La mafia in Cassazione
Edito da Nuova Italia, 1995
274 pagine, € 17,61
ISBN 8822116151
di Rosario Minna
Recensione
recensione di Ferraresi, F., L'Indice 1997, n. 4
L'emergenza giustizia si rivela ogni giorno come forse la più grave tra quante affliggono il nostro paese, ed è certo quella su cui maggiormente si focalizza l'attenzione della stampa e dei media. Due sono i fronti principali, la corruzione politico-amministrativa (Tangentopoli) e la criminalità organizzata (soprattutto mafia). In entrambi i casi l'oggettiva complessità tecnica della materia, la presenza di figure e istituti speciali, la possibilità di interpretazioni controverse, si intrecciano in maniera inestricabile con fortissimi interessi politici, dando vita a dispute e conflitti a calor bianco, dove l'opinione pubblica fatica a trovare solidi riferimenti, mentre i più spregiudicati frequentatori del palcoscenico massmediologico hanno agio di esibirsi nelle esternazioni più incontrollate (è di qualche giorno fa la definizione dei collaboratori di giustizia, ad opera dell'ex ministro Mancuso, oggi vicepresidente della Commissione antimafia, come di "delatori, criminali pezzolati"). E questo in una materia in cui l'assenza di demagogia, la serenità e la pacatezza di giudizio sarebbero assolutamente necessarie per giungere a decisioni responsabili.
Ben venga, quindi, un volume come questo di Rosario Minna, sostituto procuratore generale a Firenze, che si sforza di fare chiarezza in simile intrico, ricostruendo i principali istituti, strumenti e procedure attualmente in uso per combattere la mafia, e i problemi tecnico-giuridici che questi pongono. A cominciare dalla definizione medesima di mafia, tutt'altro che pacifica non solo in termini storico-sociologici, ma anche - e più importante - in termini legali.
È noto anzi che il diniego dell'esistenza medesima della mafia e, in subordine, l'impossibilità di definirla, furono molto a lungo formidabili strumenti di tutela per i mafiosi. Si va dal deputato catanese che durante la prima discussione parlamentare in materia (1875) sosteneva essere "la maffia [sic] parola che tutto dice e non dice nulla come tutte le parole che non esprimono un'idea definita (...) nessuno ha saputo dirmi che cosa ella sia", per giungere a quel sindaco palermitano che ancora pochi anni fa sosteneva di non aver mai constatato l'esistenza della mafia nella sua città e di non sapere cosa essa fosse.
Non sorprende allora che il concetto venga riconosciuto nel nostro codice penale per la prima volta con la legge n.646 del 10 settembre 1982, che introduce il famoso articolo 416 bis. Questo alla figura della "normale" associazione per delinquere (art. 416) aggiunge l'associazione di stampo mafioso, analiticamente e lungamente definita nei cinque capoversi successivi.
Si tratta di una vera e propria svolta storica nella legislazione italiana, e Minna ricostruisce quali passaggi, dal codice napoleonico che per primo ha introdotto in Italia il reato associativo, passando attraverso la legislazione albertina, poi il codice Zanardelli, infine il codice Rocco, hanno portato alla legge del 1982, e ai problemi interpretativi che ne scaturiscono. (Come dice il titolo del volume, la ricerca di Minna si base soprattutto sulle sentenze della Cassazione, che valutano la legittimità delle interpretazioni giurisprudenziali, e quindi la concreta utilizzabilità degli istituti).
Un analogo lavoro di scavo è svolto per quanto riguarda i soggetti dell'associazione mafiosa (come si entra; come se ne esce; la struttura organizzativa, e così via); i moduli operativi concreti (la forza intimidatrice della mafia) e soprattutto le prove processualmente utilizzabili, cioè, inevitabilmente (ma non solo), le dichiarazioni dei pentiti.
Una ricerca puntuale, analitica, di molta utilità per quanti, addetti ai lavori e cittadini interessati, vogliano o debbano affrontare, senza preconcetti, uno dei temi più aggrovigliati e insidiosi del nostro universo politico-giudiziario.
recensione di Ferraresi, F., L'Indice 1997, n. 4
L'emergenza giustizia si rivela ogni giorno come forse la più grave tra quante affliggono il nostro paese, ed è certo quella su cui maggiormente si focalizza l'attenzione della stampa e dei media. Due sono i fronti principali, la corruzione politico-amministrativa (Tangentopoli) e la criminalità organizzata (soprattutto mafia). In entrambi i casi l'oggettiva complessità tecnica della materia, la presenza di figure e istituti speciali, la possibilità di interpretazioni controverse, si intrecciano in maniera inestricabile con fortissimi interessi politici, dando vita a dispute e conflitti a calor bianco, dove l'opinione pubblica fatica a trovare solidi riferimenti, mentre i più spregiudicati frequentatori del palcoscenico massmediologico hanno agio di esibirsi nelle esternazioni più incontrollate (è di qualche giorno fa la definizione dei collaboratori di giustizia, ad opera dell'ex ministro Mancuso, oggi vicepresidente della Commissione antimafia, come di "delatori, criminali pezzolati"). E questo in una materia in cui l'assenza di demagogia, la serenità e la pacatezza di giudizio sarebbero assolutamente necessarie per giungere a decisioni responsabili.
Ben venga, quindi, un volume come questo di Rosario Minna, sostituto procuratore generale a Firenze, che si sforza di fare chiarezza in simile intrico, ricostruendo i principali istituti, strumenti e procedure attualmente in uso per combattere la mafia, e i problemi tecnico-giuridici che questi pongono. A cominciare dalla definizione medesima di mafia, tutt'altro che pacifica non solo in termini storico-sociologici, ma anche - e più importante - in termini legali.
È noto anzi che il diniego dell'esistenza medesima della mafia e, in subordine, l'impossibilità di definirla, furono molto a lungo formidabili strumenti di tutela per i mafiosi. Si va dal deputato catanese che durante la prima discussione parlamentare in materia (1875) sosteneva essere "la maffia [sic] parola che tutto dice e non dice nulla come tutte le parole che non esprimono un'idea definita (...) nessuno ha saputo dirmi che cosa ella sia", per giungere a quel sindaco palermitano che ancora pochi anni fa sosteneva di non aver mai constatato l'esistenza della mafia nella sua città e di non sapere cosa essa fosse.
Non sorprende allora che il concetto venga riconosciuto nel nostro codice penale per la prima volta con la legge n.646 del 10 settembre 1982, che introduce il famoso articolo 416 bis. Questo alla figura della "normale" associazione per delinquere (art. 416) aggiunge l'associazione di stampo mafioso, analiticamente e lungamente definita nei cinque capoversi successivi.
Si tratta di una vera e propria svolta storica nella legislazione italiana, e Minna ricostruisce quali passaggi, dal codice napoleonico che per primo ha introdotto in Italia il reato associativo, passando attraverso la legislazione albertina, poi il codice Zanardelli, infine il codice Rocco, hanno portato alla legge del 1982, e ai problemi interpretativi che ne scaturiscono. (Come dice il titolo del volume, la ricerca di Minna si base soprattutto sulle sentenze della Cassazione, che valutano la legittimità delle interpretazioni giurisprudenziali, e quindi la concreta utilizzabilità degli istituti).
Un analogo lavoro di scavo è svolto per quanto riguarda i soggetti dell'associazione mafiosa (come si entra; come se ne esce; la struttura organizzativa, e così via); i moduli operativi concreti (la forza intimidatrice della mafia) e soprattutto le prove processualmente utilizzabili, cioè, inevitabilmente (ma non solo), le dichiarazioni dei pentiti.
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