Da La Stampa del 04/04/2006
De Mauro, processo ai misteri di Cosa Nostra e dell’Italia nera
Ha preso il via questa mattina in Corte d'assise a Palermo, il processo per l'omicidio del giornalista Mauro De Mauro del quotidiano "L'Ora", scomparso il 16 settembre del 1970. L'unico imputato è Totò Riina accusato di essere il mandante del sequestro e dell'uccisione del cronista, il cui corpo non è stato mai ritrovato.
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PALERMO. Trentasei anni per poter imbastire una trama che reggesse un processo. Un tempo insopportabilmente lungo per cercare di scrivere la storia della scomparsa e della morte del giornalista Mauro De Mauro, rapito sotto casa - a Palermo - la sera del 16 settembre 1970. Faceva caldo a viale delle Magnolie, il vento caldo di scirocco flagellava ogni forma di vita palermitana. Il cronista, firma di punta del giornale del pomeriggio L’Ora, lascia il giornale intorno alle 8 di sera. Fa una puntata dal barbiere ma non si ferma perchè c’è da attendere il turno. Compra una bottiglia di vino, le sigarette ed arriva a viale delle Magnolie con la sua Bmw blu notte. Ci sono tre uomini ad attenderlo: parlottano, salgono in macchina con lui. Mentre vanno si sente una voce risoluta che ordina: «Amuninni», andiamo. La sente nitidamente, Franca, la figlia maggiore di Mauro, che fa in tempo a scorgere con la coda dell’occhio la Bmw mentre lascia il parcheggio. Starà tornando, pensa Franca raggiungendo il fidanzato che l’attende in ascensore. Poi salgono a casa, sono nel pieno dei preparativi per il matrimonio che si svolgerà ad ore. E invece Mauro non tornerà, non tornerà più.
Decenni di silenzio, malgrado gli articoli, le denunce, le invocazioni di aiuto del suo giornale e del direttore, Vittorio Nisticò, hanno coperto il «giallo De Mauro». Mille indizi si sono periodicamente frantumati contro il muro degli accertamenti. Il giornalista aveva ricevuto un incarico dal regista Francesco Rosi (che si apprestava a realizzare il film sul «Caso Mattei»): ricostruire le ultime ore del presidente dell’Eni, vittima di un «incidente» aereo alle porte di Pavia. Un incidente (a molti sembrato un attentato) troppo frettolosamente archiviato come tale. Quasi automatico, dunque, l’accostamento tra il «Caso Mattei» e la scomparsa di Mauro De Mauro.
Una strada senza uscita, le indagini. Caso archiviato, sentenza di morte presunta per il giornalista che, tuttavia, è rimasto sempre il protagonista del primo vero «mistero italiano» dopo Portella delle Ginestre. E sarebbe rimasto sepolto se non fosse intervenuto il lavoro, discreto e silenzioso, del sostituto procuratore di Pavia, Enzo Calìa. Sono state quelle indagini lontane da Palermo ad aver riacceso il motore dell’inchiesta. Calìa dimostra che l’incidente di Bascapè è un attentato, raccoglie nuove testimonianze su De Mauro e le trasmette a Palermo dove vengono raccolte e sviluppate dal pm Antonino Ingroia. Questo l’antefatto del processo che inizia questa mattina in corte d’Assise.
Unico imputato Totò Riina, il capo della «cupola» mafiosa che era già capo nel 1970 (vice di Luciano Liggio), insieme con Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade, il primo morto in carcere negli Usa, l’altro assassinato all’inizio della guerra di mafia degli Ottanta. In questa aula si rivivrà il film dell’Italia nera, la stagione dei misteri. Sfileranno testimoni eccellenti: molti giornalsiti, il generale Mori, il maestro Francesco Rosi, il senatore Macaluso, l’ex direttore dell’Ora, Vittorio Nisticò, poliziotti e carabinieri ormai segnati dal tempo. Altri verranno evocati: Boris Giuliano, il colonnello Russo, il generale dalla Chiesa, il procuratore Pietro Scaglione. Davanti a questi «moloch» si misurerà Totò Riina, deciso a dar battaglia e persino a provocare, se sarà necessario, dato che dice di essere «stanco di fare il parafulmine a tutti i misteri di Stato».
E’ un buco nero, la storia di De Mauro. Lo dimostra la relazione firmata dal professor Aldo Giannuli, incaricato dalla Procura di ricostruire il «contesto» storico e politico di quel periodo. Novanta pagine che percorrono siti scivolosi: la strategia della tensione, il golpe Borghese, i successivi tentativi di colpi di Stato, l’attentato ad Enrico Mattei, il ruolo non sempre limpido dei servizi di sicurezza. Già, perchè il delitto De Mauro è storia di mafia ma è anche cerniera che nasconde orribili coabitazioni. Se fosse accertata la ricostruzione che arriva da otto collaboratori di giustizia e decine di testimoni, bisognerebbe concludere che la triste sorte del cronista è stata determinata dalla singolare coincidenza che lo ha visto mettere le mani sul «Caso Mattei» (andò a chiedere notizie in ambienti pericolosi) mentre apprendeva «in presa diretta» che si preparava un colpo di Stato: quel golpe, ideato dal principe Junio Valerio Borghese, che passerà alla storia come la «notte di Tora-Tora» (7/8 dicembre 1970).
Ma perché De Mauro? La ricostruzione del passato del giornalista apre squarci inquietanti. Era stato nella «X Mas» di Borghese ed aveva frequentato ambienti dei reduci di Salò. Documenti trovati di recente negli archivi dimostrerebbero una particolare affezione del giornalista ai nostalgici, anche dopo l’intervento degli americani e fino agli Anni Cinquanta, almeno fino all’arrivo nella redazione dell’Ora. Oggi un pentito, Francesco Di Carlo, completa quanto avevano detto altri, da Buscetta a Nino Calderone, sull’intreccio tra mafia e fascisti e sulla vocazione golpista di Cosa nostra interessata, come sempre, a risolvere i propri problemi giudiziari che allora erano gli ergastoli per i Rimi di Alcamo.
Dice Di Carlo che De Mauro frequentava il Circolo della Stampa, gli stessi tavoli verdi dove si sedeva il mafioso Emanuele D’Agostino. A lui il cronista avrebbe potuto chiedere «chiarimenti» sulla futura alleanza col «principe». I mafiosi «riferirono a Roma e tornarono con l’ordine di eliminare il pericolo». Ma non prima di aver interrogato Mauro. Per questo venne preso vivo e non ucciso senza tanti preamboli. E la ricerca su Mattei? Un elemento in più per giustificarne la soppressione. Dice Di Carlo che andarono a prenderlo D’Agostino (serviva a rassicurare De Mauro), Stefano Giaconia e Bernardo Provenzano. De Mauro fu portato in un giardino alle porte di Palermo. Dopo l’interrogatorio fu ucciso e sepolto, non prima di averlo cosparso di reagenti chimici. Tutti i protagonisti del rapimento sono morti, tranne Riina e Provenzano. Ma per «don Binnu» c’è solo la dichiarazione di un pentito: non basta in corte d’Assise. Riina, invece, viene tirato dentro da più testimonianze che lo indicano come «vertice» della Cosa nostra di quel periodo. Per questo sta nella gabbia degli imputati e per questo è arrabbiato.
Decenni di silenzio, malgrado gli articoli, le denunce, le invocazioni di aiuto del suo giornale e del direttore, Vittorio Nisticò, hanno coperto il «giallo De Mauro». Mille indizi si sono periodicamente frantumati contro il muro degli accertamenti. Il giornalista aveva ricevuto un incarico dal regista Francesco Rosi (che si apprestava a realizzare il film sul «Caso Mattei»): ricostruire le ultime ore del presidente dell’Eni, vittima di un «incidente» aereo alle porte di Pavia. Un incidente (a molti sembrato un attentato) troppo frettolosamente archiviato come tale. Quasi automatico, dunque, l’accostamento tra il «Caso Mattei» e la scomparsa di Mauro De Mauro.
Una strada senza uscita, le indagini. Caso archiviato, sentenza di morte presunta per il giornalista che, tuttavia, è rimasto sempre il protagonista del primo vero «mistero italiano» dopo Portella delle Ginestre. E sarebbe rimasto sepolto se non fosse intervenuto il lavoro, discreto e silenzioso, del sostituto procuratore di Pavia, Enzo Calìa. Sono state quelle indagini lontane da Palermo ad aver riacceso il motore dell’inchiesta. Calìa dimostra che l’incidente di Bascapè è un attentato, raccoglie nuove testimonianze su De Mauro e le trasmette a Palermo dove vengono raccolte e sviluppate dal pm Antonino Ingroia. Questo l’antefatto del processo che inizia questa mattina in corte d’Assise.
Unico imputato Totò Riina, il capo della «cupola» mafiosa che era già capo nel 1970 (vice di Luciano Liggio), insieme con Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade, il primo morto in carcere negli Usa, l’altro assassinato all’inizio della guerra di mafia degli Ottanta. In questa aula si rivivrà il film dell’Italia nera, la stagione dei misteri. Sfileranno testimoni eccellenti: molti giornalsiti, il generale Mori, il maestro Francesco Rosi, il senatore Macaluso, l’ex direttore dell’Ora, Vittorio Nisticò, poliziotti e carabinieri ormai segnati dal tempo. Altri verranno evocati: Boris Giuliano, il colonnello Russo, il generale dalla Chiesa, il procuratore Pietro Scaglione. Davanti a questi «moloch» si misurerà Totò Riina, deciso a dar battaglia e persino a provocare, se sarà necessario, dato che dice di essere «stanco di fare il parafulmine a tutti i misteri di Stato».
E’ un buco nero, la storia di De Mauro. Lo dimostra la relazione firmata dal professor Aldo Giannuli, incaricato dalla Procura di ricostruire il «contesto» storico e politico di quel periodo. Novanta pagine che percorrono siti scivolosi: la strategia della tensione, il golpe Borghese, i successivi tentativi di colpi di Stato, l’attentato ad Enrico Mattei, il ruolo non sempre limpido dei servizi di sicurezza. Già, perchè il delitto De Mauro è storia di mafia ma è anche cerniera che nasconde orribili coabitazioni. Se fosse accertata la ricostruzione che arriva da otto collaboratori di giustizia e decine di testimoni, bisognerebbe concludere che la triste sorte del cronista è stata determinata dalla singolare coincidenza che lo ha visto mettere le mani sul «Caso Mattei» (andò a chiedere notizie in ambienti pericolosi) mentre apprendeva «in presa diretta» che si preparava un colpo di Stato: quel golpe, ideato dal principe Junio Valerio Borghese, che passerà alla storia come la «notte di Tora-Tora» (7/8 dicembre 1970).
Ma perché De Mauro? La ricostruzione del passato del giornalista apre squarci inquietanti. Era stato nella «X Mas» di Borghese ed aveva frequentato ambienti dei reduci di Salò. Documenti trovati di recente negli archivi dimostrerebbero una particolare affezione del giornalista ai nostalgici, anche dopo l’intervento degli americani e fino agli Anni Cinquanta, almeno fino all’arrivo nella redazione dell’Ora. Oggi un pentito, Francesco Di Carlo, completa quanto avevano detto altri, da Buscetta a Nino Calderone, sull’intreccio tra mafia e fascisti e sulla vocazione golpista di Cosa nostra interessata, come sempre, a risolvere i propri problemi giudiziari che allora erano gli ergastoli per i Rimi di Alcamo.
Dice Di Carlo che De Mauro frequentava il Circolo della Stampa, gli stessi tavoli verdi dove si sedeva il mafioso Emanuele D’Agostino. A lui il cronista avrebbe potuto chiedere «chiarimenti» sulla futura alleanza col «principe». I mafiosi «riferirono a Roma e tornarono con l’ordine di eliminare il pericolo». Ma non prima di aver interrogato Mauro. Per questo venne preso vivo e non ucciso senza tanti preamboli. E la ricerca su Mattei? Un elemento in più per giustificarne la soppressione. Dice Di Carlo che andarono a prenderlo D’Agostino (serviva a rassicurare De Mauro), Stefano Giaconia e Bernardo Provenzano. De Mauro fu portato in un giardino alle porte di Palermo. Dopo l’interrogatorio fu ucciso e sepolto, non prima di averlo cosparso di reagenti chimici. Tutti i protagonisti del rapimento sono morti, tranne Riina e Provenzano. Ma per «don Binnu» c’è solo la dichiarazione di un pentito: non basta in corte d’Assise. Riina, invece, viene tirato dentro da più testimonianze che lo indicano come «vertice» della Cosa nostra di quel periodo. Per questo sta nella gabbia degli imputati e per questo è arrabbiato.
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