Memorie. Dalla clandestinità un terrorista non pentito si racconta
Edito da Savelli, 1981
156 pagine
ISBN 00819040
di . Giorgio
Libro presente nelle categorie:
Recensione
Questo è un libro un po’ particolare. Uno sguardo sullo lotta armata lanciato non dallo storico di turno, né dal diretto protagonista che – a distanza di anni, più o meno pentitosi, più o meno dissociatosi – decide di ripercorrere la propria esperienza di “terrorista”. Niente di tutto questo. D’altronde, titolo e sottotitolo dicono tutto: trattasi di un racconto, risalente all’ormai lontanissimo 1981, di un giovane, Giorgio, che all’epoca stava facendo la lotta armata e che decide di inviare alla casa editrice Savelli il suo manoscritto rispondendo a un appello comparso nell’ultimo volume (La ragazza di via Millelire) della collana Il pane e le rose con il quale la curatrice Annamaria Caredio invitava tutti gli aspiranti scrittori a inviare il proprio dattiloscritto alla redazione.
Giorgio manda queste pagine, accompagnate da poche righe di presentazione, sufficienti comunque a indicare il motivo della sua decisione: mi sembra infatti - dice Giorgio - che nella marea di disinformazione, falsità, idiozie che circonda il mondo della lotta armata e i suoi militanti, questa possa essere quantomeno una testimonianza, di prima mano, di quanto le cose siano diverse.
E la ragione per cui, a nostro parere, vale la pena leggere questo libro sta proprio in queste righe e nella motivazione che contengono.
Il racconto di Giorgio (premessa: ne diamo per scontata l’attendibilità e l’autenticità) può essere utile per capire alcuni passaggi chiave che indussero molti dei giovani della cosiddetta generazione del ’77 a imboccare la strada della lotta armata, con tutto il carico di rabbia, delusione, frustrazione che accompagnò molti (non tutti) in questa scelta. Nelle prime pagine del libro Giorgio racconta le sue prime azioni da “autonomo”, i primi espropri proletari all’insegna sì del pane, ma anche delle rose che nell’episodio narrato assumono le sembianze di un prezioso paio di jeans Levi’s. L’esproprio proletario come prima, primissima forma di radicalizzazione del comportamento quotidiano, a cui segue l’intento di “alzare il tiro”, perché nella nostra testa questo voleva dire andare avanti, continuare, radicalizzarsi […] Voleva dire impugnare pistole vere. E lo facemmo molto presto. Seguono le manifestazioni a cui si va con le pistole nella cintura, la polizia che spara ad altezza d’uomo, gli autonomi che rispondono, passamontagna in testa, ginocchia piegate, entrambe le mani a reggere il calcio dell’arma. Segue l’attività di armamento, che consiste nell’assaltare i depositi, le armerie o, più “semplicemente”, nel disarmare la guardia giurata di turno, un giochetto da ragazzi. Segue poi la domanda fatidica, quella che a un certo punto ti pone uno che conosci, uno che vedi nei circoli e nei cortei. Uno che sa che a te interessa un certo discorso e allora ti prende in disparte e ti chiede: Sei disposto a entrare subito nella nostra organizzazione?
Poi viene il lento, graduale passaggio alla clandestinità e i primi compiti come membro organico dell’organizzazione. La vita da clandestino, da grigio travet della lotta armata, la rinuncia agli affetti, l’isolamento dal mondo di prima, la solitudine.
Il tutto raccontato nell’unico modo possibile, ed è questo l’altro motivo per cui vale la pena leggere il libro in questione. Non c’è un filo di retorica in queste pagine, nessun autocompiacimento, nessuna autocommiserazione, nessuna apologia, nessun intento propagandistico. Giorgio racconta la sua storia come meglio non potrebbe fare, fornendo una testimonianza preziosa, priva di qualsiasi intento pedagogico, ricca al contrario di spunti di riflessione sul salto generazionale verificatosi nella seconda metà degli anni Settanta, capace di modificare i tratti genetici della lotta armata rispetto a quelli delle origini (vedi le considerazioni di Giorgio a proposito delle differenze tra la sua generazione e quella precedente in merito al tema della centralità della classe operaia, della fabbrica, nei destini della lotta armata).
Da leggere, quindi. A patto che chi decide di farlo si sia prima svuotato di pregiudizi e diffidenze, e sia mosso alla lettura di queste Memorie solo dal desiderio di capire, senza troppi inutili moralismi.
(BrigateRosse.org)
Questo è un libro un po’ particolare. Uno sguardo sullo lotta armata lanciato non dallo storico di turno, né dal diretto protagonista che – a distanza di anni, più o meno pentitosi, più o meno dissociatosi – decide di ripercorrere la propria esperienza di “terrorista”. Niente di tutto questo. D’altronde, titolo e sottotitolo dicono tutto: trattasi di un racconto, risalente all’ormai lontanissimo 1981, di un giovane, Giorgio, che all’epoca stava facendo la lotta armata e che decide di inviare alla casa editrice Savelli il suo manoscritto rispondendo a un appello comparso nell’ultimo volume (La ragazza di via Millelire) della collana Il pane e le rose con il quale la curatrice Annamaria Caredio invitava tutti gli aspiranti scrittori a inviare il proprio dattiloscritto alla redazione.
Giorgio manda queste pagine, accompagnate da poche righe di presentazione, sufficienti comunque a indicare il motivo della sua decisione: mi sembra infatti - dice Giorgio - che nella marea di disinformazione, falsità, idiozie che circonda il mondo della lotta armata e i suoi militanti, questa possa essere quantomeno una testimonianza, di prima mano, di quanto le cose siano diverse.
E la ragione per cui, a nostro parere, vale la pena leggere questo libro sta proprio in queste righe e nella motivazione che contengono.
Il racconto di Giorgio (premessa: ne diamo per scontata l’attendibilità e l’autenticità) può essere utile per capire alcuni passaggi chiave che indussero molti dei giovani della cosiddetta generazione del ’77 a imboccare la strada della lotta armata, con tutto il carico di rabbia, delusione, frustrazione che accompagnò molti (non tutti) in questa scelta. Nelle prime pagine del libro Giorgio racconta le sue prime azioni da “autonomo”, i primi espropri proletari all’insegna sì del pane, ma anche delle rose che nell’episodio narrato assumono le sembianze di un prezioso paio di jeans Levi’s. L’esproprio proletario come prima, primissima forma di radicalizzazione del comportamento quotidiano, a cui segue l’intento di “alzare il tiro”, perché nella nostra testa questo voleva dire andare avanti, continuare, radicalizzarsi […] Voleva dire impugnare pistole vere. E lo facemmo molto presto. Seguono le manifestazioni a cui si va con le pistole nella cintura, la polizia che spara ad altezza d’uomo, gli autonomi che rispondono, passamontagna in testa, ginocchia piegate, entrambe le mani a reggere il calcio dell’arma. Segue l’attività di armamento, che consiste nell’assaltare i depositi, le armerie o, più “semplicemente”, nel disarmare la guardia giurata di turno, un giochetto da ragazzi. Segue poi la domanda fatidica, quella che a un certo punto ti pone uno che conosci, uno che vedi nei circoli e nei cortei. Uno che sa che a te interessa un certo discorso e allora ti prende in disparte e ti chiede: Sei disposto a entrare subito nella nostra organizzazione?
Poi viene il lento, graduale passaggio alla clandestinità e i primi compiti come membro organico dell’organizzazione. La vita da clandestino, da grigio travet della lotta armata, la rinuncia agli affetti, l’isolamento dal mondo di prima, la solitudine.
Il tutto raccontato nell’unico modo possibile, ed è questo l’altro motivo per cui vale la pena leggere il libro in questione. Non c’è un filo di retorica in queste pagine, nessun autocompiacimento, nessuna autocommiserazione, nessuna apologia, nessun intento propagandistico. Giorgio racconta la sua storia come meglio non potrebbe fare, fornendo una testimonianza preziosa, priva di qualsiasi intento pedagogico, ricca al contrario di spunti di riflessione sul salto generazionale verificatosi nella seconda metà degli anni Settanta, capace di modificare i tratti genetici della lotta armata rispetto a quelli delle origini (vedi le considerazioni di Giorgio a proposito delle differenze tra la sua generazione e quella precedente in merito al tema della centralità della classe operaia, della fabbrica, nei destini della lotta armata).
Da leggere, quindi. A patto che chi decide di farlo si sia prima svuotato di pregiudizi e diffidenze, e sia mosso alla lettura di queste Memorie solo dal desiderio di capire, senza troppi inutili moralismi.
(BrigateRosse.org)