Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione.

Edito da Donzelli, 1998
330 pagine, € 18,08
ISBN 8879894358

di Rocco Sciarrone

Libro presente nelle categorie:
Storia del crimine organizzato in Italia1. Mafia
Recensione

recensioni di Siebert, R. L'Indice del 1999, n. 04


Mafia, camorra e ’ndrangheta, con approcci diversi e su piani disciplinari differenti, sono stati studiati molto in questi anni. Ciò di cui, tuttavia, si sente in un certo senso la mancanza, sono ricerche circoscritte, volte a ricostruire i meccanismi di diffusione, di riproduzione e di innovazione del dominio mafioso, le modalità di funzionamento e la qualità specifica delle relazioni che l’organizzazione mafiosa riesce a instaurare con il territorio in cui opera. Il potere della mafia non sarebbe tale se il suo dispiegarsi non incontrasse anche forme di consenso diffuso e sostanziale.

Sotto questo profilo appare particolarmente interessante comprendere il rapporto tra le forme, per così dire, tradizionali dell’esercizio della signoria territoriale nelle zone di antico radicamento della mafia e le modalità di conquista, da parte delle organizzazioni criminali, di territori nuovi, storicamente esenti da questo tipo di attività. Territori nuovi sia nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord. Processi in atto da un ventennio almeno, ma riconosciuti come tali nella loro pericolosità, e studiati, solo da poco tempo.

Un volume recente di Rocco Sciarrone, già autore di vari saggi sul rapporto tra mafia e imprenditorialità, offre un’ottima occasione per riflettere sulla complessità delle situazioni prese in esame, proprio a partire dalla tensione fra radicamento ed espansione, come recita il sottotitolo. Si tratta di una ricerca sociologica empirica basata innanzitutto su interviste a imprenditori, articolata in due parti distinte e complementari: da una parte l’analisi di un’economia locale con una forte presenza mafiosa di lunga data (la Piana di Gioia Tauro in Calabria), dall’altra l’analisi dei processi di espansione territoriale dei gruppi mafiosi in aree non tradizionali. Quest’ultima parte, a sua volta, si muove in due direzioni: è stata analizzata un’area contigua a quella di genesi storica della mafia (la Puglia) e un’area, invece, distante (il Piemonte).

Il lavoro di Sciarrone può considerarsi in un certo senso una risposta ben riuscita a una sfida all’analisi sociologica lanciata qualche anno fa da Umberto Santino, quando scriveva che quest’ultima "non può andare a rimorchio, ma deve avere un suo ruolo ed una sua autonomia" (La mafia interpretata, Rubbettino, 1995). Santino, in quel saggio, ha proposto un paradigma della complessità; Sciarrone, opportunamente, costruisce le categorie d’analisi e il quadro teorico di riferimento per le sue ricerche a partire da varie analisi contemporanee sulla mafia, evitando di entrare nelle polemiche che spesso impoveriscono i confronti. Scrive Sciarrone: "In realtà, le tesi dei diversi autori sembrano tra loro più compatibili di quanto essi stessi lasciano intendere". In questo senso il lavoro di Sciarrone, in modo esemplare, unisce originalità e rigore teorico e metodologico con l’apertura, critica e non dogmatica, verso altri approcci e letture del fenomeno. Unisce, in un movimento costante di andirivieni, la ricerca empirica con un quadro teorico in progress.

Le forme mafiose della criminalità organizzata possono essere considerate tali perché è prevalente l’obiettivo del potere rispetto a quello dell’accumulazione della ricchezza, anche se, ovviamente, l’uno non è separabile dall’altro. Da qui l’importanza dell’aspetto di "società segreta", con tutto il corredo di riti, di legami e di funzioni simboliche; da qui le caratteristiche particolari e differenti che contraddistinguono i rapporti tra gli affiliati all’interno dell’organizzazione e i loro legami verso l’esterno; da qui i legami con la politica, con le istituzioni e con il potere costituito, e da qui, infine, la configurazione del dominio sul territorio e sulla società civile, la "signoria territoriale". Sotto questo profilo l’analisi proposta una ventina d’anni fa da Alan Block, che distingue la criminalità organizzata di New York in power syndicate e in enterprise syndicate, appare molto utile e viene fatta propria da Sciarrone. Sicché, nel primo caso, la mafia è caratterizzata come organizzazione sostanzialmente totalitaria che mira al controllo territoriale assoluto, e, nel secondo, come organizzazione più flessibile, aperta e fluida, dedicata in primo luogo ai traffici, alle sue imprese criminali. "Si tratta di due sfere distinguibili concettualmente ed empiricamente, ma in rapporto di reciproca funzionalità e, quasi sempre, intrecciate e sovrapposte". Questa distinzione concettuale, evidentemente, diventa particolarmente utile in una prospettiva comparativa tra aree di radicamento tradizionale e aree di espansione recente del fenomeno mafia.

A partire da tale interesse conoscitivo, l’originalità dell’analisi di Sciarrone è quella di avere utilizzato – per meglio comprendere i meccanismi di funzionamento e di penetrazione mafiosa del tessuto sociale – il concetto di capitale sociale, coniato da Coleman (e successivamente sviluppato fra gli altri anche da Bourdieu, Putnam, Fukuyama, Mutti, Bagnasco, Woolcock). In quest’ottica l’attenzione si focalizza sulla capacità e sulle risorse relazionali dei mafiosi, un approccio ricco di stimoli e sollecitazioni per la ricerca, come ben dimostra l’indagine sul campo, effettuata dall’autore. "In definitiva, la nostra tesi è che essi [i mafiosi] presentano una elevata dotazione di capitale sociale che traggono dalle relazioni instaurate con altri attori. La forza della mafia è conseguenza anche delle sue capacità di networking: ciò permette ai mafiosi di porsi, a seconda delle circostanze, come mediatori, patroni, protettori in strutture relazionali di natura diversa che essi riescono a utilizzare per i propri obiettivi".

Quali, allora, i risultati della ricerca fatta in Calabria, in Puglia e in Piemonte? Risultati articolati, ricchi di sorprese e demolitori di molte affermazioni di senso comune. Ercole Giap Parini, un altro giovane sociologo che ha svolto recentemente una ricerca empirica su due casi di penetrazione mafiosa in due comuni della Calabria (Mafia, politica, società civile. Due casi in Calabria, Rubbettino, in corso di stampa), ha scritto: "Se è vero che la mafia si impone sul territorio, condizionandone lo sviluppo, è altresì vero che lo specifico agire della mafia è modellato sulle condizioni del territorio. Si tratta, quindi, di rendere conto delle specifiche condizioni di un sistema i cui elementi vanno studiati nella loro interdipendenza e nel loro dinamismo" (Su alcune recenti interpretazioni del fenomeno mafioso, in "Quaderni di Sociologia", 1997, n. 14, p. 170). Mettendo a fuoco la rilevanza del capitale sociale che le organizzazioni mafiose riescono a mettere in campo, di volta in volta, per l’instaurarsi delle relazioni sociali differenziate a seconda delle diversità storiche e strutturali del territorio, Sciarrone riesce a illustrare esattamente tali interdipendenze e tali dinamismi.

La ricerca sul rapporto tra mafiosi e imprenditori in una realtà tradizionalmente segnata dalla presenza della ’ndrangheta consente di elaborare una tipologia: imprenditori subordinati, quelli collusi, e quelli, in senso proprio, mafiosi. Non un continuum, ma neanche una distinzione netta, una volta per sempre, tra categorie di imprenditori sostanzialmente diversi. L’autore tenta di tracciare una linea di demarcazione fra vittime e complici. Criterio di distinzione fra i tre tipi è "il modo in cui gli imprenditori si avvalgono dell’offerta di fiducia, ossia del tipo di protezione mafiosa da cui la loro attività economica è fatta oggetto. Nelle sue conclusioni Sciarrone tematizza una contraddizione di fondo: la presenza mafiosa costituisce un grave ostacolo alla formazione di nuova imprenditorialità, eppure, secondo lui, per il singolo fidarsi della mafia non solo rappresenta una scelta razionale, ma può essere molto vantaggioso. Tuttavia riconosce che "la resistenza alla mafia comincia a diventare una strategia economicamente razionale".

La Puglia, regione limitrofa, ma storicamente esente da reti mafiose, presenta una situazione complessa, una riproduzione anomala del modello mafioso tradizionale: un tentativo di colonizzazione da parte della camorra di Cutolo, ma punto di riferimento diventa innanzitutto la ’ndrangheta. Si osserva l’esigenza di inventarsi una tradizione. Appare indubbio che i gruppi della criminalità pugliese, attraverso gli intensi contatti con quelli mafiosi, compiano un salto di qualità. Nell’insieme, tuttavia, non sembrano capaci di dotarsi di un capitale sociale sufficiente: "non sono in grado di rendere produttivo, per fini che non siano puramente predatori, il legame associativo fra gli aderenti, di chiuderlo verso l’interno e di aprirlo verso l’esterno". Ossia, tendono ad agire come enterprise syndicate, a scapito di una compiuta signoria territoriale, come power syndicate.

Nel caso del Piemonte, la ricerca di Sciarrone evidenzia una diffusione mafiosa a chiazze, "per ‘nicchie’ ambientali". Innanzitutto emerge una differenza tra l’area metropolitana di Torino – con formazioni mafiose in specifici settori illegali, soprattutto di enterprise syndicate – e altri contesti locali, come il Vercellese, la Val Susa, Bardonecchia, il Canavese e la Val d’Ossola, dove la presenza mafiosa assume un carattere di maggiore pervasività, fino a raggiungere i livelli di un vero e proprio controllo del territorio. Risulta da questa ricerca che la presenza degli immigrati meridionali, spesso grossolanamente accusati di essere fonte primaria di una sorta di "immigrazione mafiosa", rappresenta piuttosto un serbatoio privilegiato per le mire egemoniche della mafia sul territorio: "sono i primi a subire le conseguenze di un orientamento strategico dei mafiosi". In questo contesto va anche ricordato che una parte consistente della popolazione meridionale emigrata è stata proprio quella che aveva perso le lotte contadine contro la mafia rurale. Una emigrazione nel segno oppositivo alla mafia, un dato rare volte ricordato. L’autore conclude che – in coerenza con ciò che accade nelle aree tradizionali – "anche in Piemonte i gruppi e i soggetti mafiosi più potenti sono quelli che mostrano una maggiore dotazione di capitale sociale e che hanno una maggiore capacità di intrecciare una rete di relazioni". Sono quelli, anche, che riescono ad affermarsi via via nell’economia legale.

Se l’importanza delle relazioni esterne, il capitale sociale, diventa chiave di lettura del fenomeno mafioso, le prospettive per la lotta alla mafia, giustamente, vanno individuate nella comprensione dei network articolati che veicolano il controllo sociale, politico ed economico del territorio e della società civile da parte dei mafiosi. Disfare la rete, minare il consenso, svalorizzare il capitale sociale a disposizione delle organizzazioni mafiose, diventano obiettivi mirati per lottare contro.

Vorrei, infine, esprimere due perplessità. Non si tratta di critiche all’impianto della ricerca, sono anzi riflessioni che scaturiscono proprio da una sostanziale convergenza di vedute con l’autore.

La prima riguarda l’analisi della violenza. A mio avviso, analizzando i meccanismi di funzionamento della mafia, il fattore violenza non può essere considerato uno tra tanti, un fattore esogeno. La morte, in ambiente di mafia, infetta tutto: dalla soggettività delle persone, alla transazione economica. La morte agìta, la morte subita, la morte fantasticata. E non sono minacciati di morte soltanto coloro che si oppongono, la morte agisce ugualmente all’interno, nelle relazioni fra mafiosi. Vedo qui, di conseguenza, un problema di carattere concettuale. Fino a che punto è possibile usare le teorie della scelta razionale, per spiegare azioni che maturano in tale contesto?

La seconda perplessità concerne il ruolo delle donne nel contesto mafioso, capitale sociale per eccellenza. Nonostante il divieto formale di affiliazione, nonostante l’assenza delle donne dalle strutture centrali del power syndicate, all’intervento delle donne, subordinate ma potenti, compete un ruolo importante nell’esercizio proprio della signoria territoriale. Questa "centralità sommersa" (T. Principato) delle donne non viene tematizzata dall’autore, eppure rappresenta una dimensione notevole dei network a disposizione dei mafiosi. Ma non mi riferisco soltanto a un’assenza, per così dire, quantitativa del problema. L’ottica di genere influenza l’analisi in senso qualitativo, la sua assenza può indurre a un uso "spensierato" di alcune categorie. Faccio un esempio. Sciarrone, come molti altri, sostiene che nel gruppo mafioso "la trama di relazioni interne tende ad essere basata sul modello dei rapporti familiari". Quale famiglia è composta da soli maschi? La forte coesione interna, emotivamente caricata, che sembra contraddistinguere le relazioni interpersonali nel gruppo mafioso, più che attingere la sua forza a reminiscenze familiari, appare risultato proprio dell’esclusione delle donne da questo tipo di socialità.

Queste annotazioni vogliono essere stimolo per ulteriori approfondimenti, ma nulla tolgono allo straordinario interesse di questo volume.

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