I giorni dell'ira. Il caso Moro senza censure
Edito da Adn Kronos, Roma, 1982
di Robert Katz
Libro presente nelle categorie:
Quarta di copertina
Sono usciti molti libri sul "caso" Moro, ma questo è il primo a ricostruire tutta la vicenda con una documentazione completa e con testimonianze inedite sui suoi retroscena. Robert Katz si chiede se la morte dello statista italiano potesse essere evitata senza pregiudizio per le istituzioni e la sua risposta, avvalorata da prove inoppugnabili e la sua risposta, avvalorata da prove inoppugnabili, è positiva. Soltanto l'intransigenza del PCI e della DC, ispirata a calcoli politici, che alla distanza si sono rivelati sbagliati, ha impedito la liberazione di Moro. E' un duro "j'accuse" che, provenendo da un testimone straniero, profondo conoscitore della storia italiana, assume i colori di un giudizio severo sul nostro Palazzo.
Sono usciti molti libri sul "caso" Moro, ma questo è il primo a ricostruire tutta la vicenda con una documentazione completa e con testimonianze inedite sui suoi retroscena. Robert Katz si chiede se la morte dello statista italiano potesse essere evitata senza pregiudizio per le istituzioni e la sua risposta, avvalorata da prove inoppugnabili e la sua risposta, avvalorata da prove inoppugnabili, è positiva. Soltanto l'intransigenza del PCI e della DC, ispirata a calcoli politici, che alla distanza si sono rivelati sbagliati, ha impedito la liberazione di Moro. E' un duro "j'accuse" che, provenendo da un testimone straniero, profondo conoscitore della storia italiana, assume i colori di un giudizio severo sul nostro Palazzo.
Recensione
Aldo Moro venne rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 nel corso di un'operazione di guerriglia urbana. La mattina del 9 maggio venne ucciso mentre guardava negli occhi due assassini dal sangue particolarmente freddo. Nei cinquantaquattro giorni che trascorsero tra i due avvenimenti egli venne annichilito da un gruppo di uomini di quello stesso Palazzo di cui faceva parte.
Venne annichilito nel vero senso della parola, svuotato di ogni forza, ridotto a niente, e ciò anche per mano di un governo che era una sua creatura, di un partito politico da lui stesso presieduto, dalla prima maggioranza parlamentare in Europa occidentale comprendente un partito eurocomunista, da una massa di mezzi d'informazione che fecero scempio della verità in un clima di semicensura e, infine, da un consesso sorprendentemente acritico di esponenti dell'opinione pubblica mondiale i quali furono indotti a credere che il prezzo da pagare per la libertà del prigioniero fosse un qualche Grande Principio Democratico.
Non vi furono motivi personali per distruggere così Aldo Moro. Vi erano, sì, indicazioni che potevano far pensare che i suoi rapitori lo avrebbero costretto a «parlare». A prescindere dal timore che una simile ipotesi suscitava tra i suoi colleghi politici in un paese dove troppi scandali vengono lasciati impuniti, i servizi segreti di più di uno Stato membro della Nato erano preoccupati da ciò che avrebbe potuto rivelare un uomo che era stato cinque volte Presidente del Consiglio. Ma, più importante di qualsiasi altra considerazione, quale la salvaguardia di segreti nazionali o internazionali, che ispirava i tentativi di neutralizzare la minaccia rappresentata dalla cattura di Moro, si rivelò, durante quei cinquantaquattro giorni, proprio la stessa volontà dell'uomo più potente d'Italia di non accettare il ruolo di martire.
Coloro che ebbero influenza sulle decisioni, ivi comprese quelle persone pubblicamente accusate dalla signora Moro di avere provocato con atti di omissione la morte del marito, si comportarono certamente senza malizia e nella maggior parte dei casi andarono contro i loro sentimenti più profondi. L'annullamento di Aldo Moro, il suo abbandono fisico e morale da parte di una società che volle togliergli la propria integrità, fu il prodotto di una strana coincidenza di circostanze temporali e manovre politiche. Dal momento in cui le Brigate Rosse misero le mani sull'uomo che era Aldo Moro, egli cominciò a trasformarsi nella statua che sicuramente un giorno sorgerà in una piazza romana a lui dedicata. Il potere di Moro, per quanto formidabili fossero le forze che gli erano contrarie, non fu facilmente debellato. Dalla sua cella in un'isolata e nascosta «prigione del popolo», egli condusse una battaglia complessa, articolata ed intelligente che aveva come obiettivo la propria saldezza. Riuscì ad avere dalla sua parte in questa lotta non soltanto familiari ed amici riluttanti a seguire la maggioranza (tra gli altri il Papa, due ex capi dello Stato ed il segretario generale delle Nazioni Unite), ma anche, come vedremo, un settore delle stesse Brigate Rosse.
Egli rifiutò il ruolo di martire affibbiategli dai colleghi del Palazzo. Non vi sarebbe stata gloria alcuna nel sacrificarsi in nome di quel coacervo di interessi individuali che caratterizzano la scena politica romana. Era assai più dignitoso lottare bene per la propria salvezza con quel suo metodo profondamente politico, e allorché capì che la partita era perduta — in anticipo rispetto a quelli che lottavano al suo fianco — maledisse coloro che ipocritamente piangevano la sua morte, non assolse nessuno dalle proprie responsabilità e si accomiatò da tutti con semplicità. Morì come un antieroe, come un eroe del suo tempo.
Questa è la storia della sua lotta e della sua morte. È la storia — per quanto una serie di penose verità possano somigliare ad una storia — di come un uomo di potere e la sua famiglia ebbero come Il Libro: I giorni dell'ira di Robert Katz, traduzione di Giancarlo Riccio, Roma, ADN Kronos Libri, 1982.
“Chiunque conosca e ami l’Italia, chiunque abbia meditato sulla fragilità delle democrazie moderne e si commuova per la pietà e il terrore che questa tragedia incute, vorrà leggere questo libro originale e profondamente sentito.” – Washington Post
Il Film: Il caso Moro, di Giuseppe Ferrara
con Gian Maria Volonté, tratta da I giorni dell'ira, sceneggiatura di Robert Katz, Armenia Balducci e Giuseppe Ferrara, 1986.
Il Libro sul caso del film:Il caso Moro, di Balducci, Ferrara e Katz, Napoli, Pironti Editore, 1987
E' la risposta degli autori alla controversia suscitata dal film. Contiene documenti inediti, recensioni, e il testo completo della sceneggiatura.
antagonisti la stessa coalizione politica che proprio quell'uomo aveva costituita e di come reagirono. Ciò che era cominciato come un melodramma di proporzioni grandiose — uno stupefacente colpo di mano in un'assolata strada romana — divenne in virtù di un'amara ironia una vera e propria tragedia degna della penna di un bardo.
Io non sono certo quel bardo, ma presi a interessarmi seriamente al caso dopo aver notato ripetutamente che alcuni degli aspetti della vicenda ai quali si è fatto cenno prima erano stati trascurati. Per di più, allorché tutto fu finito, il consenso nei confronti di una strategia inedita verso il terrorismo (pur se completamente errata) fu generale.
Così, quando il «Washington Post», ad esempio, lodando implicitamente questa strategia scrisse che i rapitori di Moro lo avevano deliberatamente «immerso sempre più profondamente in un abisso psicologico, dando poi notizia di questo suo decadimento progressivo mediante la pubblicazione delle sue lettere, sempre più affrante e disperate» divenne evidente quanto il quotidiano americano fosse lontano dalla verità e con quanta abilità a Roma si fosse riusciti a tenere celata questa stessa verità. Una grave ingiustizia diventava un errore storico, a livello internazionale si stabiliva un pericoloso precedente.
Ero a Roma durante i cinquantaquattro giorni del caso Moro. Non che l'essere presenti ad un fatto garantisca imparzialità nel riferirne o nel giudicarlo, anzi. La mia unica pretesa di obiettività risiede nel fatto che guardavo gli avvenimenti da vicino ma, al tempo stesso, con il distacco di uno straniero. Di solito mi occupo di avvenimenti storici o fantastici. Il giorno in cui Moro fu rapito venni a conoscenza quasi subito dell'avvenimento; mi recavo, come al solito, al mio studio in Trastevere per lavorare ad una storia ambientata nella Roma del Cinquecento. La notizia mi riportò bruscamente alla realtà. Ma allora vivevo in un diverso spazio temporale e, dopo lo shock iniziale, fui contento di immergermi nuovamente nel passato. Nel corso degli anni da me trascorsi in Italia avevo incontrato Aldo Moro in due occasioni: in entrambe le circostanze si era rafforzata in me l'impressione che egli fosse esattamente come lo aveva magistralmente interpretato Gian Maria Volonté nel film Todo Modo. In quel film il personaggio Moro, simbolo di una Democrazia Cristiana decadente, viene eliminato alla fine dagli stessi corruttori del suo partito, e cioè dalla CIA. Ero troppo immerso allora nel mio lavoro ambientato ai tempi della Controriforma per riflettere sulle molte assonanze esistenti tra Todo Modo e la realtà; e ciò forse anche perché queste assonanze trovavano esatta eco nei miei pregiudizi. In realtà, al pari di Leonardo Sciasca, autore di Todo Modo, dovevo ancora scoprire il vero Aldo Moro.
Mi resi conto, dapprima soltanto saltuariamente, che qualcosa era cambiato a Roma: ogni volta cioè, che mi rituffavo nella realtà; ma, quando le lettere di Aldo Moro cominciarono ad arrivare dalla «prigione del popolo», mi accorsi dalle reazioni degli uomini del Palazzo che un timore si era impossessato dell'Italia e che sarebbe potuto accadere qualcosa di veramente grave.
In Italia non succede nulla che non sia in qualche modo collegato alla volontà di questo o quel partito politico: quella volta ci si trovò — e fui forse l'ultimo ad accorgermene — in un frangente di fronte al quale tutte le principali forze politiche erano d'accordo. E ciò era particolarmente vero per i due superpartiti: la Democrazia Cristiana ed il più potente partito comunista dell'Occidente.
Il giorno in cui Moro venne rapito si doveva costituire un nuovo governo con una maggioranza parlamentare senza precedenti per ampiezza nella storia italiana del dopoguerra. Dopo trent'anni di ostracismo i comunisti, notevolmente rafforzati dai più recenti risultati elettorali, entravano a far parte di questa maggioranza, seppure in una posizione di appoggio esterno. E questa svolta era il risultato della raffinata strategia politica messa in atto da Moro. Egli in questo modo era divenuto il bersaglio scelto dalle Brigate Rosse che sincronizzarono la complessa operazione della sua cattura, in modo da farla scattare proprio in quella ventina di minuti che gli occorrevano per andare dalla sua abitazione a Montecitorio e dare la propria benedizione al nuovo governo.
I comunisti, che erano entrati a far parte della maggioranza impegnandosi anche a difendere la democrazia, dovettero trovare ogni mezzo per dissociarsi dall'altro comunismo, quello invocato dalle Brigate Rosse. Essi ostentavano quasi il loro nuovo ruolo di ferrei difensori dello Stato, delle sue istituzioni, dell'ordine, della legalità. I democristiani, a prescindere dai sentimenti individuali nei confronti del loro leader sequestrato, non potevano essere da meno, e così si scatenò una gara per dimostrare chi era più intransigente.
In realtà quella posizione spieiata, intransigente, che avrebbe prevalso sino a garantire (inevitabilmente, possiamo dire ora) la morte di Moro, emerse quasi subito. Godendo dell'appoggio internazionale, ed in particolare di quello statunitense e della Germania federale (per motivi, come ebbi a scoprire più tardi, che nulla avevano a che fare con l'Italia ed il caso specifico), essa lasciava scarso margine di possibilità. Sin dall'inizio le posizioni furono chiare: o si era intransigenti, oppure si era plagiati dalle Brigate Rosse. Fu bandita ogni critica alla linea ufficiale ed Aldo Moro, il critico numero uno, fu addirittura fatto passare per matto.
Giorgio Bocca, uno spirito indipendente, poco dopo la morte di Moro, scrisse: «Il 16 marzo questa facciata [di una stampa libera] è caduta e si è visto come funzionano i meccanismi dell'informazione: i partiti padroni o protettori dei giornali e della TV decidono ed i direttori eseguono. Ipocrisie, menzogne, esagerazioni, invenzioni fino a pochi giorni prima considerate come inaccettabili, vengono passate in tipografia e stampate senza il minimo accenno di protesta. I dissenzienti più che essere emarginati si defilano, gli articolisti prima di essere censuratisi censurano. La linea maggioritaria è, s'intende, quella che si ispira agli interessi dei due grandi partiti di potere, la DC e il PCI... il tono generale era pressappoco questo: "chi non è con noi è un mascalzone o un amico del nemico"».
vevo visto accadere cose simili in altri Paesi, in India e nel Bangladesh, nell'Europa orientale e nel mio stesso paese, gli Stati Uniti, al tempo della guerra nel Vietnam e durante gli anni cinquanta. Ma l'Italia dopo Mussolini mi sembrava avesse perso il gusto dell'intolleranza. Il caso attuale sembrava degno di attenzione perché per la prima volta, ma forse non per l'ultima, il terrorismo politico, nella sua espressione moderna, provocava una simile reazione. Penso, inoltre, che gli stranieri avvertano prima e meglio, per ovvi motivi, i pericoli che corre la libertà nel Paese che li ospita.
Ai primi di aprile ficcai le mie ricerche sul sedicesimo secolo in uno scatolone di cartone e mi misi ad osservare con maggiore attenzione ciò che stava succedendo. In quei giorni era difficile avere altre notizie al di fuori di quelle che la stampa pubblicava; ora la stampa, come del resto l'atmosfera in generale, era proprio come Bocca l'ha descritta. Vi era comunque l'area della controinformazione. Essa era alimentata dalla famiglia Moro che aveva necessità di comunicare ciò che la stampa rifiutava di pubblicare. Più ci si avvicinava al momento culminante della vicenda e più accessibile e migliore diventava tale controinformazione. Parlerò di tutto ciò al momento opportuno, ma soltanto quando si arrivò all'orribile finale, se non addirittura settimane dopo, allorché le tensioni, anche per coloro che più da vicino ebbero a soffrire dalla vicenda, cominciarono a calmarsi, fui in grado di distinguere veramente tra verità e fantasia.
Il mio compito fu reso più semplice per più motivi. Il primo fu il pentimento. Furono in molti ad essere improvvisamente presi dal rimorso per aver mantenuto una linea intransigente: alcuni di loro erano ora disposti a parlare. Non dissimile fu lo stato d'animo della stampa; quasi a far ammenda del proprio passato atteggiamento, molti giornali assegnarono ai loro migliori redattori il compito di ricostruire con imparzialità la storia di quei cinquantaquattro giorni.
Il secondo motivo va identificato nel pur lieve spostamento dell'asse politico verificatosi in seguito alle elezioni amministrative del maggio '78. Esso ebbe come conseguenza un inasprimento delle tensioni negli ambienti politici; trascurabile di per sé, provocò, per una sua logica interna, un flusso continuo di notizie su quasi tutti i documenti sul caso Moro sino ad allora rimasti inediti.
La mia posizione personale, infine, era in qualche modo privilegiata. Nel corso degli anni mi ero creato a Roma le mie fonti d'informazione, cosa del resto normale per uno scrittore del mio genere; più interessante era comunque il fatto che molte delle mie fonti fossero allora, e siano tuttora, in contatto con i protagonisti del caso Moro. Anzi, un ristretto numero di esse erano loro stesse protagoniste della vicenda. Di conseguenza ebbi occasione di prendere visione di molto materiale inedito e come si vedrà, di conoscere individui facenti parte di ambienti quasi ermetici.
Con ciò non voglio dire che il lettore si troverà in mano l'opera definitiva sul caso Moro: purtroppo passerà ancora del tempo prima di avere un libro simile. Molti ambienti, alcuni ristretti, altri addirittura ristrettissimi, restano chiusi.
Quest'opera intende essere uno sforzo iniziale per la revisione di alcuni dati ed informazioni che a suo tempo erano stati manipolati, che hanno esercitato un peso notevole sugli eventi, e che ancora oggi attendono di essere rivisti. Non è detto che ad errori passati io non riesca ad aggiungerne di nuovi, ma la mia opera si basa esclusivamente su fatti noti e su altri fatti da me appresi nel corso della mia ricerca. Nulla ho concesso alla mia immaginazione, ne ho dato credito alla fantasia altrui.
Al di là delle mie intenzioni, anch'io sono obbligato alla discrezione. Il caso Moro scotta. Sono ancora in ballo le fortune di molte persone, mentre non si sono ancora rimarginate tante ferite, sia spirituali che fisiche. Vi sono questioni di vita e di morte ancora aperte, nel senso più letterale dell'espressione. Il lettore si tranquillizzi, però: niente di ciò che mi è precluso di rendere pubblico altererebbe sostanzialmente questa mia inchiesta. Allo stesso lettore chiedo venia per tutte le occasioni in cui non sarò in grado di soddisfare la sua naturale curiosità riguardo ad alcuni dettagli intimi: motivi di prudenza, richiesta di anonimato e, soprattutto, un doveroso rispetto della riservatezza che la famiglia Moro si è autoimposta legittimano la mia richiesta. Per quanto riguarda le mie fonti, ho indicato la provenienza delle mie informazioni così come si fa generalmente ed entro i limiti cui ho fatto cenno sopra.
Quello che segue è il racconto di una Confusione universale che alla vittima, come ad altri, parve di proporzioni babeliche.
Robert Katz
Roma, 16 marzo 1979
Aldo Moro venne rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 nel corso di un'operazione di guerriglia urbana. La mattina del 9 maggio venne ucciso mentre guardava negli occhi due assassini dal sangue particolarmente freddo. Nei cinquantaquattro giorni che trascorsero tra i due avvenimenti egli venne annichilito da un gruppo di uomini di quello stesso Palazzo di cui faceva parte.
Venne annichilito nel vero senso della parola, svuotato di ogni forza, ridotto a niente, e ciò anche per mano di un governo che era una sua creatura, di un partito politico da lui stesso presieduto, dalla prima maggioranza parlamentare in Europa occidentale comprendente un partito eurocomunista, da una massa di mezzi d'informazione che fecero scempio della verità in un clima di semicensura e, infine, da un consesso sorprendentemente acritico di esponenti dell'opinione pubblica mondiale i quali furono indotti a credere che il prezzo da pagare per la libertà del prigioniero fosse un qualche Grande Principio Democratico.
Non vi furono motivi personali per distruggere così Aldo Moro. Vi erano, sì, indicazioni che potevano far pensare che i suoi rapitori lo avrebbero costretto a «parlare». A prescindere dal timore che una simile ipotesi suscitava tra i suoi colleghi politici in un paese dove troppi scandali vengono lasciati impuniti, i servizi segreti di più di uno Stato membro della Nato erano preoccupati da ciò che avrebbe potuto rivelare un uomo che era stato cinque volte Presidente del Consiglio. Ma, più importante di qualsiasi altra considerazione, quale la salvaguardia di segreti nazionali o internazionali, che ispirava i tentativi di neutralizzare la minaccia rappresentata dalla cattura di Moro, si rivelò, durante quei cinquantaquattro giorni, proprio la stessa volontà dell'uomo più potente d'Italia di non accettare il ruolo di martire.
Coloro che ebbero influenza sulle decisioni, ivi comprese quelle persone pubblicamente accusate dalla signora Moro di avere provocato con atti di omissione la morte del marito, si comportarono certamente senza malizia e nella maggior parte dei casi andarono contro i loro sentimenti più profondi. L'annullamento di Aldo Moro, il suo abbandono fisico e morale da parte di una società che volle togliergli la propria integrità, fu il prodotto di una strana coincidenza di circostanze temporali e manovre politiche. Dal momento in cui le Brigate Rosse misero le mani sull'uomo che era Aldo Moro, egli cominciò a trasformarsi nella statua che sicuramente un giorno sorgerà in una piazza romana a lui dedicata. Il potere di Moro, per quanto formidabili fossero le forze che gli erano contrarie, non fu facilmente debellato. Dalla sua cella in un'isolata e nascosta «prigione del popolo», egli condusse una battaglia complessa, articolata ed intelligente che aveva come obiettivo la propria saldezza. Riuscì ad avere dalla sua parte in questa lotta non soltanto familiari ed amici riluttanti a seguire la maggioranza (tra gli altri il Papa, due ex capi dello Stato ed il segretario generale delle Nazioni Unite), ma anche, come vedremo, un settore delle stesse Brigate Rosse.
Egli rifiutò il ruolo di martire affibbiategli dai colleghi del Palazzo. Non vi sarebbe stata gloria alcuna nel sacrificarsi in nome di quel coacervo di interessi individuali che caratterizzano la scena politica romana. Era assai più dignitoso lottare bene per la propria salvezza con quel suo metodo profondamente politico, e allorché capì che la partita era perduta — in anticipo rispetto a quelli che lottavano al suo fianco — maledisse coloro che ipocritamente piangevano la sua morte, non assolse nessuno dalle proprie responsabilità e si accomiatò da tutti con semplicità. Morì come un antieroe, come un eroe del suo tempo.
Questa è la storia della sua lotta e della sua morte. È la storia — per quanto una serie di penose verità possano somigliare ad una storia — di come un uomo di potere e la sua famiglia ebbero come Il Libro: I giorni dell'ira di Robert Katz, traduzione di Giancarlo Riccio, Roma, ADN Kronos Libri, 1982.
“Chiunque conosca e ami l’Italia, chiunque abbia meditato sulla fragilità delle democrazie moderne e si commuova per la pietà e il terrore che questa tragedia incute, vorrà leggere questo libro originale e profondamente sentito.” – Washington Post
Il Film: Il caso Moro, di Giuseppe Ferrara
con Gian Maria Volonté, tratta da I giorni dell'ira, sceneggiatura di Robert Katz, Armenia Balducci e Giuseppe Ferrara, 1986.
Il Libro sul caso del film:Il caso Moro, di Balducci, Ferrara e Katz, Napoli, Pironti Editore, 1987
E' la risposta degli autori alla controversia suscitata dal film. Contiene documenti inediti, recensioni, e il testo completo della sceneggiatura.
antagonisti la stessa coalizione politica che proprio quell'uomo aveva costituita e di come reagirono. Ciò che era cominciato come un melodramma di proporzioni grandiose — uno stupefacente colpo di mano in un'assolata strada romana — divenne in virtù di un'amara ironia una vera e propria tragedia degna della penna di un bardo.
Io non sono certo quel bardo, ma presi a interessarmi seriamente al caso dopo aver notato ripetutamente che alcuni degli aspetti della vicenda ai quali si è fatto cenno prima erano stati trascurati. Per di più, allorché tutto fu finito, il consenso nei confronti di una strategia inedita verso il terrorismo (pur se completamente errata) fu generale.
Così, quando il «Washington Post», ad esempio, lodando implicitamente questa strategia scrisse che i rapitori di Moro lo avevano deliberatamente «immerso sempre più profondamente in un abisso psicologico, dando poi notizia di questo suo decadimento progressivo mediante la pubblicazione delle sue lettere, sempre più affrante e disperate» divenne evidente quanto il quotidiano americano fosse lontano dalla verità e con quanta abilità a Roma si fosse riusciti a tenere celata questa stessa verità. Una grave ingiustizia diventava un errore storico, a livello internazionale si stabiliva un pericoloso precedente.
Ero a Roma durante i cinquantaquattro giorni del caso Moro. Non che l'essere presenti ad un fatto garantisca imparzialità nel riferirne o nel giudicarlo, anzi. La mia unica pretesa di obiettività risiede nel fatto che guardavo gli avvenimenti da vicino ma, al tempo stesso, con il distacco di uno straniero. Di solito mi occupo di avvenimenti storici o fantastici. Il giorno in cui Moro fu rapito venni a conoscenza quasi subito dell'avvenimento; mi recavo, come al solito, al mio studio in Trastevere per lavorare ad una storia ambientata nella Roma del Cinquecento. La notizia mi riportò bruscamente alla realtà. Ma allora vivevo in un diverso spazio temporale e, dopo lo shock iniziale, fui contento di immergermi nuovamente nel passato. Nel corso degli anni da me trascorsi in Italia avevo incontrato Aldo Moro in due occasioni: in entrambe le circostanze si era rafforzata in me l'impressione che egli fosse esattamente come lo aveva magistralmente interpretato Gian Maria Volonté nel film Todo Modo. In quel film il personaggio Moro, simbolo di una Democrazia Cristiana decadente, viene eliminato alla fine dagli stessi corruttori del suo partito, e cioè dalla CIA. Ero troppo immerso allora nel mio lavoro ambientato ai tempi della Controriforma per riflettere sulle molte assonanze esistenti tra Todo Modo e la realtà; e ciò forse anche perché queste assonanze trovavano esatta eco nei miei pregiudizi. In realtà, al pari di Leonardo Sciasca, autore di Todo Modo, dovevo ancora scoprire il vero Aldo Moro.
Mi resi conto, dapprima soltanto saltuariamente, che qualcosa era cambiato a Roma: ogni volta cioè, che mi rituffavo nella realtà; ma, quando le lettere di Aldo Moro cominciarono ad arrivare dalla «prigione del popolo», mi accorsi dalle reazioni degli uomini del Palazzo che un timore si era impossessato dell'Italia e che sarebbe potuto accadere qualcosa di veramente grave.
In Italia non succede nulla che non sia in qualche modo collegato alla volontà di questo o quel partito politico: quella volta ci si trovò — e fui forse l'ultimo ad accorgermene — in un frangente di fronte al quale tutte le principali forze politiche erano d'accordo. E ciò era particolarmente vero per i due superpartiti: la Democrazia Cristiana ed il più potente partito comunista dell'Occidente.
Il giorno in cui Moro venne rapito si doveva costituire un nuovo governo con una maggioranza parlamentare senza precedenti per ampiezza nella storia italiana del dopoguerra. Dopo trent'anni di ostracismo i comunisti, notevolmente rafforzati dai più recenti risultati elettorali, entravano a far parte di questa maggioranza, seppure in una posizione di appoggio esterno. E questa svolta era il risultato della raffinata strategia politica messa in atto da Moro. Egli in questo modo era divenuto il bersaglio scelto dalle Brigate Rosse che sincronizzarono la complessa operazione della sua cattura, in modo da farla scattare proprio in quella ventina di minuti che gli occorrevano per andare dalla sua abitazione a Montecitorio e dare la propria benedizione al nuovo governo.
I comunisti, che erano entrati a far parte della maggioranza impegnandosi anche a difendere la democrazia, dovettero trovare ogni mezzo per dissociarsi dall'altro comunismo, quello invocato dalle Brigate Rosse. Essi ostentavano quasi il loro nuovo ruolo di ferrei difensori dello Stato, delle sue istituzioni, dell'ordine, della legalità. I democristiani, a prescindere dai sentimenti individuali nei confronti del loro leader sequestrato, non potevano essere da meno, e così si scatenò una gara per dimostrare chi era più intransigente.
In realtà quella posizione spieiata, intransigente, che avrebbe prevalso sino a garantire (inevitabilmente, possiamo dire ora) la morte di Moro, emerse quasi subito. Godendo dell'appoggio internazionale, ed in particolare di quello statunitense e della Germania federale (per motivi, come ebbi a scoprire più tardi, che nulla avevano a che fare con l'Italia ed il caso specifico), essa lasciava scarso margine di possibilità. Sin dall'inizio le posizioni furono chiare: o si era intransigenti, oppure si era plagiati dalle Brigate Rosse. Fu bandita ogni critica alla linea ufficiale ed Aldo Moro, il critico numero uno, fu addirittura fatto passare per matto.
Giorgio Bocca, uno spirito indipendente, poco dopo la morte di Moro, scrisse: «Il 16 marzo questa facciata [di una stampa libera] è caduta e si è visto come funzionano i meccanismi dell'informazione: i partiti padroni o protettori dei giornali e della TV decidono ed i direttori eseguono. Ipocrisie, menzogne, esagerazioni, invenzioni fino a pochi giorni prima considerate come inaccettabili, vengono passate in tipografia e stampate senza il minimo accenno di protesta. I dissenzienti più che essere emarginati si defilano, gli articolisti prima di essere censuratisi censurano. La linea maggioritaria è, s'intende, quella che si ispira agli interessi dei due grandi partiti di potere, la DC e il PCI... il tono generale era pressappoco questo: "chi non è con noi è un mascalzone o un amico del nemico"».
vevo visto accadere cose simili in altri Paesi, in India e nel Bangladesh, nell'Europa orientale e nel mio stesso paese, gli Stati Uniti, al tempo della guerra nel Vietnam e durante gli anni cinquanta. Ma l'Italia dopo Mussolini mi sembrava avesse perso il gusto dell'intolleranza. Il caso attuale sembrava degno di attenzione perché per la prima volta, ma forse non per l'ultima, il terrorismo politico, nella sua espressione moderna, provocava una simile reazione. Penso, inoltre, che gli stranieri avvertano prima e meglio, per ovvi motivi, i pericoli che corre la libertà nel Paese che li ospita.
Ai primi di aprile ficcai le mie ricerche sul sedicesimo secolo in uno scatolone di cartone e mi misi ad osservare con maggiore attenzione ciò che stava succedendo. In quei giorni era difficile avere altre notizie al di fuori di quelle che la stampa pubblicava; ora la stampa, come del resto l'atmosfera in generale, era proprio come Bocca l'ha descritta. Vi era comunque l'area della controinformazione. Essa era alimentata dalla famiglia Moro che aveva necessità di comunicare ciò che la stampa rifiutava di pubblicare. Più ci si avvicinava al momento culminante della vicenda e più accessibile e migliore diventava tale controinformazione. Parlerò di tutto ciò al momento opportuno, ma soltanto quando si arrivò all'orribile finale, se non addirittura settimane dopo, allorché le tensioni, anche per coloro che più da vicino ebbero a soffrire dalla vicenda, cominciarono a calmarsi, fui in grado di distinguere veramente tra verità e fantasia.
Il mio compito fu reso più semplice per più motivi. Il primo fu il pentimento. Furono in molti ad essere improvvisamente presi dal rimorso per aver mantenuto una linea intransigente: alcuni di loro erano ora disposti a parlare. Non dissimile fu lo stato d'animo della stampa; quasi a far ammenda del proprio passato atteggiamento, molti giornali assegnarono ai loro migliori redattori il compito di ricostruire con imparzialità la storia di quei cinquantaquattro giorni.
Il secondo motivo va identificato nel pur lieve spostamento dell'asse politico verificatosi in seguito alle elezioni amministrative del maggio '78. Esso ebbe come conseguenza un inasprimento delle tensioni negli ambienti politici; trascurabile di per sé, provocò, per una sua logica interna, un flusso continuo di notizie su quasi tutti i documenti sul caso Moro sino ad allora rimasti inediti.
La mia posizione personale, infine, era in qualche modo privilegiata. Nel corso degli anni mi ero creato a Roma le mie fonti d'informazione, cosa del resto normale per uno scrittore del mio genere; più interessante era comunque il fatto che molte delle mie fonti fossero allora, e siano tuttora, in contatto con i protagonisti del caso Moro. Anzi, un ristretto numero di esse erano loro stesse protagoniste della vicenda. Di conseguenza ebbi occasione di prendere visione di molto materiale inedito e come si vedrà, di conoscere individui facenti parte di ambienti quasi ermetici.
Con ciò non voglio dire che il lettore si troverà in mano l'opera definitiva sul caso Moro: purtroppo passerà ancora del tempo prima di avere un libro simile. Molti ambienti, alcuni ristretti, altri addirittura ristrettissimi, restano chiusi.
Quest'opera intende essere uno sforzo iniziale per la revisione di alcuni dati ed informazioni che a suo tempo erano stati manipolati, che hanno esercitato un peso notevole sugli eventi, e che ancora oggi attendono di essere rivisti. Non è detto che ad errori passati io non riesca ad aggiungerne di nuovi, ma la mia opera si basa esclusivamente su fatti noti e su altri fatti da me appresi nel corso della mia ricerca. Nulla ho concesso alla mia immaginazione, ne ho dato credito alla fantasia altrui.
Al di là delle mie intenzioni, anch'io sono obbligato alla discrezione. Il caso Moro scotta. Sono ancora in ballo le fortune di molte persone, mentre non si sono ancora rimarginate tante ferite, sia spirituali che fisiche. Vi sono questioni di vita e di morte ancora aperte, nel senso più letterale dell'espressione. Il lettore si tranquillizzi, però: niente di ciò che mi è precluso di rendere pubblico altererebbe sostanzialmente questa mia inchiesta. Allo stesso lettore chiedo venia per tutte le occasioni in cui non sarò in grado di soddisfare la sua naturale curiosità riguardo ad alcuni dettagli intimi: motivi di prudenza, richiesta di anonimato e, soprattutto, un doveroso rispetto della riservatezza che la famiglia Moro si è autoimposta legittimano la mia richiesta. Per quanto riguarda le mie fonti, ho indicato la provenienza delle mie informazioni così come si fa generalmente ed entro i limiti cui ho fatto cenno sopra.
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Robert Katz
Roma, 16 marzo 1979
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