Da La Repubblica del 23/05/2007
Colpito dalle Br nel ´75, nel 1985 contribuì a fondare l´associazione alla quale aderirono i familiari di oltre 200 persone
È scomparso Puddu, diede voce a tutte le vittime del terrorismo
Era consigliere della Dc quando fu ferito Unanime il cordoglio del mondo politico
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TORINO - Aveva voluto esserci anche una decina di giorni fa. Ormai sempre più debole per la malattia che lo opprimeva era stato costretto ad accettare, lui che rifiutava persino l´appoggio del bastone, la sedia a rotelle. Ma era rimasto lì, in prima fila, alla messa celebrata il 12 maggio alla Gran Madre per la manifestazione nazionale indetta a Torino dall´Associazione Vittime del terrorismo. Maurizio Puddu si è spento ieri a 75 anni nella sua casa torinese ma sino all´ultimo si è battuto affinché le vittime della stagione degli anni di piombo avessero la giusta considerazione. «Rifiutare il bastone, portare con dignità le sue ferite, esserci sempre, erano il suo modo di non arrendersi - sottolinea Giovanni Berardi, figlio del maresciallo di polizia Rosario, ucciso dalle Br nel ´78 e segretario dell´Associazione che Puddu aveva fondato nel 1985 e sempre presieduto - Si è battuto contro la malattia come contro il terrorismo. Entrambi non sono riusciti a piegarlo...».
A Maurizio Puddu le Brigate Rosse spararono la mattina del 13 luglio 1977. Lui allora era consigliere provinciale della Democrazia cristiana in una Torino blindata, con i sacchi di sabbia ai posti di blocco. Una città plumbea che farà scrivere ad Adelaide Aglietta, giudice popolare al primo processo contro i brigatisti: «Lascio Torino con un senso di sollievo». Una città dove in pochi mesi erano stati uccisi il presidente dell´Ordine degli avvocati, Fulvio Croce e il vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno e dove si poteva morire per sbaglio come accadde a Roberto De Crescenzio, bruciato vivo nella toilette del bar Angelo Azzurro da una molotov lanciata da un corteo. A tenere la contabilità di quel tempo era lo stesso Puddu che rammentava: «Torino pagò con venti morti e 58 feriti». Uno di quei 58 era lui. Il commando Br quella mattina del marzo 1977 lo attese sotto casa. «Per loro non ero neanche una persona - ricordava - Solo un bersaglio da colpire. Un servo delle multinazionali. Io che non ho mai bevuto una Coca Cola». Lo incastrarono tra due auto e gli spararono 16 colpi. Con la famigerata Nagant che qualche mese dopo uccise Carlo Casalegno. «Mi colpirono alla femorale. Sarei morto se un dentista che abitava nei dintorni non avesse tamponato l´emorragia» ripeteva sempre lui. Quel giorno la vita di Maurizio Puddu cambiò per sempre e non solo per la lamina metallica fissata con 18 viti che gli teneva assieme ciò che restava del femore. Diventò la voce di quanti avevano subito la violenza del terrorismo, un testimone che con la sua sola presenza imponeva l´obbligo della memoria, del ricordo di quegli anni bui. E che non concedeva sconti né perdoni fasulli. «La misericordia è di Dio, la giustizia dello stato - diceva - il perdono è degli uomini ma è un fatto intimo». Nel 1985 aveva contribuito a fondare l´Associazione Italiana Vittime del terrorismo alla quale hanno aderito i familiari di 200 persone uccise o ferite dai terroristi. Con un obiettivo: ottenere un´attenzione maggiore verso le vittime, dimenticate spesso a favore dei carnefici. Ancora nel marzo scorso, in un´intervista a Repubblica, aveva ripetuto: «I terroristi vanno in Parlamento, in televisione, tengono conferenze. E noi, le vittime, siamo trattati come cittadini di serie B, costretti a sentirli raccontare come hanno ammazzato i nostri cari, a lottare per sopravvivere, spesso dimenticati dallo Stato, quello stesso Stato per cui molti sono caduti».
(Meo Ponte)
A Maurizio Puddu le Brigate Rosse spararono la mattina del 13 luglio 1977. Lui allora era consigliere provinciale della Democrazia cristiana in una Torino blindata, con i sacchi di sabbia ai posti di blocco. Una città plumbea che farà scrivere ad Adelaide Aglietta, giudice popolare al primo processo contro i brigatisti: «Lascio Torino con un senso di sollievo». Una città dove in pochi mesi erano stati uccisi il presidente dell´Ordine degli avvocati, Fulvio Croce e il vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno e dove si poteva morire per sbaglio come accadde a Roberto De Crescenzio, bruciato vivo nella toilette del bar Angelo Azzurro da una molotov lanciata da un corteo. A tenere la contabilità di quel tempo era lo stesso Puddu che rammentava: «Torino pagò con venti morti e 58 feriti». Uno di quei 58 era lui. Il commando Br quella mattina del marzo 1977 lo attese sotto casa. «Per loro non ero neanche una persona - ricordava - Solo un bersaglio da colpire. Un servo delle multinazionali. Io che non ho mai bevuto una Coca Cola». Lo incastrarono tra due auto e gli spararono 16 colpi. Con la famigerata Nagant che qualche mese dopo uccise Carlo Casalegno. «Mi colpirono alla femorale. Sarei morto se un dentista che abitava nei dintorni non avesse tamponato l´emorragia» ripeteva sempre lui. Quel giorno la vita di Maurizio Puddu cambiò per sempre e non solo per la lamina metallica fissata con 18 viti che gli teneva assieme ciò che restava del femore. Diventò la voce di quanti avevano subito la violenza del terrorismo, un testimone che con la sua sola presenza imponeva l´obbligo della memoria, del ricordo di quegli anni bui. E che non concedeva sconti né perdoni fasulli. «La misericordia è di Dio, la giustizia dello stato - diceva - il perdono è degli uomini ma è un fatto intimo». Nel 1985 aveva contribuito a fondare l´Associazione Italiana Vittime del terrorismo alla quale hanno aderito i familiari di 200 persone uccise o ferite dai terroristi. Con un obiettivo: ottenere un´attenzione maggiore verso le vittime, dimenticate spesso a favore dei carnefici. Ancora nel marzo scorso, in un´intervista a Repubblica, aveva ripetuto: «I terroristi vanno in Parlamento, in televisione, tengono conferenze. E noi, le vittime, siamo trattati come cittadini di serie B, costretti a sentirli raccontare come hanno ammazzato i nostri cari, a lottare per sopravvivere, spesso dimenticati dallo Stato, quello stesso Stato per cui molti sono caduti».
(Meo Ponte)
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