Guerra alla città
Edito da Adea, 1967
194 pagine
di Carlo Moriondo
Libro presente nelle categorie:
Recensione
o la presunzione di credere che ben pochi, tra i giovani appartenenti alla mia generazione - quelli, per intendersi, nati a ridosso del rapimento e della morte di Aldo Moro - abbiano una qualche idea di chi fossero Pietro Cavallero e la sua "Anonima rapinatori". Eppure, intorno alla metà degli anni '60 le cronache nazionali non facevano altro che parlare delle "imprese" criminali del misterioso gruppo di svaligiatori di banche il quale agiva periodicamente tra Milano e Torino, seminando il terrore (e talvolta anche la morte) tra i clienti e gli avventori degli istituti bancari compresi in questo ricco lembo del territorio italiano.
Ma chi erano realmente Pietro Cavallero e Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto e Danilo Crepaldi? A questa domanda prova a rispondere il giornalista Carlo Moriondo, in un testo edito nel 1967 (a pochi mesi dalla cattura dei componenti della banda), con prefazione di Carlo Casalegno (il vicedirettore de "La Stampa" ucciso un decennio più tardi dalle BR). Non si tratta di uno sforzo editoriale particolarmente apprezzabile, giacché risponde ad una logica principalmente cronicistica; tuttavia, quanto meno il libro di Moriondo ha il merito di rappresentare ad oggi praticamente la sola testimonianza editoriale delle iniziative messe a segno dalla Banda Cavallero tra il 1963 ed il 1967.
Vicende che, a ben vedere, qualcosa a che fare con la lotta armata di sinistra, ce l'hanno; innanzitutto, Cavallero era stato nei primissimi anni '60 un militante della FGCI, poi espulso dal partito per motivi non chiarissimi. In secondo luogo, Danilo Crepaldi, fornitore delle armi al gruppo di banditi, era stato venti anni prima un valente partigiano, che aveva combattuto nei monti della Val d'Aosta distinguendosi per la sua abilità e per la sua devozione alla causa della libertà e del progresso. In terzo luogo, Sante Notarnicola, "numero due" della banda, ha approfondito nei lunghi anni di carcere la propria coscienza "di classe" mantenendo a lungo lo "status" di prigioniero politico, nel periodo dell'esplosione della sovversione comunista. I saluti a pugno chiuso alla Corte giudicante e gli ammiccamenti ai gruppi dell'estrema sinistra che andavano formandosi a partire da quei tardi anni '60, fecero di Notarnicola e di Cavallero delle icone per l'immaginario collettivo di molti giovani aspiranti "rivoluzionari".
Certo, i bottini delle rapine venivano spesso dissipati tra donne, gioco d'azzardo ed affari andati a rotoli; tuttavia, alcuni tra i giovani nati e cresciuti nei sobborghi operai del triangolo industriale o emigrati da un Mezzogiorno sempre più restio nel fornire ai propri figli l'opportunità di una vita e di un lavoro "normali", videro nelle azioni criminose dell'Anonima Rapinatori un'ipotesi di riscatto, una sfida ad uno Stato che, dopo la fragile illusione della ripresa economica, chiedeva agli strati più deboli il conto più salato da pagare - attraverso quella che il PCI chiamerà poi la "politica dei sacrifici" - per rispondere alla crisi economica.
Ed é proprio quel desiderio di riscatto sociale, unito alle suggestioni di una "nuova Resistenza" (del resto, il mito della resistenza é concretamente presente nelle rapine compiute dal gruppo di Cavallero, giacché le armi fornite da Crepaldi sono quasi tutte residui bellici già appartenuti alle brigate partigiane) ed al radicalizzarsi della politica di repressione antioperaia da parte dello Stato (sostanziatasi nei tentativi di riforma neogollista favoriti dalle bombe della "strategia della tensione"), a costituire per alcune delle giovani avanguardie rivoluzionarie dell'Italia settentrionale dei primissimi anni '70 uno degli elementi determinanti per la nascita dei primi nuclei armati comunisti.
Ecco perché, al di là delle biografie personali, é importante andare a cercare le ragioni sociali che hanno indotto giovani come Cavallero ad imbracciare le armi contro le banche, simbolo di una ricchezza e di una opulenza sempre più "virtuali" per milioni di lavoratori; perché quel desiderio di riscatto é lo stesso comune denominatore sul quale si forgeranno anche le "imprese" delle Brigate Rosse.
Roberto De Rossi
(BrigateRosse.org)
o la presunzione di credere che ben pochi, tra i giovani appartenenti alla mia generazione - quelli, per intendersi, nati a ridosso del rapimento e della morte di Aldo Moro - abbiano una qualche idea di chi fossero Pietro Cavallero e la sua "Anonima rapinatori". Eppure, intorno alla metà degli anni '60 le cronache nazionali non facevano altro che parlare delle "imprese" criminali del misterioso gruppo di svaligiatori di banche il quale agiva periodicamente tra Milano e Torino, seminando il terrore (e talvolta anche la morte) tra i clienti e gli avventori degli istituti bancari compresi in questo ricco lembo del territorio italiano.
Ma chi erano realmente Pietro Cavallero e Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto e Danilo Crepaldi? A questa domanda prova a rispondere il giornalista Carlo Moriondo, in un testo edito nel 1967 (a pochi mesi dalla cattura dei componenti della banda), con prefazione di Carlo Casalegno (il vicedirettore de "La Stampa" ucciso un decennio più tardi dalle BR). Non si tratta di uno sforzo editoriale particolarmente apprezzabile, giacché risponde ad una logica principalmente cronicistica; tuttavia, quanto meno il libro di Moriondo ha il merito di rappresentare ad oggi praticamente la sola testimonianza editoriale delle iniziative messe a segno dalla Banda Cavallero tra il 1963 ed il 1967.
Vicende che, a ben vedere, qualcosa a che fare con la lotta armata di sinistra, ce l'hanno; innanzitutto, Cavallero era stato nei primissimi anni '60 un militante della FGCI, poi espulso dal partito per motivi non chiarissimi. In secondo luogo, Danilo Crepaldi, fornitore delle armi al gruppo di banditi, era stato venti anni prima un valente partigiano, che aveva combattuto nei monti della Val d'Aosta distinguendosi per la sua abilità e per la sua devozione alla causa della libertà e del progresso. In terzo luogo, Sante Notarnicola, "numero due" della banda, ha approfondito nei lunghi anni di carcere la propria coscienza "di classe" mantenendo a lungo lo "status" di prigioniero politico, nel periodo dell'esplosione della sovversione comunista. I saluti a pugno chiuso alla Corte giudicante e gli ammiccamenti ai gruppi dell'estrema sinistra che andavano formandosi a partire da quei tardi anni '60, fecero di Notarnicola e di Cavallero delle icone per l'immaginario collettivo di molti giovani aspiranti "rivoluzionari".
Certo, i bottini delle rapine venivano spesso dissipati tra donne, gioco d'azzardo ed affari andati a rotoli; tuttavia, alcuni tra i giovani nati e cresciuti nei sobborghi operai del triangolo industriale o emigrati da un Mezzogiorno sempre più restio nel fornire ai propri figli l'opportunità di una vita e di un lavoro "normali", videro nelle azioni criminose dell'Anonima Rapinatori un'ipotesi di riscatto, una sfida ad uno Stato che, dopo la fragile illusione della ripresa economica, chiedeva agli strati più deboli il conto più salato da pagare - attraverso quella che il PCI chiamerà poi la "politica dei sacrifici" - per rispondere alla crisi economica.
Ed é proprio quel desiderio di riscatto sociale, unito alle suggestioni di una "nuova Resistenza" (del resto, il mito della resistenza é concretamente presente nelle rapine compiute dal gruppo di Cavallero, giacché le armi fornite da Crepaldi sono quasi tutte residui bellici già appartenuti alle brigate partigiane) ed al radicalizzarsi della politica di repressione antioperaia da parte dello Stato (sostanziatasi nei tentativi di riforma neogollista favoriti dalle bombe della "strategia della tensione"), a costituire per alcune delle giovani avanguardie rivoluzionarie dell'Italia settentrionale dei primissimi anni '70 uno degli elementi determinanti per la nascita dei primi nuclei armati comunisti.
Ecco perché, al di là delle biografie personali, é importante andare a cercare le ragioni sociali che hanno indotto giovani come Cavallero ad imbracciare le armi contro le banche, simbolo di una ricchezza e di una opulenza sempre più "virtuali" per milioni di lavoratori; perché quel desiderio di riscatto é lo stesso comune denominatore sul quale si forgeranno anche le "imprese" delle Brigate Rosse.
Roberto De Rossi
(BrigateRosse.org)
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