Da La Repubblica del 04/09/1982
Il generale nel suo labirinto
di Giorgio Bocca
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Ho incontrato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo, il sabato 7 agosto. Credo sia stata la sua ultima intervista. Nelle sue parole comunque, c'era qualcosa di definitivo, come una scommessa totale, finale. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa l'ha persa e l'ha fatta perdere alla sua giovane moglie che del resto era decisa a condividerne i rischi e la sorte.
E' stata più forte la mafia, come si poteva prevedere, come nei limiti dell'educazione cercai di dirgli quel giorno quando ci trovammo a tavola, sua moglie lui ed io in un noto ristorante a mare, tre foresti seguiti dagli occhi dell'establishment. Credo di avergli detto proprio così: generale, lei è stato qui a Palermo per sei anni, dal '67 al '73. Lei è convinto di conoscere la mafia. Ma come può pensare che le lascino mettere a nudo i legami tra la mafia e il potere politico? Lei generale li ha letti, no, gli atti dell'antimafia? Dove sono finiti i deputati, i dirigenti industriali, i notabili che secondo la commissione d'inchiesta avevano lavorato per la mafia, lucrato con la mafia, avuto dalla mafia votazioni preferenziali impudenti, trecentomila voti di preferenza a persone sin lì sconosciute che si presentavano per la prima volta alle elezioni? (...) Ma i tempi sono cambiati, la mafia uccide tutti e il generale Dalla Chiesa lo sapeva. "Generale, se volessero potrebbero ucciderci tutti e tre a questo tavolo". "Spero di no diceva lui non sarebbe cortese da parte mia averla invitata qui a Palermo. Ma, vede, noi l'abbiamo messo sul conto, io e lei". E guardava la moglie, crocerossina bionda con gli occhi azzurri che sorrideva devota. Sì, anche lei l'aveva messo nel conto. Questo generale Dalla Chiesa certe volte non sapevamo bene come prenderlo con le sue vene retoriche: ci riceveva nell'ufficio dell'Arma, con la sua statua del carabiniere sulla scrivania, diceva cose interessanti, da grande professionista del terrorismo, ma non rinunciava all'aneddoto deamicisiano: il capodanno passato con i carabinieri di guardia a Ponte San Luigi al confine con la Francia; le commozioni per le bandiere, per gli alamari, per tutto ciò sembrava arrivare da un mondo lontano, dal quadrato di Villafranca.
Ma come si è buon carabiniere se non si crede a queste cose, se non si hanno di queste memorie? Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era un uomo difficile da giudicare proprio perché in certo modo ambiguo: carabiniere, fratello di carabinieri, figlio di carabinieri, un figlio della piccola aristocrazia piemontese abituata da secoli al servizio delle armi, l'uomo delle grandi retoriche; ma anche un esperto della politica italiana, dei suoi retroscena, dei modi per sopravvivere con i signori del palazzo, con la stampa, con i mass-media.
Perché allora un uomo così esperto, così scaltro aveva accettato la scommessa impari con la mafia? Perché fingeva di non capire ciò che il cronista arrivato da Milano su suo invito continuava a ricordargli: ma generale, lei chiede i pieni poteri sui prefetti, sui questori; lei vuole coordinare la lotta alla mafia, controllare le banche, entrare nel commercio della droga. Ma generale non lo vede che questa grande città vive della droga? Non lo sa che i mafiosi sono nel palazzo? (...) La verità è che Dalla Chiesa, l'uomo forte, il generale di ferro, lo sterminatore di terroristi, è stato mandato a Palermo allo sbaraglio. (...) Ma chi lo ha mandato a Palermo doveva pur saperlo che lo mandava a rischi supremi: di pessime figure e di morte. La richiesta insistente che Dalla Chiesa ha fatto di pieni poteri è stato il suo ultimo gesto retorico, la sua ultima parte nella recita di un grande Stato, di uno Stato serio che non c'è. Dalla Chiesa e sua moglie vanno alla sepoltura. La mafia resta.
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