domanda, giorno per giorno, questi scritti tentavano di rispondere. Dico, vero?, nella misura in cui le risposte non sono mai definitive.
Milano, 1983
INTRODUZIONE
Ogni tanto raccolgo in volume gli scritti occasionali, gli articoli, le polemiche, le nugae, quelle osservazioni che un tempo si stendevano come pagine di diario privato. Oggi, con i mezzi di massa che non solo permettono, ma incoraggiano la messa in pubblico delle proprie reazioni immediate agli eventi e ai problemi, le pagine di diario escono a stampa, e a puntate. Hanno il vantaggio di non poter essere riscritte ad uso dei posteri. Sono scritte per i propri contemporanei, possono incorrere in contraddizioni, e nel reato di giudizio avventato. Sono, per chi scrive di professione, il modo più giusto (e in ogni caso il più responsabile) di impegnarsi politicamente.
Nel 1973 raccoglievo le riflessioni degli anni sessanta in Il costume di casa; nel 1976 riunivo interventi di attualità e ricordi di viaggio in Dalla perifetia dell'impero. Ora in questo libro appaiono pezzi vari scritti dal 1977 a oggi.
Cronacha di sette anni, dunque, e per puro caso la periodizzazione non è casuale. Dal 1977 in avanti sono accaduti in Italia alcuni fatti degni di un certo interesse. Fatti politici e sociali, e "fatti" culturali, ovvero discussioni, e mode. La crisi delle ideologie, le tentazioni del riflusso, e contemporaneamente i moti del Settantasette, la loro crisi, lo sviluppo massiccio del terrorismo... Sette anni interessanti, senza dubbio, anche se non sempre si vorrebbe vivere in un'epoca troppo interessante.
Perché parlo di sette anni di desiderio? Perché mi pare che uno dei termini chiave di questo settennio non fosse rivoluzione, lotta di classe, marxismo o "nella misura in cui", come era stato tipico degli anni precedenti. In questo settennio, contrassegnato dalla scoperta o riscoperta del privato, dei bisogni, della libertà delle pulsioni, si è parlato tanto, tantissimo di desiderio. Si sono scritte pagine di psicoanalisi, di letteratura, ci si è spogliati nudi in piazza, si è sparato, si è riscoperto (dicono) il sacro, tutto all'insegna del desiderio. Come si suggerisce in uno dei saggetti di questo libro, solo un altro concetto ha abitato con altrettanta insistenza le pagine a stampa e le dichiarazioni verbali: la rabbia. Anni di rabbia e di desiderio. Ma credo che le due passioni siano legate da molte e sottili parentele. Se poi si va a ricuperare un altro termine chiave di questi anni, la crisi della ragione, si vede che, se la ragione è in crisi, cosa rimane? La celebrazione degli impulsi, in politica come in letteratura, e in varie altre attività, compresa - che so - la compravendita di immobili, lo sport, o l'assunzione di sostanze chimiche via endovena. E siccome la celebrazione degli impulsi non dà mai i risultati sperati, sopravviene la rabbia, oppure il desiderio si orienta in direzioni oscure, e diventa voglia di morte.
Ecco il senso dei titoli che contrassegnano le prime quattro sezioni di questa raccolta. Al desiderio di riflusso, per reagire alla crisi delle ideologie, fa seguito, o si accompagna, il desiderio (detto negli anni scorsi "trasversale") di celebrare il desiderio - mai come in questi anni si è parlato di carnevalizzazione della vita. Intanto, un profondo desiderio di morte (che ha contrassegnato il terrorismo, molti dei suoi nemici, e altre manifestazioni di tanatofilia) ci ha fatto sorgere il dubbio che del carnevale totale facessero parte anche le bande di "arance meccaniche", di qualsiasi colore si tingessero. Si provi a rileggere il fenomeno del pentitismo come l'inizio liberatorio di una nuova quaresima. Davvero, sono stati sette anni di grande religiosità - ma si badi, quando si parla di religiosità si pensa anche alle religioni che prediligono i sacrifici umani.
Patetico, irriducibile, quale antistrofe, ha accompagnato questi anni il desiderio di trasparenza da parte di coloro che, non riuscendo più a capire cosa stesse accadendo, chiedevano ai mezzi di massa di dire almeno la verità. Ahimè, anche con le illusioni di questo desiderio si è dovuto fare i conti.
Le ultime due sezioni del libro non sono intitolate al desiderio. Non bisogna insistere con le metafore oltre il dovuto. La sezione sul potere e i contropoteri riflette tuttavia un altro aspetto caratteristico di questi anni: mentre esplodevano desideri di colpire al cuore il potere e di individuare altri modelli di cultura (la festa, la rivolta, il massacro, il ritrovamento di nuove forme di consenso) ci si è anche domandati quale fosse e dove stesse il potere che si voleva mettere in causa. In questi sette anni molti erano contro lo stato, altri con lo stato, alcuni né con lo stato né contro lo stato. Tutti parlavano di "stato" in termini abbastanza estranei alla filosofia del diritto. Per lo più si pensava a qualcosa d'altro, diverso per ciascuno, e in definitiva era in questione la natura del potere. Ma proprio negli anni precedenti era iniziata una discussione sul potere e non dimentichiamo che tra gli anni sessanta e i settanta astuti teorici hanno gradatamente dimostrato che non esistono più potere, sesso, soggetto, linguaggio, classe, inconscio e non ricordo bene cosa d'altro. Morti Marx, Dio, Nietzsche, Freud, gravemente ammalati i leaders storici ancora viventi (ma via via eliminati da malattie o vecchiaia), se si negavano anche i grandi concetti su cui era sino ad allora vissuto di rendita il pensiero occidentale - a chi si poteva dare la colpa? Al settennio sono rimasti, alla fine, pochi e imprecisi colpevoli, il Grande Vecchio, i bulgari, qualche assessore corrotto, Toni Negri e la mafia. Poco (e di dimensioni troppo, troppo umane) per soddisfare l'ansia metafisica di una intera società. E che il settennío non ha avuto abbastanza lucidità per riconoscere le nuove forme di potere, e individuare le nuove tecniche di sopravvivenza, se non di confrontazíone, che esse richiedono. Simbolo di questo smarrimento, il terrorismo, che ha continuato a cercare il cuore di un potere antropomorfo per colpirlo a morte. Non essendoci riuscito, non gli restava che pentirsi.
L'ultima sezione raccoglie scritti che, di tutti gli eventi e i desideri trattati nelle sezioni precedenti, offrono il controcanto grottesco. Grottesco non vuole dire scherzoso. Ovvero, la rivisitazione ironica di fatti e miti può costituire, talvolta, l'unico modo desiderabile di capire. A tal punto che il pezzo apparentemente più fantascientifico e "comico", una meditata farneticazione su "cosa sarebbe accaduto se..." (un sofferto esercizio di condizionali controfattuali), trova ia sua collocazione più degna non nell'ultima sezione (che qualche lettore di gran sussiego potrebbe ostinarsi a ritener evasiva) ma in quella dedicata al desiderio di morte che ha pervaso in questi sette anni la nostra penisola. Continuo a pensare che quel pezzo - che qui ho intitolato "Una storia vera" - sia una delle cose più vere che ho mai scritto, e la prova è che nessuno l'ha mai presa sul serio.
Dicevo all'inizio che in questo settennio non si è più detto "nella misura in cui". Invece si è continuato a dire "discorsi di un certo tipo". Abbiamo tutti ironizzato a lungo sulle vicende del sinistrese e sancito l'impossibilità di usare ancora certe espressioni che non volevano dire più nulla. Eppure mi viene il sospetto che tra due espressioni entrambe ormai prive di senso, l'una possa comportare connotazioni diverse dall'altra, e sia interessante capire quale scompare per prima e perché.
"Nella misura in cui" era una brutta espressione. Avevo osservato altrove che poteva essere sostituita da "se-allora" (nella misura in cui piove, porta l'ombrello), da "questo provoca quello" (nella misura in cui il governo aumenta le tasse sugli immobili diminuirà l'acquisto di case in proprio), da "quando-allora" (nella misura in cui egli tornerà a chiederti soldi prendilo a calci), e così via. Ma, malgrado le esagerazioni, "nella misura in cui" manifestava una volontà di calcolo, di commisurazione, una ricerca di adeguatezza tra risposta e domanda, una aspirazione alla soluzione proporzionata. I sette anni di desiderio si sono svolti invece all'insegna della dismisura, e semmai lo slogan sessantottesco che (anche se tacito) ha continuato a prevalere è stato "prendete i vostri desideri per la realtà" - che è appunto l'opposto di ciò che si deve o si può fare solo nella misura in cui.
E siccome la regola era ormai la dismisura suggerita dal desiderio, come poteva essere descritta la soluzione? Come, appunto, una soluzione, un approccio, una gestione in prima persona, un discorso "di un certo tipo".
Si parla di crisi delle ideologie. Errore. Caso mai bisognerebbe parlare di modificazione delle ideologie. È caratteristico delle nuove ideologie non essere riconoscibili come tali, così che possano essere vissute come verità. Ecco, nel settennio hanno danzato tante nuove verità, tutte indefinibili e quindi tutte di un certo tipo.
Macché crisi della ragione. Crisi di una teoria dei tipi. Ma allora, di che tipo sono stati i desideri del settennio?
Ecco, nella prudente misura in cui si poteva rispondere a questa domanda, giorno per giorno, questi scritti tentavano di rispondere. Dico, vero?, nella misura in cui le risposte non sono mai definitive.
Milano, 1983
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di Valerio Varesi su La Repubblica del 20/05/2007