Da Gazzetta del Mezzogiorno del 09/04/2005
Mafia - Boss rinnega sorella «pentita»
PALERMO - Il boss mafioso Leonardo Vitale ha platealmente «rinnegato» in aula sua sorella Giusy, che dalla metà di febbraio collabora con la giustizia, svelando i segreti della cosca di Partinico da lei guidata dopo l’arresto dei fratelli. L’anatema di Leonardo Vitale contro la sorella è stato lanciato attraverso il collegamento in videoconferenza con la Corte di Assise di Palermo, durante il processo per l’omicidio di un commerciante, Salvatore Riina (soltanto omonimo del capomafia corleonese).
«Ho saputo che una mia ex consanguinea - ha detto il boss - sta collaborando. Noi la rinneghiamo sia da viva che da morta e speriamo che lo sia al più presto». Leonardo Vitale è detenuto nella casa circondariale di Parma.
«Non sapevo - ha proseguito Leonardo Vitale - che ci sono pentiti che girano per le carceri a istigare le persone a collaborare». Il boss di Partinico si riferisce al detenuto che ha intrattenuto con la sorella Giusy Vitale, mentre era in carcere, un rapporto epistolare nei mesi precedenti alla scelta della donna di collaborare. Nei giorni scorsi era circolato il nome del pentito catanese Giuseppe Garozzo, ma i suoi legali hanno smentito la circostanza.
Giusi Vitale, 33 anni, madre di due bambini, è la prima boss in gonnella che abbia iniziato a collaborare con la giustizia. Le rivelazioni della donna hanno anche riguardato la latitanza di Bernardo Provenzano, il boss corleonese ricercato da 42 anni. Secondo la pentita, il padrino avrebbe partecipato pochi mesi prima delle stragi del ’92 a un summit di mafia travestito da vescovo e con tanto di auto blu e autista. Il racconto della donna sembra il canovaccio di un film su Cosa nostra, ma lei, che fin da piccola è cresciuta a contatto con i boss, conosce molti retroscena di omicidi, alleanze fra cosche, latitanze, favoreggiamenti e collusioni con i politici.
La boss in gonnella, dopo avere trascorso complessivamente sette anni in cella, alla vigilia della prima sentenza che potrebbe condannarla all’ergastolo, ha deciso di parlare con i magistrati della Dda di Palermo per evitare il carcere a vita.
Il pentimento avviato da Giusy è stato vissuto come un affronto mortale dai fratelli Vito e Leonardo Vitale, ma anche dall’ex marito, anche lui in carcere con l’accusa di omicidio, la cui mandante è proprio la donna che se ne è autoaccusata.
Non è la prima volta che un mafioso pentito viene «rinnegato» dai suoi familiari. La scelta di collaborare è quasi sempre sconsigliata da madri, mogli e mariti. La sorella di Tommaso Buscetta fu una delle prime a prendere le distanze dal fratello, dopo che le venne ucciso, per vendetta trasversale, il figlio. Ma anche Rita Atria, 18 anni, morta suicida sette giorni dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, fu «ripudiata» dalla madre. La donna non perdonò mai alla figlia il fatto di avere collaborato con il magistrato, tanto che mandò in frantumi la lapide con la fotografia. Emblematica anche la vicenda di Marco Favaloro, un commerciante di auto, che si è accusato di complicità nell’ uccisione di Libero Grassi. La moglie di Favaloro, Giuseppa Mandanaro, dopo avere tentato di dissuadere il marito si vestì a lutto, sottolineando che anche i suoi tre figli la pensavano allo stesso modo.
Il pentimento, dunque, attraversa e divide le famiglie. Cosa c’è dietro queste prese di distanza, che rompono i più forti legami di sangue? Soltanto paura di essere uccisi, di entrare nel lungo elenco delle vittime delle vendette trasversali? Tutto questo non basta a spiegare quanto sta avvenendo all’interno dell’universo mafioso. Da tempo Cosa Nostra non uccide parenti dei collaboratori, perché i delitti diventavano prova ulteriore d’accusa. Del resto, le vendette trasversali non hanno ottenuto l’effetto sperato. Sono nate, osservano gli investigatori, nuove regole: chi si dissocia subito dal parente che si è pentito viene «rispettato». Così come è accaduto oggi anche con i fratelli di Giusy Vitale.
Lirio Abbate
«Ho saputo che una mia ex consanguinea - ha detto il boss - sta collaborando. Noi la rinneghiamo sia da viva che da morta e speriamo che lo sia al più presto». Leonardo Vitale è detenuto nella casa circondariale di Parma.
«Non sapevo - ha proseguito Leonardo Vitale - che ci sono pentiti che girano per le carceri a istigare le persone a collaborare». Il boss di Partinico si riferisce al detenuto che ha intrattenuto con la sorella Giusy Vitale, mentre era in carcere, un rapporto epistolare nei mesi precedenti alla scelta della donna di collaborare. Nei giorni scorsi era circolato il nome del pentito catanese Giuseppe Garozzo, ma i suoi legali hanno smentito la circostanza.
Giusi Vitale, 33 anni, madre di due bambini, è la prima boss in gonnella che abbia iniziato a collaborare con la giustizia. Le rivelazioni della donna hanno anche riguardato la latitanza di Bernardo Provenzano, il boss corleonese ricercato da 42 anni. Secondo la pentita, il padrino avrebbe partecipato pochi mesi prima delle stragi del ’92 a un summit di mafia travestito da vescovo e con tanto di auto blu e autista. Il racconto della donna sembra il canovaccio di un film su Cosa nostra, ma lei, che fin da piccola è cresciuta a contatto con i boss, conosce molti retroscena di omicidi, alleanze fra cosche, latitanze, favoreggiamenti e collusioni con i politici.
La boss in gonnella, dopo avere trascorso complessivamente sette anni in cella, alla vigilia della prima sentenza che potrebbe condannarla all’ergastolo, ha deciso di parlare con i magistrati della Dda di Palermo per evitare il carcere a vita.
Il pentimento avviato da Giusy è stato vissuto come un affronto mortale dai fratelli Vito e Leonardo Vitale, ma anche dall’ex marito, anche lui in carcere con l’accusa di omicidio, la cui mandante è proprio la donna che se ne è autoaccusata.
Non è la prima volta che un mafioso pentito viene «rinnegato» dai suoi familiari. La scelta di collaborare è quasi sempre sconsigliata da madri, mogli e mariti. La sorella di Tommaso Buscetta fu una delle prime a prendere le distanze dal fratello, dopo che le venne ucciso, per vendetta trasversale, il figlio. Ma anche Rita Atria, 18 anni, morta suicida sette giorni dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, fu «ripudiata» dalla madre. La donna non perdonò mai alla figlia il fatto di avere collaborato con il magistrato, tanto che mandò in frantumi la lapide con la fotografia. Emblematica anche la vicenda di Marco Favaloro, un commerciante di auto, che si è accusato di complicità nell’ uccisione di Libero Grassi. La moglie di Favaloro, Giuseppa Mandanaro, dopo avere tentato di dissuadere il marito si vestì a lutto, sottolineando che anche i suoi tre figli la pensavano allo stesso modo.
Il pentimento, dunque, attraversa e divide le famiglie. Cosa c’è dietro queste prese di distanza, che rompono i più forti legami di sangue? Soltanto paura di essere uccisi, di entrare nel lungo elenco delle vittime delle vendette trasversali? Tutto questo non basta a spiegare quanto sta avvenendo all’interno dell’universo mafioso. Da tempo Cosa Nostra non uccide parenti dei collaboratori, perché i delitti diventavano prova ulteriore d’accusa. Del resto, le vendette trasversali non hanno ottenuto l’effetto sperato. Sono nate, osservano gli investigatori, nuove regole: chi si dissocia subito dal parente che si è pentito viene «rispettato». Così come è accaduto oggi anche con i fratelli di Giusy Vitale.
Lirio Abbate
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