Da Diario del 04/08/1999
L'inchiesta vecchio stile
Ultima fermata: Bologna
Si è celebrata la diciannovesima commemorazione della strage alla stazione. Non si sa se ci sarà la ventesima. Sei protagonisti del 2 agosto 1980 raccontano il tempo che è passato
di Enrico Deaglio
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Questa è una storia quasi antica, di due gruppi di persone che si sono separati, come quei tramezzini alla maionese nei bar, di sera, in cui la chimica comincia a distinguere i colori primari. E’ la storia di cose che non ci sono più. E’ la storia della strage alla stazione di Bologna, 19 anni dopo, vista da due punti di vista ormai differenti: chi la patì e lo Stato.
Comincia da Marina Gamberetti, 39 anni, un aspetto ancora di ragazza, un po’ giunco, un po’ dinoccolata. Durante l’intervista ha consumato di lacrime un intero pacchetto di fazzoletti Tempo. Lei è l’icona –come se dice adesso- della strage del 2 agosto 1980, per una famosa fotografia che la ritrae appena estratta dalla macerie, la bocca spalancata nel dolore, su una lettiga, quando aveva vent’anni. Nello scoppio sei sue amiche e colleghe della Cigar-Buffet della Stazione erano rimasto uccise. Si chiamavano Katia, Nilla, Rita, Lori, Mirella e Franca. Sentendola parlare e piangere mi sono ricordato che nessuno sa ancora spiegare quali meccanismi regolino le nostre ghiandole lacrimali: perché piangiamo al cinema non nelle scene di massimo dolore, ma quando corre un cane o si alza una bandiera; perché restiamo raccontando gli episodi più atroci e poi cadiamo su certe increspature.
Marina Gamberoni ha dovuto spiegare nel corso degli anni a una commissione medica, poi a un’altra e un’altra ancora e poi infine a Roma, all’Ospedale militare -dove era l’unica donna sulla scena e questo fatto, invece che piangere, la fece ridere- perché si trovasse alle 10,25 di quel sabato 2 agosto nel locali della Cigar e se ne era autorizzata davvero. Il tutto per un piccolo indennizzo. La ragazza di vent’anni aveva avuto la frattura del cranio (zona occipito-parietale), la milza spappolata, il corpo piagato.
Poi Marina Gamberoni ha raccontato quanto le pesi quella foto-icona, e quanto, nello stesso tempo, non ne possa fare a meno. Sa che la gente sa chi è. Sa che la gente che incontra sa che lei è uscita fragile da quel trauma, e quindi ne approfitta per scaricare su di lei le proprie fragilità. Ha un bel bambino di cinque anni, Gianluca, cui ha spiegato qualcosa riguardo alla cattiveria e alla punizione. L’ha anche portato, una volta sola però, in manifestazione. Suo marito faceva il fotolitista e oggi fa il panificatore. Spesso ha il mal di testa e non sopporta la compagnia di altre persone. Le chiedono, se non la conosco: che cos’hai, Marina? E lei dice, il più delle volte: un vecchio incidente, postumi, niente di speciale. Altre volte, invece, dice: sono una sopravvissuta della bomba alla stazione di Bologna, 2 agosto 1980, la mia faccia è andata sui giornali di tutto il mondo, il fotografo che l’ha scattata mi ha anche fotografata quando è nato il mio bambino, le mie sei amiche della Cigar sono morte. Io avevo vent’anni, ero nel percorso della vita in cui il carattere si forma.
Dei pensieri costanti che emergono in superficie, uno non possa davvero mai e riguarda il suo “percorso”, spezzato non per una sua scelta; un altro, il destino che ha salvato lei e non le sue amiche; e poi, insistente, “il pensiero che aveva chi ha messo la bomba. E come poteva pensare che il suo pensiero, qualunque fosse, avesse bisogno di tanti morti per realizzarsi. Che pensiero e quel pensiero che ha bisogno di morti? Pensava che il riconoscimento sarebbe stata la notorietà? Era questo che cercava? Pensava di scrivere il suo nome nella storia, questo è sicuro. Perché chi fa scoppiare una bomba in una stazione sa che entrerà nella storia”.
Il monologo di Marina Gamberoni, lungo come dieci fazzoletti di carta Tempo, è il racconto delle ferite interne, del trauma che non passa, l’elogio della necessità di sostengo psicologico, la voglia –mi è sembrata sempre più debole- di uscire dell’opacità di immagini e pensieri che salgono e scendono, ma non riescono ad apparire netti e sereni.
Finita l’intervista, spossati, siamo andati a pranzo.
Tutto questo avveniva venerdì 23 luglio scorso, a pochi giorni della fatidica data della diciannovesima commemorazione. A Bologna, in via Polese 22, nel secolare centro storico, con portici che dividono la luce dall’ombra spessa. Strade silenziose, perché le macchine qui sono quasi vietate. Al piano terreno ha sede la poco conosciuta, ma molto meritevole, Università Primo Levi per la Terza Età, che ogni anno promuove decine di corsi di specializzazione, conferenze, gestione culturale del tempo libero. A secondo piano, l’”Associazione tra i famigliari delle vittime alla stazione di Bologna, 2 agosto 1980”, che con gli uffici della Primo Levi divide il bagno.
L’edificio è antichissimo e ancora cento anni fa ospitava una filanda. Il secondo piano, tra balconcini retti da colonne sottili di pietra e ornati di gerani –potrebbe essere, come molte edifici del centro storico di Bologna, che nascondono patii, cortili, giardini, fontanelle, una casa andalusa - era l’appartamento del padrone, con soffitti a volta affrescati di scene bucoliche. Lì oggi a sede un complesso di attività: oltre all’archivio sulle strage, è disponibile la documentazione sulla strage di Ustica (il volo Dc 9 Itavia che partì da Bologna per Palermo il 21 luglio 1980 ed esplose sopra l’isola di Ustica uccidendo le 81 persone che erano a bordo); la documentazione sulle imprese criminali della “Uno Bianca”, ovvero una quarantina di vittime provocate dai fratelli Savi, nazisti per simpatie politiche, di professione potenti poliziotti alla Squadra Mobile di Bologna. E poi ci sono ancora i falconi che ricordano la strage del treno Italicus (1974) e quella, avvenuta esattamente dieci anni dopo nello stesso posto –la galleria di Val di Sembro- del “treno di Natale”, il rapido 904 che da Napoli andava a Milano. Ogni strage, nell’appartamento, ha la sua scrivania, il suo computer, la sua bibliotechina, il suo archivio e i suoi manifesti alle pareti. In tutto collezionano 253 morti e, approssimativamente, 1.500 feriti, in vent’anni di terrore in una zona geografica tutto sommato piccola. (Se qualcuno conosce una località in Europa che negli ultimi cinquant’anni di pace sia stata così martoriata dal terrorismo, me lo dica. A me non ne viene in mente nessuna).
Finita l’intervista, siamo andati a mangiare qualcosa al “Chet Baker”, sempre in via Polese, pochi portoni accanto, che ci ha tenuto aperto nonostante l’ora tarda. E lì, sciolta un po’ la tensione, Marina ha sostenuto che Cigar-Buffet della stazione nel 1980 poteva considerarsi in ristorante di qualità, perché non faceva solo i tortelloni, ma avevo presso a trattare anche la selvaggina. Ma la tavolata è stata scettica. Si è convenuto che era un ristorante medio, sicuramente niente di paragonabile con quello della Gare de Lyon a Parigi e comunque al di sotto di quello che avrebbe potuto essere. E si è convenuto pure che, nonostante dopo la strage tutti i muri siano stati rimessi a posto in tempo record, la stazione non è più stata la stessa. Prima ci si andava dopo il cinema e il teatro, si andava a prendere i giornali freschi a mezzanotte, ci si dava appuntamento. Dopo la bomba, dopo il restauro, non è più stata la stessa cosa. E questa constatazione: di come possano anche gli edifici morire, anche i quartieri, anche le città, nonostante il loro aspetto esteriore sia tornato intatto, è uno dei cuori della questione: che cosa resta del ferimento, quel luogo medio tra salvazione e sommersione, che compare nei primi giorni come statistica, che viene visitato delle autorità negli ospedali, che settimana dopo settimana viene sbendato e poi dimesso. E poi si perde: ma solo perché lo si vuole perdere.
Così, in quella breve discussione, sembrava Bologna, ricordata affettuosamente per quello che era –“quando si andava a mezzanotte a prendere i giornali freschi in stazione”- e per quello che non è più. Il fatto che la sinistra abbia perso il Comune dopo cinquant’anni; il fatto che parecchi accenni si riferivano alla stazione come luogo di ritrovo, ormai, dei soli immigrati africani, ha aggiunto la sensazione di un passato che, mitologicamente, si ricordava felice.
L’agosto successivo alla strage, Carmelo Bene recitò Dante –Inferno, Purgatorio, Paradiso- dal balcone della Torre degli Asinelli. Sotto di lui, presa da incantamento, c’era mezza Bologna ad ascoltare. Improvvisamente, Carmelo Bene gridò: “I Feriti! Nelle stragi tutti ricordano i morti, nessuno ricorda i feriti!”.
Facevamo questi discorsi al Chet Baker di via Polese. Un bel locale, dove la sera e la notte, da ottobre a maggio, si fa jazz dal vivo. Il titolare lo fondò nell’88, proprio quando il grande jazzista morì precipitando da una stanza d’albergo ad Amsterdam. E lì sono venuti a suonare Nicola Arigliano, Lucio Dalla col clarinetto, Clifford Jordan, Sal Nistico, Kenny Barron, Vinicio Capossela. Anche Romano Mussolini. “Jimmy Villotti, musicista, ma anche scrittore noir di qui”, mi dice il titolare Gilberto Baroni, “ha ambientato qui un suo libro, Gli sbudellati, dove c’è uno che muore proprio nel bagno del ristorante. Per cosa? Diciamo, per il male di vivere. I clienti mi chiedono si è vero o finzione. Però vengono, non c’è problema”. Si va meno alla stazione, si va di più al Chet Baker. Benetton paga 800 milioni per affiggere i suoi manifesti sulla piazza –quelli grandi dove ci sono il Bianco e il Nero- ma non li mette dentro la stazione, dove pagherebbe meno e sarebbero visti da centinaia di persone. E non c’è più il ristorante, e ci potrebbe essere un’orchestrina che fa del jazz, ma non c’è. Sono state proposte anche sfilate di moda, o l’esposizione dei vecchi treni, ma non è stato fatto niente. E nessuno, neanche il più ingenuo artista di strada, qui si metterebbe a suonare La locomotiva di Francesco Guccini. Perché, quel giorno, per milioni di italiani, è passata l’ala del destino: Ma sai che mia sorella doveva prendere quel treno? Ma sai che sono passato il giorno prima? Ma sai che dovevo andare a Venezia e invece sono andato in Toscana? Chi mise la bomba sapeva tutto ciò: che quel giorno milioni di italiani erano in viaggio per le vacanze e Bologna è il più importante nodo ferroviario italiano.
Primo, gli occhiali. Il 2 agosto 1980 il primo ferito che si presentò a Elio Nichelini, che si trovò a coordinare i soccorsi, fu uno svizzero di nome Hans Husrt, era alla stazione in attesa di andare in vacanze a Belluria. Non era sbudellato, ma pieno di schegge di vetro e con le vesti insanguinate e stracciate. Venne accompagnato da un ottico che gli diede un paio di occhiali (i suoi erano andati persi) e alla Upim, dove lo rivestirono. Poi ripartì e non se ne seppe più niente. Molti altri dei feriti o dei parenti dei morti sono rimasti suoi amici. Si frequentano, si telefonano , ma non si parla più della bomba. Nichelini, ironico, per descriversi com’è ora, funzionario della Protezione civile, racconta: “Io sono uno dell’ultimo soccorso rosso. Ero in vacanza a Sydney, Australia. Mi hanno telefonato,ho interrotto le ferie per venire a votare la Bartolini”.
Paola Sola, dipendente dell’assessore al Decentramento, Miriam Ridolfi, quella mattina era con suo marito in gita in bicicletta sulle colline. Si fermarono intorno all’una in una trattoria e sentirono la televisione che annunciava un disastro alla stazione di Bologna. Paola ancora adesso non riesce a capacitarsi del perché abbia distintamente sentito “stazione di Cracivia”. Fu un avventore che la prese per un braccio e le disse: “Bologna”. Scesero in bicicletta delle colline, videro da lontano il fumo che si alzava dalla stazione; Paola sentì che le sue gambe affondavano nella terra, poi prese coraggio, andò in assessorato e vi lavorò senza interruzione per una settimana. Poi venne distaccata dal Comune all’Associazione, dove lavora da 19 anni. Ha raccolto tutte le notizie dei morti e dei feriti, le ha catalogate. Per un accordo con la Polizia ferroviaria, all’Associazione vengono consegnati ancora oggi tutti gli oggetti che hanno riferimento alla strage: e così negli scatoloni ci sono coccarde, striscioni che hanno ornato le corone, rosari, croci, crocifissi, santini, poesie, volantini di associazioni di podisti, di ciclisti, di sportivi in genere, lettere, preghiere, disegni (l’orgoglio fermo sulle 10,25 è il più frequente), fotografie. In un altro scatolone ci sono invece i fogli protocollo di quella che fu, in Italia, la più fantastica organizzazione di soccorso che si sia mai vista in Italia. Sono scritto a biro e a matita, divisi per quartiere. I morti e i feriti sono divisi per zone, oppure segnalati come “anziani”, “vedovi”,”famiglie numerose”. A matita sono scritte frasi come: “Consegnati giocattoli”, “Sistemati in albergo”, “La signora ha detto che non vuole niente”, “Mandata una vicina”, “Risolto”, “Controllare”, “Sandali numero 38”. Rimangono anche di quel giorno le registrazioni audio dei ponti radio: sono voci tranquille, operative: Rh negativo –Ok- Ricevuto Indipendenza- Segnalati otto posti liberi a Cervia - Do gli ultimi nominativi… Le piccole scritte e le anonime voci formano un lungo coro, molto semplice.
Ivano Paolini era all’epoca il responsabile dei cantieri del Comune di Bologna. Sentì lo scoppio, saltò sulla Vespa e andò a vedere. Di fronte alla stazione, una spessa nuvola di polvere non si decideva a venire giù, respirare era quasi impossibile. Prese spontaneamente il comando delle operazioni, per primo facendo venire le autobotti per fare calare la polvere. “Si parlava allora di una caldaia scoppiata, ma io sentivo un odore strano, che mi ricordava le bombe della guerra”.
Paolini mise sotto il suo comando facchini, polizia ferroviaria, taxista e organizzò la rimozione delle macerie. Paolini oggi è in pensione, ha una faccia che assomiglia a quella di William Devane (un caratterista che spesso fa la parte del colonnello e che in Yankees aveva un amore Vanessa Redgrave). E’ un decisionista. Non è mai andato alle commemorazioni perché non gli piacciono i “funerali di Stato”. Va spesso, sempre in Vespa, alla stazione, davanti alla lapide e legge i nomi dei morti.
Agide Melloni, oggi pensionato a Imola, era il conducente dell’autobus 37. Lo deviò verso il piazzale della stazione. L’autobus diventò una camera mortuaria, con le fiancate coperte da lenzuoli bianchi. Dentro vennero sistemati e ricomposti i cadaveri che venivano estratti. Quel sistema, inventato sul momento, fu decisivo per rendere veloci le operazioni di soccorso.
“Vorrei ricordare Dini Ernesto”. Elio Nichelini ricorda: “Una grande fortuna fu l’attivazione del 118, numero telefonico che da poco, e per la prima volta in Italia, centralizzava le emergenze, sotto il nome di Bologna soccorso. Questo ci permise di gestire la destinazione degli ospedali. I ponti radio funzionarono. Già a mezzogiorno sulle spiagge di Rimini gli altoparlanti facevano appello per il sangue. Lavorammo bene con la Prefettura e voglio ricordare in particolare il funzionario Dini Ernesto. Capimmo subito che non avremmo retto al peso di funerali di massa e così decidemmo di spedire ai loro luoghi d’origine le salme. Trovammo una grande solidarietà dall’Alitalia, dalle Ferrovie dello Stato. Tutti si misero a servizio gratuito. Ho un gran ricordo anche dei famigliari dei colpiti. Non ho mai visto nessuno di loro trascendere, tutti erano molto dignitosi. Se ci furono persone che presero inaspettatamente il comando? Sì, ce ne furono molte. Mi ricordo anche che nell’attentato vennero gravemente feriti due turisti svedesi. La Svezia mandò un aereo medico a prenderli e i funzionari erano strabiliati del nostro lavoro. Erano convinti che avessimo un piano di allerta, di emergenza . E invece non l’avevamo. Tutto quello che facemmo non era stato preparato”.
Paola Sosa: “All’assessorato ci trovammo con mille problemi personali. Ma il primo fu quello dei fiori. Bologna il 2 agosto era una città in ferie, i fioristi erano chiusi. Furono le donne del quartiere di Corticella che fecero le corone…Ma il lavoro continuò bene oltre l’emergenza dei primi giorni. E’ continuato bene, direi, per tutti questi 19 anni. Ci sono due famiglie inglesi, i Mitchell e i Golpinski, che hanno avuto i figli morti, che ci vengono a trovare tutti gli anni. Lo stesso fa la signora Mϋller, svizzera. I bambini che hanno avuto amputazioni sono stati seguiti negli anni perché le protesi vanno cambiate con lo sviluppo del corpo. Gli ustionati hanno avuto bisogno anche di 15 operazioni di plastica. I vetri conficcati nella carne continuano, anche a distanza di anni, a viaggiare nel corpo e vengono in superficie. Anche gli effetti dell’esplosivo si fanno sentire a distanza di anni: esplosioni di calore, malattie della pelle. Poi abbiamo seguito tutte le pratiche di indennizzo. E tutto è stato fatto con donazioni private, a cominciare da quella promossa subito dal Resto del Carlino e dal Comune”.
Elio Michelini: “Tutti lavorarono gratuitamente. Gli albergatori della riviera si comportarono molto bene. Mi ricordo anche che, unica, dopo mesi ci venne una fattura da una parrocchia di Verona, per dei fiori che ci avevano mandato. Non ricordo se la pagammo”.
Una ragazza della Cigar venne data per dispersa, ma dopo un giorno si scoprì che il suo cadavere era stato scaraventato sul soffitto. Un ragazzo, i genitori lo credevano a Londra ed effettivamente nei vestiti venne trovato un biglietto della metropolitana di Londra. Una ragazza di Ravenna, su richiesta dei genitori, venne rivestita con un abito bianco da sposa, prima di essere portata via. Marco Bolognesi, sei anni, venne estratto da un facchino che credete di aver dissotterrato una bambina morta. Il padre lo riconobbe –nel corpo tutto nero- per una voglia all’inguine. La più vecchia delle vittime aveva 86 anni e si chiamava Antonio Montanari. La più giovane, tre anni, si chiamava Angela Fresu. L’unico turista giapponese (allora erano pochi) si chiamava Iwao Sekiguchi, di 20 anni. Altre otto vittime venivano dalla Francia, dalla Svizzera, dalla Germania e dall’Inghilterra. I feriti sono stati calcolati in 300. E’opinione di tutti i competenti che la rapidità e l’efficienza delle operazioni di soccorso abbia notevolmente abbassato il conteggio finale delle vittime. Un ferito, Angelo Priore, di 26 anni, diventò l’ultima vittima perché morì 100 giorni dopo l’attentato. Il suo nome venne collocato per ultimo nella lapide che ricorda tutti alla stazione di Bologna, sotto l’intestazione “Vittime del terrorismo fascista”. Sono passati 19 anni. All’epoca, nel quartiere Corticella –e più precisamente a Villa Torchi, sede del Centro Anziani di via Colombarola- vennero messi a dimora degli ippocastani, ognuno dei quali aveva una targa dorata con il nome di uno dei bambini morti alla stazione. Ora sarebbe difficile vedere quelle targhe, perché la propulsione degli ippocastani le ha spinte molto in alto.
Miriam Ridolfi: “Una delle prime telefonate che ricevetti fu di un ottico. Mi disse che stava andando a riaprire il negozio e che era a disposizione. Lo ringraziai, ma lì per lì non capivo la ragione. Mi disse: Signora, lei non ha idea di quanta gente avrà perso o rotto gli occhiali”. La professoressa Ridolfi era stata da appena tre giorni nominata “assessore al Decentramento”. Romagnola di Forlì, allora aveva 36 anni, capelli rossi e lentiggini e ci tiene a ricordare quanti diversi fossero i tempi e quanto quella diversità permise ai soccorsi “di volare”. “A Bologna c’erano all’epoca i consigli di quartiere, 18 in tutto, ed erano una cosa strana: assemblee popolari, contestazione sulle scelte del centro, proposte locali. Era la novità di Bologna, un’esperienza unica, che significava tante cose: che il bambino handicappato andava a scuola non tanto perché un regolamento lo sanciva, quanto perché il suo amichetto spingeva la carrozzina. Si poteva fare i certificati in quartiere, ma più importante era che l’impiegata sapeva l’importanza di quel certificato. E’ stata questa esperienza popolare che ha permesso l’organizzazione dei soccorsi; la gestione, persona per persona, dei casi umani che ci arrivavano. Noi avemmo la possibilità , proprio per quel tipo di funzionamento, di affrontare casi personali, non numeri. E questo, a mio parere, oggi non c’è più. I consigli del quartiere sono stati presto sostituiti dalla circoscrizioni, da 18 sono diventati nove. E sono routine, pura e semplice. E invece, sa che cosa insegnammo noi allora? Che le abitudini del cuore potevano prendere il sopravvento e che si poteva volare”.
Miriam Ridolfi è stata poi preside al liceo Righi di Bologna e oggi è in pensione. Non ha più i capelli rossi, non ha più lentiggini, ma la scuola le è rimasta come centro di interessi e non ha paura di essere controcorrente. “Io non sono mai stata una grande sostenitrice dei corsi di ricupero”, mi spiega. “Certo, è ovvio, persino banale, che si uno studente va male in matematica, bisogna appoggiarlo per evitare che perda l’anno. Ma molto più interessante, stimolante, fantastico, è aiutare chi è bravo. Quando lei ha davanti un ragazzo che capisce la poesia, che capisce la storia, che ha talento nel disegno, lì bisogna intervenire, perché quel talento si sviluppi al massimo delle potenzialità, perché le vengano date le ali, perché voli. Questa è la mia idea di scuola, e di società. E questo è quello che avvenne in quei giorni: le persone furono spinte a dare il meglio di sé. E avrebbe potuto essere il modello di una società diversa. Le faccio un esempio che potrà sembrare piccolo, ma non è. Nei giorni dell’emergenza le macchine dei vigili urbani furono autorizzate a portare civili, cosa che il regolamento vieta. Così parenti delle vittime, persone in cerca dei loro cari, chiunque, poté essere portato agli ospedali, ai centri di raccolta, alle camere mortuarie. Fu importante, mi creda. E avrebbe dovuto essere preso ad esempio, ma i taxisti non vollero e non se ne fece più niente. Di tutto quel mondo, io credo non esista più molto. Vedo bambini che vanno solo in gara, col cronometro a fare nuoto. Vedo anoressie, autismi di ritorno, che una volta non c’erano. E in generale vedo che governiamo solo il negativo, invece di insegnare a volare. Anche questo volontariato di cui si parla tanto ora: è bello, sì. Ma a me, tante volte, viene il dubbio che sia un volontariato di routine, a alle volte un volontariato pagato”.
L’Associazione. L’associazione 2 agosto è oggi retta da Paolo Bolognesi, il padre di quel bambino che venne scambiato per una bambina morta e che oggi, dopo numerosi interventi di plastica,è un bellissimo ragazzo che studia al Dams e dipinge. Ci dice che alla manifestazione aveva chiesto la presenza del presidente Ciampi, ma ciò non è stato possibile. Ha un ottimo rapporto con il sindaco Guazzaloca che, in passato, come presidente dell’Ascom – a Bologna forte di 15 mila aderenti- era stato uno dei più generosi sottoscrittori. L’associazione ha informatizzato le 600 mila pagine dell’inchiesta giudiziaria, ha pubblicato le varie sentenze che si sono succedute, ha messo in rete un database poderoso che segnala tutti i links tra le carte di Bologna e molti altri processi di eversione e terrorismo. E, naturalmente, si occupa ancora del sostegno ai feriti.
A lavorare a tempo pieno sono in due: Paola Sola e il giovane impiegato, Andrea Destro, ambedue impiegati distaccati del Comune. Così come è del Comune la sede. Bolognesi è succeduto nel 1995 a Torquato Secci, che molti ricorderanno come quella persona dal viso magro e severo, assolutamente intransigente di fronte a qualsiasi possibilità di amnistie, sconti di pena, indulti a favore dei terroristi e come “il motore” che seguì i vari processi fino alla sentenza finale. Alla stazione aveva perso un figlio, Sergio, laureato al Dams con una tesi sul “Bread and Puppet Theatre”: era un figli del ’77, quel ragazzo, e del suo gruppo che si presentò a sostenere l’esame dal professor Umberto Eco facevano parte alcuni degli Skiantos, un altro che ha poi preso il dottorato a Parigi, un altro ancora che ha prodotto una tesi di 600 pagine. Quando fu colpiti, era appena tornato da un lungo viaggio di studio negli Usa, dove aveva ricostruito la storia de quello strano teatro di burattini, che sostiene che “l’intrattenimento non può essere separato dallo stomaco”, per cui durante le rappresentazioni è bene distribuire anche delle pagnotte di pane. Aveva vissuto con loro, era andato a trovare –in omaggio al padre-mito - Stefan Brecht, il figlio di Bertolt.
Paolo Bolognesi –55 anni, ex funzionario della finanziaria della Lega delle Cooperative, oggi assicuratore in proprio – traccia però un bilancio negativo, per quello che era il vero obbiettivo dell’associazione: togliere il segreto di Stato dalle inchieste sulle stragi. Una legge di iniziativa popolare con questo solo e unico articolo aveva raccolto –dodici anni fa!- 100 mila firme, ma nessuno in Senato o in Parlamento l’ha mai presa in considerazione. Così come molto defatigante è stato ottenere piccole leggine che garantissero risarcimenti ai colpiti. I governi di centrosinistra non si sono comportati meglio degli altri, dice Bolognesi. Però il loro esponenti avevano esplicitamente fatto di questo punto, un punto d’onore. Questo, conclude, dirà dal palco. E aggiungerà la protesta per la concessione della semilibertà ai due condannati come esecutori della strage.
Una borsa con piedini metallici. L’Italia è molto cambiata in 19 anni. Nel 1980 non esistevano i computer e le fotocopiatrici erano un piccolo lusso. Non c’era la televisione privata e c’era ancora il comunismo. Il Paese, governato da Francesco Cossiga, non si era ancora ripreso dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro. Benché non lo si sapesse ancora, un’organizzazione segreta, la loggia P2, comandata dal Venerabile Licio Gelli, aveva nella sua disponibilità la quasi totalità dei vertici dei servizi segreti, molti generali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, diversi parlamentari, funzionari dello Stato, industriali, banchieri, giornalisti. In una Sicilia allora poco frequentata dall’attenzione, Cosa Nostra era al massimo della sua potenza, decidendo la destinazione del denaro pubblico e ai vertici del commercio mondiale di eroina. I suoi proventi venivano (anche) amministrati dal principale banchiere privato italiano, Roberto Calvi, del Banco Ambrosiano di Milano, dopo che il precedente fiduciario, Michele Sindona, aveva ormai finito la sua corsa. Era un anno molto feroce. Benché i servizi segreti avessero consegnato, in maggio, la consueta relazione semestrale definendo “l’attività eversiva della destra in flessione quantitativa”, essa era invece particolarmente attiva. Rapine, omicidi, attentati, furti di armi ed esplosivi si susseguivano. Il 23 di giugno veniva ucciso l’unico magistrato che, a Roma, si occupava della destra, Mario Amato. Il 30 luglio, alle due di notte,esplodeva un’autobomba collocata di fronte al municipio di Milano, pochi minuti prima dell’uscita dei consiglieri comunali. I fogli e i dettami, semiclandestini, della destra eversiva parlavano esplicitamente: nella lotta al “pluto-marxismo” occorre “un’esplosione da cui non escano che fantasmi”; il “terrorismo deve essere definito come l’aereo da bombardamento del popolo”; “bisogna arrivare al punto che non solo gli aerei, ma le navi e i treni e le strade siano insicure: bisogna ripristinare il terrore e la paralisi della circolazione”; e ancora, in previsione di una grande azione “la massa della popolazione, che all’inizio possiamo ritenere sostanzialmente neutrale, sarà naturalmente portata a temerci e ad ammirarci, disprezzando nel contempo lo Stato per la sua incapacità a difendersi e a difenderla”. Infine, come indicazione si scriveva: “portare l’offensiva nella zone controllate dal nemico”.
Questo il “contesto” che ha guidato l’inchiesta giudiziaria. Ma ciò che più stupisce rileggendo le carte è la quantità di truffe che lo Stato ha messo in atto per allontanare la verità su quella bomba. False piste e false segnalazioni, non collaborazione a qualsiasi passo, ostruzionismo, intimidazioni.
A processo furono portati, oltre ad alcuni ufficiali del Sismi e al loro tutore Licio Gelli, due giovani come esecutori materiali della strage, Francesca Mambro (ventunenne all’epoca) e Valerio Fioravanti (ventiduenne all’epoca), le “star” del terrorismo fascista di quegli anni. Il primo processo li condannò all’ergastolo, l’appello li assolse. Le sanzioni unite della Cassazione ordinarono di rifare il processo. Un altro appello li ricondannò all’ergastolo, la Cassazione, di nuovo a sezioni unite, rese definitiva la sentenza. Si era nel 1995. Nella motivazione si legge che contro i due esecutori è stato raccolto “un importante quadro indiziario”. Un comitato per Fioravanti e Mambro - “E se fossero innocenti?”- raduna oggi molte importanti personalità della sinistra. Il presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino ha più volte espresso dubbi sulla verità giudiziaria, e lo stesso fa un altro giudice , Guido Salvini, che ha indagato sulla strage di piazza Fontana. La posizione di un terzo possibile esecutore, Luigi Ciavardini, minorenne all’epoca dei fatti, venne stralciata. Ma il processo contro di lui non è mai iniziato. Nuove piste sono state proposte, negli ultime anni, in continuazione: una pista libica, una pista francese, una pista sudanese, una pista Carlos. Nuovi scenari hanno proposto che i due condannati siano parte di un gioco più grosso, capri espiatori preparati ad arte.
Nessun uomo politico, nessun appartenente ai servizi segreti o alla P2 si è mai “pentito” e nessun governo ha mai accettato di togliere i segreti di Stato che gravano sull’inchiesta. Fioravanti e Mambro, dopo 18 anni di carcere per una innumerevole serie di altri gravi reati, sono stati posti in regime di semilibertà. La destra parlamentare, per ora sottovoce, chiede che cominci una “revisione storica” della bomba alla stazione, in pratica perché si buttino via 600 mila pagine. L’ “Associazione” è forse rimasta l’unica istituzione a difendere il lavoro giudiziario fatto. E nemmeno si sa oggi perché quella bomba –una borsa valigia con cerniera e piedini metallici, riempita di 20-25 chili di esplosivo gelatinato di tipo commerciale, con innesco artigianale di tipo chimico- venne depositata sul tavolinetto portabagagli a 50 centimetri dal suolo della sala d’aspetto di seconda classe. Perché? Era odio politico, odio per le persone, un ricatto, un gioco di potere, un modo per distogliere l’attenzione da qualcosa d’altro? Nessuno dei morti e dei feriti è stato considerato come persona che avrebbe potuto imparare a volare. Sono stati considerati uomini e donne “medi”, da liquidare.
Gli uomini famosi che hanno gestito i soccorsi non sono diventati famosi. Ma forse (non lo so con certezza) il 2 agosto il pullman numero 37, quello che Agide Melloni deviò provvidenzialmente, restaurato, ha fatto il suo ingresso in piazza Maggiore. Qualcuno l’avrà riconosciuto e qualcun altro avrà detto: ma cosa ci fa quel vecchi autobus? Siamo tornati indietro di vent’anni?
Comincia da Marina Gamberetti, 39 anni, un aspetto ancora di ragazza, un po’ giunco, un po’ dinoccolata. Durante l’intervista ha consumato di lacrime un intero pacchetto di fazzoletti Tempo. Lei è l’icona –come se dice adesso- della strage del 2 agosto 1980, per una famosa fotografia che la ritrae appena estratta dalla macerie, la bocca spalancata nel dolore, su una lettiga, quando aveva vent’anni. Nello scoppio sei sue amiche e colleghe della Cigar-Buffet della Stazione erano rimasto uccise. Si chiamavano Katia, Nilla, Rita, Lori, Mirella e Franca. Sentendola parlare e piangere mi sono ricordato che nessuno sa ancora spiegare quali meccanismi regolino le nostre ghiandole lacrimali: perché piangiamo al cinema non nelle scene di massimo dolore, ma quando corre un cane o si alza una bandiera; perché restiamo raccontando gli episodi più atroci e poi cadiamo su certe increspature.
Marina Gamberoni ha dovuto spiegare nel corso degli anni a una commissione medica, poi a un’altra e un’altra ancora e poi infine a Roma, all’Ospedale militare -dove era l’unica donna sulla scena e questo fatto, invece che piangere, la fece ridere- perché si trovasse alle 10,25 di quel sabato 2 agosto nel locali della Cigar e se ne era autorizzata davvero. Il tutto per un piccolo indennizzo. La ragazza di vent’anni aveva avuto la frattura del cranio (zona occipito-parietale), la milza spappolata, il corpo piagato.
Poi Marina Gamberoni ha raccontato quanto le pesi quella foto-icona, e quanto, nello stesso tempo, non ne possa fare a meno. Sa che la gente sa chi è. Sa che la gente che incontra sa che lei è uscita fragile da quel trauma, e quindi ne approfitta per scaricare su di lei le proprie fragilità. Ha un bel bambino di cinque anni, Gianluca, cui ha spiegato qualcosa riguardo alla cattiveria e alla punizione. L’ha anche portato, una volta sola però, in manifestazione. Suo marito faceva il fotolitista e oggi fa il panificatore. Spesso ha il mal di testa e non sopporta la compagnia di altre persone. Le chiedono, se non la conosco: che cos’hai, Marina? E lei dice, il più delle volte: un vecchio incidente, postumi, niente di speciale. Altre volte, invece, dice: sono una sopravvissuta della bomba alla stazione di Bologna, 2 agosto 1980, la mia faccia è andata sui giornali di tutto il mondo, il fotografo che l’ha scattata mi ha anche fotografata quando è nato il mio bambino, le mie sei amiche della Cigar sono morte. Io avevo vent’anni, ero nel percorso della vita in cui il carattere si forma.
Dei pensieri costanti che emergono in superficie, uno non possa davvero mai e riguarda il suo “percorso”, spezzato non per una sua scelta; un altro, il destino che ha salvato lei e non le sue amiche; e poi, insistente, “il pensiero che aveva chi ha messo la bomba. E come poteva pensare che il suo pensiero, qualunque fosse, avesse bisogno di tanti morti per realizzarsi. Che pensiero e quel pensiero che ha bisogno di morti? Pensava che il riconoscimento sarebbe stata la notorietà? Era questo che cercava? Pensava di scrivere il suo nome nella storia, questo è sicuro. Perché chi fa scoppiare una bomba in una stazione sa che entrerà nella storia”.
Il monologo di Marina Gamberoni, lungo come dieci fazzoletti di carta Tempo, è il racconto delle ferite interne, del trauma che non passa, l’elogio della necessità di sostengo psicologico, la voglia –mi è sembrata sempre più debole- di uscire dell’opacità di immagini e pensieri che salgono e scendono, ma non riescono ad apparire netti e sereni.
Finita l’intervista, spossati, siamo andati a pranzo.
Tutto questo avveniva venerdì 23 luglio scorso, a pochi giorni della fatidica data della diciannovesima commemorazione. A Bologna, in via Polese 22, nel secolare centro storico, con portici che dividono la luce dall’ombra spessa. Strade silenziose, perché le macchine qui sono quasi vietate. Al piano terreno ha sede la poco conosciuta, ma molto meritevole, Università Primo Levi per la Terza Età, che ogni anno promuove decine di corsi di specializzazione, conferenze, gestione culturale del tempo libero. A secondo piano, l’”Associazione tra i famigliari delle vittime alla stazione di Bologna, 2 agosto 1980”, che con gli uffici della Primo Levi divide il bagno.
L’edificio è antichissimo e ancora cento anni fa ospitava una filanda. Il secondo piano, tra balconcini retti da colonne sottili di pietra e ornati di gerani –potrebbe essere, come molte edifici del centro storico di Bologna, che nascondono patii, cortili, giardini, fontanelle, una casa andalusa - era l’appartamento del padrone, con soffitti a volta affrescati di scene bucoliche. Lì oggi a sede un complesso di attività: oltre all’archivio sulle strage, è disponibile la documentazione sulla strage di Ustica (il volo Dc 9 Itavia che partì da Bologna per Palermo il 21 luglio 1980 ed esplose sopra l’isola di Ustica uccidendo le 81 persone che erano a bordo); la documentazione sulle imprese criminali della “Uno Bianca”, ovvero una quarantina di vittime provocate dai fratelli Savi, nazisti per simpatie politiche, di professione potenti poliziotti alla Squadra Mobile di Bologna. E poi ci sono ancora i falconi che ricordano la strage del treno Italicus (1974) e quella, avvenuta esattamente dieci anni dopo nello stesso posto –la galleria di Val di Sembro- del “treno di Natale”, il rapido 904 che da Napoli andava a Milano. Ogni strage, nell’appartamento, ha la sua scrivania, il suo computer, la sua bibliotechina, il suo archivio e i suoi manifesti alle pareti. In tutto collezionano 253 morti e, approssimativamente, 1.500 feriti, in vent’anni di terrore in una zona geografica tutto sommato piccola. (Se qualcuno conosce una località in Europa che negli ultimi cinquant’anni di pace sia stata così martoriata dal terrorismo, me lo dica. A me non ne viene in mente nessuna).
Finita l’intervista, siamo andati a mangiare qualcosa al “Chet Baker”, sempre in via Polese, pochi portoni accanto, che ci ha tenuto aperto nonostante l’ora tarda. E lì, sciolta un po’ la tensione, Marina ha sostenuto che Cigar-Buffet della stazione nel 1980 poteva considerarsi in ristorante di qualità, perché non faceva solo i tortelloni, ma avevo presso a trattare anche la selvaggina. Ma la tavolata è stata scettica. Si è convenuto che era un ristorante medio, sicuramente niente di paragonabile con quello della Gare de Lyon a Parigi e comunque al di sotto di quello che avrebbe potuto essere. E si è convenuto pure che, nonostante dopo la strage tutti i muri siano stati rimessi a posto in tempo record, la stazione non è più stata la stessa. Prima ci si andava dopo il cinema e il teatro, si andava a prendere i giornali freschi a mezzanotte, ci si dava appuntamento. Dopo la bomba, dopo il restauro, non è più stata la stessa cosa. E questa constatazione: di come possano anche gli edifici morire, anche i quartieri, anche le città, nonostante il loro aspetto esteriore sia tornato intatto, è uno dei cuori della questione: che cosa resta del ferimento, quel luogo medio tra salvazione e sommersione, che compare nei primi giorni come statistica, che viene visitato delle autorità negli ospedali, che settimana dopo settimana viene sbendato e poi dimesso. E poi si perde: ma solo perché lo si vuole perdere.
Così, in quella breve discussione, sembrava Bologna, ricordata affettuosamente per quello che era –“quando si andava a mezzanotte a prendere i giornali freschi in stazione”- e per quello che non è più. Il fatto che la sinistra abbia perso il Comune dopo cinquant’anni; il fatto che parecchi accenni si riferivano alla stazione come luogo di ritrovo, ormai, dei soli immigrati africani, ha aggiunto la sensazione di un passato che, mitologicamente, si ricordava felice.
L’agosto successivo alla strage, Carmelo Bene recitò Dante –Inferno, Purgatorio, Paradiso- dal balcone della Torre degli Asinelli. Sotto di lui, presa da incantamento, c’era mezza Bologna ad ascoltare. Improvvisamente, Carmelo Bene gridò: “I Feriti! Nelle stragi tutti ricordano i morti, nessuno ricorda i feriti!”.
Facevamo questi discorsi al Chet Baker di via Polese. Un bel locale, dove la sera e la notte, da ottobre a maggio, si fa jazz dal vivo. Il titolare lo fondò nell’88, proprio quando il grande jazzista morì precipitando da una stanza d’albergo ad Amsterdam. E lì sono venuti a suonare Nicola Arigliano, Lucio Dalla col clarinetto, Clifford Jordan, Sal Nistico, Kenny Barron, Vinicio Capossela. Anche Romano Mussolini. “Jimmy Villotti, musicista, ma anche scrittore noir di qui”, mi dice il titolare Gilberto Baroni, “ha ambientato qui un suo libro, Gli sbudellati, dove c’è uno che muore proprio nel bagno del ristorante. Per cosa? Diciamo, per il male di vivere. I clienti mi chiedono si è vero o finzione. Però vengono, non c’è problema”. Si va meno alla stazione, si va di più al Chet Baker. Benetton paga 800 milioni per affiggere i suoi manifesti sulla piazza –quelli grandi dove ci sono il Bianco e il Nero- ma non li mette dentro la stazione, dove pagherebbe meno e sarebbero visti da centinaia di persone. E non c’è più il ristorante, e ci potrebbe essere un’orchestrina che fa del jazz, ma non c’è. Sono state proposte anche sfilate di moda, o l’esposizione dei vecchi treni, ma non è stato fatto niente. E nessuno, neanche il più ingenuo artista di strada, qui si metterebbe a suonare La locomotiva di Francesco Guccini. Perché, quel giorno, per milioni di italiani, è passata l’ala del destino: Ma sai che mia sorella doveva prendere quel treno? Ma sai che sono passato il giorno prima? Ma sai che dovevo andare a Venezia e invece sono andato in Toscana? Chi mise la bomba sapeva tutto ciò: che quel giorno milioni di italiani erano in viaggio per le vacanze e Bologna è il più importante nodo ferroviario italiano.
Primo, gli occhiali. Il 2 agosto 1980 il primo ferito che si presentò a Elio Nichelini, che si trovò a coordinare i soccorsi, fu uno svizzero di nome Hans Husrt, era alla stazione in attesa di andare in vacanze a Belluria. Non era sbudellato, ma pieno di schegge di vetro e con le vesti insanguinate e stracciate. Venne accompagnato da un ottico che gli diede un paio di occhiali (i suoi erano andati persi) e alla Upim, dove lo rivestirono. Poi ripartì e non se ne seppe più niente. Molti altri dei feriti o dei parenti dei morti sono rimasti suoi amici. Si frequentano, si telefonano , ma non si parla più della bomba. Nichelini, ironico, per descriversi com’è ora, funzionario della Protezione civile, racconta: “Io sono uno dell’ultimo soccorso rosso. Ero in vacanza a Sydney, Australia. Mi hanno telefonato,ho interrotto le ferie per venire a votare la Bartolini”.
Paola Sola, dipendente dell’assessore al Decentramento, Miriam Ridolfi, quella mattina era con suo marito in gita in bicicletta sulle colline. Si fermarono intorno all’una in una trattoria e sentirono la televisione che annunciava un disastro alla stazione di Bologna. Paola ancora adesso non riesce a capacitarsi del perché abbia distintamente sentito “stazione di Cracivia”. Fu un avventore che la prese per un braccio e le disse: “Bologna”. Scesero in bicicletta delle colline, videro da lontano il fumo che si alzava dalla stazione; Paola sentì che le sue gambe affondavano nella terra, poi prese coraggio, andò in assessorato e vi lavorò senza interruzione per una settimana. Poi venne distaccata dal Comune all’Associazione, dove lavora da 19 anni. Ha raccolto tutte le notizie dei morti e dei feriti, le ha catalogate. Per un accordo con la Polizia ferroviaria, all’Associazione vengono consegnati ancora oggi tutti gli oggetti che hanno riferimento alla strage: e così negli scatoloni ci sono coccarde, striscioni che hanno ornato le corone, rosari, croci, crocifissi, santini, poesie, volantini di associazioni di podisti, di ciclisti, di sportivi in genere, lettere, preghiere, disegni (l’orgoglio fermo sulle 10,25 è il più frequente), fotografie. In un altro scatolone ci sono invece i fogli protocollo di quella che fu, in Italia, la più fantastica organizzazione di soccorso che si sia mai vista in Italia. Sono scritto a biro e a matita, divisi per quartiere. I morti e i feriti sono divisi per zone, oppure segnalati come “anziani”, “vedovi”,”famiglie numerose”. A matita sono scritte frasi come: “Consegnati giocattoli”, “Sistemati in albergo”, “La signora ha detto che non vuole niente”, “Mandata una vicina”, “Risolto”, “Controllare”, “Sandali numero 38”. Rimangono anche di quel giorno le registrazioni audio dei ponti radio: sono voci tranquille, operative: Rh negativo –Ok- Ricevuto Indipendenza- Segnalati otto posti liberi a Cervia - Do gli ultimi nominativi… Le piccole scritte e le anonime voci formano un lungo coro, molto semplice.
Ivano Paolini era all’epoca il responsabile dei cantieri del Comune di Bologna. Sentì lo scoppio, saltò sulla Vespa e andò a vedere. Di fronte alla stazione, una spessa nuvola di polvere non si decideva a venire giù, respirare era quasi impossibile. Prese spontaneamente il comando delle operazioni, per primo facendo venire le autobotti per fare calare la polvere. “Si parlava allora di una caldaia scoppiata, ma io sentivo un odore strano, che mi ricordava le bombe della guerra”.
Paolini mise sotto il suo comando facchini, polizia ferroviaria, taxista e organizzò la rimozione delle macerie. Paolini oggi è in pensione, ha una faccia che assomiglia a quella di William Devane (un caratterista che spesso fa la parte del colonnello e che in Yankees aveva un amore Vanessa Redgrave). E’ un decisionista. Non è mai andato alle commemorazioni perché non gli piacciono i “funerali di Stato”. Va spesso, sempre in Vespa, alla stazione, davanti alla lapide e legge i nomi dei morti.
Agide Melloni, oggi pensionato a Imola, era il conducente dell’autobus 37. Lo deviò verso il piazzale della stazione. L’autobus diventò una camera mortuaria, con le fiancate coperte da lenzuoli bianchi. Dentro vennero sistemati e ricomposti i cadaveri che venivano estratti. Quel sistema, inventato sul momento, fu decisivo per rendere veloci le operazioni di soccorso.
“Vorrei ricordare Dini Ernesto”. Elio Nichelini ricorda: “Una grande fortuna fu l’attivazione del 118, numero telefonico che da poco, e per la prima volta in Italia, centralizzava le emergenze, sotto il nome di Bologna soccorso. Questo ci permise di gestire la destinazione degli ospedali. I ponti radio funzionarono. Già a mezzogiorno sulle spiagge di Rimini gli altoparlanti facevano appello per il sangue. Lavorammo bene con la Prefettura e voglio ricordare in particolare il funzionario Dini Ernesto. Capimmo subito che non avremmo retto al peso di funerali di massa e così decidemmo di spedire ai loro luoghi d’origine le salme. Trovammo una grande solidarietà dall’Alitalia, dalle Ferrovie dello Stato. Tutti si misero a servizio gratuito. Ho un gran ricordo anche dei famigliari dei colpiti. Non ho mai visto nessuno di loro trascendere, tutti erano molto dignitosi. Se ci furono persone che presero inaspettatamente il comando? Sì, ce ne furono molte. Mi ricordo anche che nell’attentato vennero gravemente feriti due turisti svedesi. La Svezia mandò un aereo medico a prenderli e i funzionari erano strabiliati del nostro lavoro. Erano convinti che avessimo un piano di allerta, di emergenza . E invece non l’avevamo. Tutto quello che facemmo non era stato preparato”.
Paola Sosa: “All’assessorato ci trovammo con mille problemi personali. Ma il primo fu quello dei fiori. Bologna il 2 agosto era una città in ferie, i fioristi erano chiusi. Furono le donne del quartiere di Corticella che fecero le corone…Ma il lavoro continuò bene oltre l’emergenza dei primi giorni. E’ continuato bene, direi, per tutti questi 19 anni. Ci sono due famiglie inglesi, i Mitchell e i Golpinski, che hanno avuto i figli morti, che ci vengono a trovare tutti gli anni. Lo stesso fa la signora Mϋller, svizzera. I bambini che hanno avuto amputazioni sono stati seguiti negli anni perché le protesi vanno cambiate con lo sviluppo del corpo. Gli ustionati hanno avuto bisogno anche di 15 operazioni di plastica. I vetri conficcati nella carne continuano, anche a distanza di anni, a viaggiare nel corpo e vengono in superficie. Anche gli effetti dell’esplosivo si fanno sentire a distanza di anni: esplosioni di calore, malattie della pelle. Poi abbiamo seguito tutte le pratiche di indennizzo. E tutto è stato fatto con donazioni private, a cominciare da quella promossa subito dal Resto del Carlino e dal Comune”.
Elio Michelini: “Tutti lavorarono gratuitamente. Gli albergatori della riviera si comportarono molto bene. Mi ricordo anche che, unica, dopo mesi ci venne una fattura da una parrocchia di Verona, per dei fiori che ci avevano mandato. Non ricordo se la pagammo”.
Una ragazza della Cigar venne data per dispersa, ma dopo un giorno si scoprì che il suo cadavere era stato scaraventato sul soffitto. Un ragazzo, i genitori lo credevano a Londra ed effettivamente nei vestiti venne trovato un biglietto della metropolitana di Londra. Una ragazza di Ravenna, su richiesta dei genitori, venne rivestita con un abito bianco da sposa, prima di essere portata via. Marco Bolognesi, sei anni, venne estratto da un facchino che credete di aver dissotterrato una bambina morta. Il padre lo riconobbe –nel corpo tutto nero- per una voglia all’inguine. La più vecchia delle vittime aveva 86 anni e si chiamava Antonio Montanari. La più giovane, tre anni, si chiamava Angela Fresu. L’unico turista giapponese (allora erano pochi) si chiamava Iwao Sekiguchi, di 20 anni. Altre otto vittime venivano dalla Francia, dalla Svizzera, dalla Germania e dall’Inghilterra. I feriti sono stati calcolati in 300. E’opinione di tutti i competenti che la rapidità e l’efficienza delle operazioni di soccorso abbia notevolmente abbassato il conteggio finale delle vittime. Un ferito, Angelo Priore, di 26 anni, diventò l’ultima vittima perché morì 100 giorni dopo l’attentato. Il suo nome venne collocato per ultimo nella lapide che ricorda tutti alla stazione di Bologna, sotto l’intestazione “Vittime del terrorismo fascista”. Sono passati 19 anni. All’epoca, nel quartiere Corticella –e più precisamente a Villa Torchi, sede del Centro Anziani di via Colombarola- vennero messi a dimora degli ippocastani, ognuno dei quali aveva una targa dorata con il nome di uno dei bambini morti alla stazione. Ora sarebbe difficile vedere quelle targhe, perché la propulsione degli ippocastani le ha spinte molto in alto.
Miriam Ridolfi: “Una delle prime telefonate che ricevetti fu di un ottico. Mi disse che stava andando a riaprire il negozio e che era a disposizione. Lo ringraziai, ma lì per lì non capivo la ragione. Mi disse: Signora, lei non ha idea di quanta gente avrà perso o rotto gli occhiali”. La professoressa Ridolfi era stata da appena tre giorni nominata “assessore al Decentramento”. Romagnola di Forlì, allora aveva 36 anni, capelli rossi e lentiggini e ci tiene a ricordare quanti diversi fossero i tempi e quanto quella diversità permise ai soccorsi “di volare”. “A Bologna c’erano all’epoca i consigli di quartiere, 18 in tutto, ed erano una cosa strana: assemblee popolari, contestazione sulle scelte del centro, proposte locali. Era la novità di Bologna, un’esperienza unica, che significava tante cose: che il bambino handicappato andava a scuola non tanto perché un regolamento lo sanciva, quanto perché il suo amichetto spingeva la carrozzina. Si poteva fare i certificati in quartiere, ma più importante era che l’impiegata sapeva l’importanza di quel certificato. E’ stata questa esperienza popolare che ha permesso l’organizzazione dei soccorsi; la gestione, persona per persona, dei casi umani che ci arrivavano. Noi avemmo la possibilità , proprio per quel tipo di funzionamento, di affrontare casi personali, non numeri. E questo, a mio parere, oggi non c’è più. I consigli del quartiere sono stati presto sostituiti dalla circoscrizioni, da 18 sono diventati nove. E sono routine, pura e semplice. E invece, sa che cosa insegnammo noi allora? Che le abitudini del cuore potevano prendere il sopravvento e che si poteva volare”.
Miriam Ridolfi è stata poi preside al liceo Righi di Bologna e oggi è in pensione. Non ha più i capelli rossi, non ha più lentiggini, ma la scuola le è rimasta come centro di interessi e non ha paura di essere controcorrente. “Io non sono mai stata una grande sostenitrice dei corsi di ricupero”, mi spiega. “Certo, è ovvio, persino banale, che si uno studente va male in matematica, bisogna appoggiarlo per evitare che perda l’anno. Ma molto più interessante, stimolante, fantastico, è aiutare chi è bravo. Quando lei ha davanti un ragazzo che capisce la poesia, che capisce la storia, che ha talento nel disegno, lì bisogna intervenire, perché quel talento si sviluppi al massimo delle potenzialità, perché le vengano date le ali, perché voli. Questa è la mia idea di scuola, e di società. E questo è quello che avvenne in quei giorni: le persone furono spinte a dare il meglio di sé. E avrebbe potuto essere il modello di una società diversa. Le faccio un esempio che potrà sembrare piccolo, ma non è. Nei giorni dell’emergenza le macchine dei vigili urbani furono autorizzate a portare civili, cosa che il regolamento vieta. Così parenti delle vittime, persone in cerca dei loro cari, chiunque, poté essere portato agli ospedali, ai centri di raccolta, alle camere mortuarie. Fu importante, mi creda. E avrebbe dovuto essere preso ad esempio, ma i taxisti non vollero e non se ne fece più niente. Di tutto quel mondo, io credo non esista più molto. Vedo bambini che vanno solo in gara, col cronometro a fare nuoto. Vedo anoressie, autismi di ritorno, che una volta non c’erano. E in generale vedo che governiamo solo il negativo, invece di insegnare a volare. Anche questo volontariato di cui si parla tanto ora: è bello, sì. Ma a me, tante volte, viene il dubbio che sia un volontariato di routine, a alle volte un volontariato pagato”.
L’Associazione. L’associazione 2 agosto è oggi retta da Paolo Bolognesi, il padre di quel bambino che venne scambiato per una bambina morta e che oggi, dopo numerosi interventi di plastica,è un bellissimo ragazzo che studia al Dams e dipinge. Ci dice che alla manifestazione aveva chiesto la presenza del presidente Ciampi, ma ciò non è stato possibile. Ha un ottimo rapporto con il sindaco Guazzaloca che, in passato, come presidente dell’Ascom – a Bologna forte di 15 mila aderenti- era stato uno dei più generosi sottoscrittori. L’associazione ha informatizzato le 600 mila pagine dell’inchiesta giudiziaria, ha pubblicato le varie sentenze che si sono succedute, ha messo in rete un database poderoso che segnala tutti i links tra le carte di Bologna e molti altri processi di eversione e terrorismo. E, naturalmente, si occupa ancora del sostegno ai feriti.
A lavorare a tempo pieno sono in due: Paola Sola e il giovane impiegato, Andrea Destro, ambedue impiegati distaccati del Comune. Così come è del Comune la sede. Bolognesi è succeduto nel 1995 a Torquato Secci, che molti ricorderanno come quella persona dal viso magro e severo, assolutamente intransigente di fronte a qualsiasi possibilità di amnistie, sconti di pena, indulti a favore dei terroristi e come “il motore” che seguì i vari processi fino alla sentenza finale. Alla stazione aveva perso un figlio, Sergio, laureato al Dams con una tesi sul “Bread and Puppet Theatre”: era un figli del ’77, quel ragazzo, e del suo gruppo che si presentò a sostenere l’esame dal professor Umberto Eco facevano parte alcuni degli Skiantos, un altro che ha poi preso il dottorato a Parigi, un altro ancora che ha prodotto una tesi di 600 pagine. Quando fu colpiti, era appena tornato da un lungo viaggio di studio negli Usa, dove aveva ricostruito la storia de quello strano teatro di burattini, che sostiene che “l’intrattenimento non può essere separato dallo stomaco”, per cui durante le rappresentazioni è bene distribuire anche delle pagnotte di pane. Aveva vissuto con loro, era andato a trovare –in omaggio al padre-mito - Stefan Brecht, il figlio di Bertolt.
Paolo Bolognesi –55 anni, ex funzionario della finanziaria della Lega delle Cooperative, oggi assicuratore in proprio – traccia però un bilancio negativo, per quello che era il vero obbiettivo dell’associazione: togliere il segreto di Stato dalle inchieste sulle stragi. Una legge di iniziativa popolare con questo solo e unico articolo aveva raccolto –dodici anni fa!- 100 mila firme, ma nessuno in Senato o in Parlamento l’ha mai presa in considerazione. Così come molto defatigante è stato ottenere piccole leggine che garantissero risarcimenti ai colpiti. I governi di centrosinistra non si sono comportati meglio degli altri, dice Bolognesi. Però il loro esponenti avevano esplicitamente fatto di questo punto, un punto d’onore. Questo, conclude, dirà dal palco. E aggiungerà la protesta per la concessione della semilibertà ai due condannati come esecutori della strage.
Una borsa con piedini metallici. L’Italia è molto cambiata in 19 anni. Nel 1980 non esistevano i computer e le fotocopiatrici erano un piccolo lusso. Non c’era la televisione privata e c’era ancora il comunismo. Il Paese, governato da Francesco Cossiga, non si era ancora ripreso dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro. Benché non lo si sapesse ancora, un’organizzazione segreta, la loggia P2, comandata dal Venerabile Licio Gelli, aveva nella sua disponibilità la quasi totalità dei vertici dei servizi segreti, molti generali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, diversi parlamentari, funzionari dello Stato, industriali, banchieri, giornalisti. In una Sicilia allora poco frequentata dall’attenzione, Cosa Nostra era al massimo della sua potenza, decidendo la destinazione del denaro pubblico e ai vertici del commercio mondiale di eroina. I suoi proventi venivano (anche) amministrati dal principale banchiere privato italiano, Roberto Calvi, del Banco Ambrosiano di Milano, dopo che il precedente fiduciario, Michele Sindona, aveva ormai finito la sua corsa. Era un anno molto feroce. Benché i servizi segreti avessero consegnato, in maggio, la consueta relazione semestrale definendo “l’attività eversiva della destra in flessione quantitativa”, essa era invece particolarmente attiva. Rapine, omicidi, attentati, furti di armi ed esplosivi si susseguivano. Il 23 di giugno veniva ucciso l’unico magistrato che, a Roma, si occupava della destra, Mario Amato. Il 30 luglio, alle due di notte,esplodeva un’autobomba collocata di fronte al municipio di Milano, pochi minuti prima dell’uscita dei consiglieri comunali. I fogli e i dettami, semiclandestini, della destra eversiva parlavano esplicitamente: nella lotta al “pluto-marxismo” occorre “un’esplosione da cui non escano che fantasmi”; il “terrorismo deve essere definito come l’aereo da bombardamento del popolo”; “bisogna arrivare al punto che non solo gli aerei, ma le navi e i treni e le strade siano insicure: bisogna ripristinare il terrore e la paralisi della circolazione”; e ancora, in previsione di una grande azione “la massa della popolazione, che all’inizio possiamo ritenere sostanzialmente neutrale, sarà naturalmente portata a temerci e ad ammirarci, disprezzando nel contempo lo Stato per la sua incapacità a difendersi e a difenderla”. Infine, come indicazione si scriveva: “portare l’offensiva nella zone controllate dal nemico”.
Questo il “contesto” che ha guidato l’inchiesta giudiziaria. Ma ciò che più stupisce rileggendo le carte è la quantità di truffe che lo Stato ha messo in atto per allontanare la verità su quella bomba. False piste e false segnalazioni, non collaborazione a qualsiasi passo, ostruzionismo, intimidazioni.
A processo furono portati, oltre ad alcuni ufficiali del Sismi e al loro tutore Licio Gelli, due giovani come esecutori materiali della strage, Francesca Mambro (ventunenne all’epoca) e Valerio Fioravanti (ventiduenne all’epoca), le “star” del terrorismo fascista di quegli anni. Il primo processo li condannò all’ergastolo, l’appello li assolse. Le sanzioni unite della Cassazione ordinarono di rifare il processo. Un altro appello li ricondannò all’ergastolo, la Cassazione, di nuovo a sezioni unite, rese definitiva la sentenza. Si era nel 1995. Nella motivazione si legge che contro i due esecutori è stato raccolto “un importante quadro indiziario”. Un comitato per Fioravanti e Mambro - “E se fossero innocenti?”- raduna oggi molte importanti personalità della sinistra. Il presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino ha più volte espresso dubbi sulla verità giudiziaria, e lo stesso fa un altro giudice , Guido Salvini, che ha indagato sulla strage di piazza Fontana. La posizione di un terzo possibile esecutore, Luigi Ciavardini, minorenne all’epoca dei fatti, venne stralciata. Ma il processo contro di lui non è mai iniziato. Nuove piste sono state proposte, negli ultime anni, in continuazione: una pista libica, una pista francese, una pista sudanese, una pista Carlos. Nuovi scenari hanno proposto che i due condannati siano parte di un gioco più grosso, capri espiatori preparati ad arte.
Nessun uomo politico, nessun appartenente ai servizi segreti o alla P2 si è mai “pentito” e nessun governo ha mai accettato di togliere i segreti di Stato che gravano sull’inchiesta. Fioravanti e Mambro, dopo 18 anni di carcere per una innumerevole serie di altri gravi reati, sono stati posti in regime di semilibertà. La destra parlamentare, per ora sottovoce, chiede che cominci una “revisione storica” della bomba alla stazione, in pratica perché si buttino via 600 mila pagine. L’ “Associazione” è forse rimasta l’unica istituzione a difendere il lavoro giudiziario fatto. E nemmeno si sa oggi perché quella bomba –una borsa valigia con cerniera e piedini metallici, riempita di 20-25 chili di esplosivo gelatinato di tipo commerciale, con innesco artigianale di tipo chimico- venne depositata sul tavolinetto portabagagli a 50 centimetri dal suolo della sala d’aspetto di seconda classe. Perché? Era odio politico, odio per le persone, un ricatto, un gioco di potere, un modo per distogliere l’attenzione da qualcosa d’altro? Nessuno dei morti e dei feriti è stato considerato come persona che avrebbe potuto imparare a volare. Sono stati considerati uomini e donne “medi”, da liquidare.
Gli uomini famosi che hanno gestito i soccorsi non sono diventati famosi. Ma forse (non lo so con certezza) il 2 agosto il pullman numero 37, quello che Agide Melloni deviò provvidenzialmente, restaurato, ha fatto il suo ingresso in piazza Maggiore. Qualcuno l’avrà riconosciuto e qualcun altro avrà detto: ma cosa ci fa quel vecchi autobus? Siamo tornati indietro di vent’anni?
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Documenti
Bologna, 2 agosto 1980
La vicenda politico-giudiziaria A cura dell'Associazione familiari delle vittime strage di Bologna |
Bologna, 2 agosto 1980
Le vittime A cura dell'Associazione familiari delle vittime strage di Bologna |
Bologna, 2 agosto 1980
La ricostruzione della strage A cura dell'Associazione familiari delle vittime strage di Bologna |
2 agosto 1980
3. La strage di Bologna Dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Terrorismo. |
In Rete
Un archivio storico-giornalistico frutto del lavoro di due cronisti, Fabrizio Colarieti e Daniele Biacchessi, che "raccoglie documenti di cui è accertata la provenienza e di cui viene sempre citata la fonte" sulla strage di Ustica del 27 giugno 1980 e su quella alla stazione di Bologna del 2 agosto dello stesso anno. In costruzione una nuova sezione dedicata alle bombe del 1993 a Roma, Firenze e Milano.
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di Giuseppe Zamberletti edito da Franco Angeli, 1995
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di Gianluca Semprini edito da Bietti Edizioni, 2003
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di Beatrice Tedeschi edito da Minerva Edizioni, 2006
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La compagna dell'anarchico chiamata alla giornata delle vittime
Gemma Calabresi accoglie la Pinelli
«Giusto l'invito del Colle». Ma le associazioni dei familiari si dividono
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di Claudio Del Frate su Corriere della Sera del 07/05/2009
La nuova inchiesta Lo «Sciacallo» tira in ballo i servizi segreti americani. Torna la pista del tedesco Kram
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di Biagio Marsiglia su Corriere della Sera del 26/04/2009
di Gianluca Di Feo su L'Espresso del 30/07/2007
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su La Repubblica del 02/08/2007
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Prodi: "Le vittime hanno bisogno di verità per perdonare, e anche la democrazia ne ha bisogno". Napolitano: "Indispensabile mantenere viva la memoria di quella drammatica stagione"
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su La Repubblica del 02/08/2007
Comunicato stampa: dal libro di Riccardo Bocca rivelazioni sulla strage di Bologna
Fonte: Associazione Familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna
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su redazione del 28/06/2007