Boris Giuliano. La squadra dei giusti
Edito da Rizzoli, 2008
240 pagine, € 16,00
ISBN 8874243082
di Daniele Billitteri
Quarta di copertina
Giorgio Boris Giuliano arrivò a Palermo alla fine degli anni Sessanta. Ci sarebbe rimasto per più di dieci anni fino al giorno in cui vi morì, ucciso mentre pagava un caffè al bar, il 21 luglio 1979. Era il capo della squadra mobile solo da tre anni. Ma era già il nemico numero uno di Cosa Nostra. Da commissario era arrivato a Palermo mentre la mafia stava attraversando una delle sue frequenti fasi di cambiamento e di adattamento ai tempi. Tempi d’oro. Era l’epoca del “sacco di Palermo”, delle migliaia di licenze edilizie firmate in una notte. Agli investigatori mancava una visione d’insieme. E arrivò lui. Nuovi metodi, nuove strategie. Duro, intelligente, capace di scavare nell’omertà, di riannodare i fili di una struttura allora magmatica e per molti versi sconosciuta, Cosa Nostra, che solo sei anni prima un pentito, Leonardo Vitale, aveva denunciato finendo in manicomio. Perché nessuno ci credeva. Ma la storia di Giuliano non è solo quella di un uomo, di un poliziotto, di un servitore dello Stato. È anche la storia della nascita di un approccio nuovo alla lotta alla mafia. Giuliano era entrato relativamente tardi in Polizia. Aveva avuto altre esperienze di lavoro; aveva compiuto anche scelte allora considerate coraggiose. A Palermo Giuliano costituì una squadra di giovani funzionari che la pensavano come lui. Che volevano cambiare la Sicilia. Fu una rivoluzione che diede clamorosi risultati. Fu, infatti, Giuliano a individuare nei rapporti tra la mafia siciliana e quella americana uno dei pilastri di Cosa Nostra, costruendo un solido rapporto di collaborazione con l’FBI. E per questo era diventato un nemico da eliminare. E qui c’è tutto. L’uomo Giuliano: così lo raccontano il figlio Alessandro, adesso anche lui poliziotto, la moglie Maria, il fratello Nello.
Giorgio Boris Giuliano arrivò a Palermo alla fine degli anni Sessanta. Ci sarebbe rimasto per più di dieci anni fino al giorno in cui vi morì, ucciso mentre pagava un caffè al bar, il 21 luglio 1979. Era il capo della squadra mobile solo da tre anni. Ma era già il nemico numero uno di Cosa Nostra. Da commissario era arrivato a Palermo mentre la mafia stava attraversando una delle sue frequenti fasi di cambiamento e di adattamento ai tempi. Tempi d’oro. Era l’epoca del “sacco di Palermo”, delle migliaia di licenze edilizie firmate in una notte. Agli investigatori mancava una visione d’insieme. E arrivò lui. Nuovi metodi, nuove strategie. Duro, intelligente, capace di scavare nell’omertà, di riannodare i fili di una struttura allora magmatica e per molti versi sconosciuta, Cosa Nostra, che solo sei anni prima un pentito, Leonardo Vitale, aveva denunciato finendo in manicomio. Perché nessuno ci credeva. Ma la storia di Giuliano non è solo quella di un uomo, di un poliziotto, di un servitore dello Stato. È anche la storia della nascita di un approccio nuovo alla lotta alla mafia. Giuliano era entrato relativamente tardi in Polizia. Aveva avuto altre esperienze di lavoro; aveva compiuto anche scelte allora considerate coraggiose. A Palermo Giuliano costituì una squadra di giovani funzionari che la pensavano come lui. Che volevano cambiare la Sicilia. Fu una rivoluzione che diede clamorosi risultati. Fu, infatti, Giuliano a individuare nei rapporti tra la mafia siciliana e quella americana uno dei pilastri di Cosa Nostra, costruendo un solido rapporto di collaborazione con l’FBI. E per questo era diventato un nemico da eliminare. E qui c’è tutto. L’uomo Giuliano: così lo raccontano il figlio Alessandro, adesso anche lui poliziotto, la moglie Maria, il fratello Nello.
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