Milano, 5 giugno 1980
Discorso di commemorazione del 166° anniversario della fondazione dell'arma dei Carabinieri
Documento aggiornato al 04/09/2006
Ufficiali, Sottufficiali, Appuntati, Carabinieri
E’ per noi motivo di orgoglio che la massime Autorità religiose, civili e militari, ed esponenti del mondo dell’economia, del lavoro, della cultura, della stampa di questa nobile e laboriosa città di Milano, ci abbiano onorato con la loro presenza nel giorno celebrativo della festa dell’Arma. Una presenza tanto più ambita e significativa, quanto più scarna ed austera vuol essere la cerimonia; una presenza per la quale esprimiamo gratitudine e l’assicurazione che, anche dalla loro adesione, sapremo trarre la forza per il nostro procedere; una presenza, infine, quella di magistrati e funzionari della P.S., che vorrei sottolineare per la solidarietà che, in Milano, ci lega nella difesa del bene e delle Istituzioni.
A voi, rappresentanti delle valorose Armi, di Corpi e di Servizi, che, stretti ai vostri labari e alle vostre Associazioni, rappresentate idealmente i tanti e tanti Caduti nel cratere della fede, giunga il nostro commosso pensiero.
Agli uomini in congedo della nostra Arma, qui numerosissimo – con le bandiere di tante Sezioni – ad esprimere il loro credo inalterato in quei simboli del valore di sempre, e la loro solidarietà alle fatiche di commilitoni in servizio, il nostro abbraccio fraterno.
Ed a voi, infine, carabinieri tutti, di ogni ordine e grado che, riuniti in questo cortile, rappresentate le migliaia e migliaia di colleghi che servono l’Italia e le sue genti nell’ambito della I Divisione “Pastrengo”, in questo immenso teatro di lavoro onesto e pulito, giunga il mio orgoglio, la mia fierezza di Comandante.
Mentre celebriamo i 166 anni della nostra Istituzione, nello stupendo proscenio del nostro passato che d’improvviso si affaccia, potrei anche cogliere – come noi amiamo – i valori della “tradizione”; di una tradizione che sa di squadroni e sciabole, di tappe del Risorgimento, di briganti, di lucerne in grigioverde appese ai fili spinati, di bende e sangue e tanto azzurro, su rocce, su steppe, su selle ed acrocori lontani; di una tradizione alla quale noi spesso ancoriamo il diritto a guardare - senza iattanza ma a testa alta – un qualsivoglia interlocutore.
Ma là dove la realtà incalza giorno dopo giorno per dirci della sua brutalità, anche la più nobile delle tradizioni apparirebbe oggi quale stinta oleografia, su cui la patina della sufficienza potrebbe aggiungersi a mortificare i credenti.
E le genti, nell’inquieto succedersi degli eventi, pretendono con l’ansia di chi crede, di chi vuol comunque credere che – al di là delle nostre pur belle tradizioni – sulle strade, sulle piazze, nelle valli continui a vivere, a vibrare a respirare solo la storia; perché la storia non mente; senza fiabe, senza leggende, senza miti, senza retorica; con la forza concreta ed esclusiva delle sue verità:
Ecco perché mentre poc’anzi abbiamo deposto – tutti uniti – una corona d’alloro, il pensiero commosso è corso a quello stupendo e men conosciuto “Monumento al carabiniere” che – nella città di Torino, culla dell’Arma – da oltre cinquanta anni custodisce la volontà ed il contributo alla sua realizzazione da parte di ben 8.400 Comuni d’Italia; là, tra i tanti del basamento, c’è un pannello su cui tre giovanissimi carabinieri appaiono nell’atto di sorreggere – con il corpo proteso in uno sforzo immane – una grossa parete in rovina, mentre un loro commilitone si china per trarne salva una vita umana, un essere fragile, una donna.
Fu certamente il terremoto di Messina del 1908 ad ispirare il maestro Rubino; ed è altrettanto certo che la storia fece poi eco nel 1968 con il sisma del Belice quando, alle tre della notte, nel crollo dell’intero centro di S. Ninfa di Trapani, nel tumulto di una terra sconvolta, io vidi un bravo Comandante di Stazione lasciare la giovane moglie incinta ed avventurarsi da solo, tra le macerie, con una piccola torcia in mano alla ricerca di un gemito; e la storia si ripeté più di recente ad Osoppo, a Gemona, a Tarcento ed in tante altre località del Friuli ove i carabinieri, nell’immane disastro, eressero sulle tende delle loro stazioni lo stemma dello Stato.
Si, lo stemma dello Stato. Contro gli sciacalli di sempre, fianco a fianco con i valorosi soldati di tante Armi e Specialità; senza nulla chiedere!
Fu proprio in quel contesto, fu nel tormento e nel travaglio di far tacere la tradizione e di dar respiro alla storia, che giunsi ad idealizzare quegli stessi giovanissimi tre carabinieri; come se quella grossa parete, prossima a rovinare, ed affidata più alla forza delle loro divise che a quella della loro fisica prestanza, richiamasse prepotente ad una situazione di fondo, da cui ogni crepa, ogni precipitare, ogni rovinio potrebbe travolgere e schiacciare soltanto l’inerme, l’umile, l’indifeso.
E’ proprio perché la storia soccorra nel dar vigore alle mie parole, che intendo attingere oggi a qualche verità.
E’ una verità, ad esempio, che la Costituzione nella quale viviamo, che molti rammentano e che ogni giorno noi difendiamo, ha visto tra i suoi artefici più autentici 2115 Ufficiali, Sottufficiali e carabinieri caduti ed altri 6500 feriti; e, fra tutti, i nostri martiri di Cefalonia, delle Fosse Ardeatine, di Radicofani, di Fiesole.
E’ una verità quella che, alle vostre spalle, si affaccia e si traduce nella forte figura di un Salvo d’Acquisto, quasi che, con il petto ampio e generoso, voglia difendervi e dirvi – ancora una volta – che quando per la salvezza del nostro prossimo è e deve essere il tributo della vita, è con voi , è con noi la benedizione delle contrade più lontane d’Italia.
E’ una verità quella che, a voi di fonte, pone taluni tra i valorosi tuttora viventi, e tra essi – di quell’epoca – il Comandante della Brigata “Cento Croci”, poi elevata dal C.L.N. al rango di Divisione partigiana, operante al confine del Piemonte e della Liguria; una figura eroica, rimasta negli archivi e nella leggenda con il nome di “Richetto”; due volte ferito in combattimento, tre volte evaso dalle mani dei suoi carcerieri, protagonista di decine di scontri vittoriosi. Ebbene questo “Richetto” che, già Comandante eroico di una Divisione partigiana, è oggi tra noi, era ed è un carabiniere semplice! Si chiama Federico Salvestri; fu decorato allora di medaglia d’argento al V.M.; poi scomparve come tanti e tanti altri carabinieri nel vuoto e nel nulla, in quella umiltà donde era emerso, contento di fare lo “stradino” in un piccolo paese della provincia di Parma.
E’ una verità, ancora, che pochi anni orsono un sindaco della provincia di Genova appose sulla facciata di una nostra caserma una lapide in memoria di ben sei carabinieri, trucidati dell’aprile 1944 sugli spalti gloriosi della Resistenza; una lapide con la quale l’eletto del popolo chiedeva al viandante, ad un qualsiasi viandante, anche al miscredente, di fermarsi e di onorare quei caduti, quelle divise.
E’ una verità, infine, che Autorità comunali, regionali, scolastiche ecc. siano giunte ad intitolare a tanti nostri martiri strade, piazze, scuole, aule, ospedali d’Italia, perché ovunque appunto la storia prevalesse sulla “tradizione”, perché i bimbi ed i giovani sapessero, capissero come e quanto – al di là delle fiabe – si possa dare senza calcolo, con generosità, perché gli altri sopravvivano, perché una famiglia respiri, perché la libertà trionfi.
E su tutto, un’altra verità voglio aggiungere! Che la massima parte di quei corpi torturati, di quei Caduti, non ebbero il culto sollecito dei loro cari, né un fiore deposto ad immediato ricordo: perché? Perché erano originari di terre lontane, perché non avevano combattuto in difesa di un loro particolare interesse o di un loro campanile; perché erano davvero cittadini di una più grande terra, l’Italia, e difensori di una più grande bandiera, quella tricolore.
Resi più forti da queste verità, che raccolti in tempi meno remoti –tra le inclemenze della terra e le inquietudini del popolo – ancora palpitano e respirano, cari carabinieri, con la vitalità di questi titoli – che altri non hanno – voi rifiutate le violenze ed il loro mercato, i mimetismi ed i facili baratti, i giudizi costruiti sull’opportunismo; voi rifiutate da persone leali, il falso e l’insinuazione eretti a sistema; respingete – anche con il silenzio – ciò che di ottuso e di folle può travolgere il bene di ognuno e di tutti.
Con queste verità, che rappresentano il vostro patrimonio più nobile e più sano, voi sapete combattere a viso aperto e senza consentire ad alcuno di alludere a massacri o a suicidi: giacché non si possono concedere giudizi a chi vi aggredisce con l’arma della viltà, a chi si esalta nel sangue dell'inerme, a chi si accanisce nella dissacrazione dei valori dello spirito, dell’uomo e dello Stato.
Non saranno le reiterate tentate stragi presso una caserma Lamarmora in Torino, né quella spietata contro la caserma di Dalmine (ove finanche una donna, una sposa ed una bimba erano state designate ad essere uccise), né l’ultima compiuta con i razzi contro la Centrale Operativa della Moscova ove, mentre i carabinieri operatori raccoglievano l’invocazione di un cittadino bisognoso di soccorso, il timer andava scandendo i minuti della tragedia poi sventata solo dalla sorte; non sarà tutto ciò a flettere la volontà di essere o ad incidere sul distacco, sulla serenità, sulla obiettività del vostro lavoro.
Attraverso l’umiltà del nostro carabiniere più lontano, più sperduto o più esposto, noi avvertiamo d’intorno una società carica di vita e di sapore umano, così come umano è il dare a chi ha bisogno, aiutare chi soffre, tendere la mano all’indifeso.
Ricordatevi, cioè, solo e sempre che la moltitudine vi ama, vi vuole, vi sente; ricordate che – al di là di ogni consuntivo di rito, che per il 1979 a parte è stato sottolineato ed illustrato e che di certo ci inorgoglisce – tanti e tanti vi idealizzano in quei tre giovanissimi carabinieri che – con uno sforzo immane – tentano di reggere e reggono quell’immensa parete che sta per precipitare; ricordate che i vostri sacrifici, le vostre rinunzie, le vostre amarezze contribuiscono al civile convivere, alla sopravvivenza della fede, alla salvezza delle Istituzioni.
Se è anche vero che l’oggi pretende luci e ribalte, miti e prosceni; se è molti, troppi amano ed ambiscono ruoli e livelli, voi ricordate che il popolo buono preferisce, invece, scorgere nel buio di una tempesta, il conforto di un piccolo faro di periferia, anche ignoto, di un faro alla cui intermittenza, come se un cuore battesse, chi naviga ed è flagellato dai flutti si affida con la tranquillità, con la convinzione, con la certezza di ottenere aiuto e difesa.
E se è vero che voi siete, che voi vivete, che voi siete capaci di sentir battere la vita del vostro prossimo, allora carabinieri giovani e anziani, avete anche il diritto di guardare a testa alta coloro che vi hanno preceduto sulla via dell’onore e che altri hanno affidato al tempo ed al ricordo di quelli che verranno, agli angoli di una strada o all’aula di una scuola.
Ciò – non dimenticatelo mai! - potrete fare anche perché alle vostre spalle esistono i bravi Comandanti di Stazione; quelli che la letteratura ha consacrato come i patriarchi della tribù; quelli che – in un collage fatto tra il romantico e il naif – l’arte, la cinematografia, la saggistica hanno consegnato alle folle, quali i custodi della legge e dello Stato nella periferia più domestica o più lontana; quelli che hanno arricchito la nostra storia con i nomi di d’Acquisto e di Maritano.
Questi Comandanti di Stazione, che da sempre rappresentano l’essenza della nostra Istituzione, che da sempre vivono nell’ombra , nel silenzio ed in modestia, che da sempre, invece, allevano e preparano generazioni intere di carabinieri alla durezza ed alla macerazione della vita quotidiana, all’amore per un dovere che tutto pospone, anche la famiglia, alla difesa dell’inerme, ad un sacrificio che molto spesso non paga, al divenire uomini anche ora quando l’anagrafe li vuole ancora minorenni, alcuni di questi Comandanti di Stazione oggi qui ho voluto inquadrati al centro dello schieramento , e qui li intendo citare tutti accanto ai loro Ufficiali più giovani, perché ad essi va la gratitudine dell’Arma ed il mio “bravo” più convinto.
Ma su loro e su tutti – in ogni specialità, in ogni impiego ed ogni età – è la fiamma della nostra fede comune, del nostro credo;
- su tutti, è la volontà fermissima di rappresentare per questi giovani studenti – che oggi sono giunti tra noi dagli Istituti superiori di Milano – l’esempio di una vita pulita, fatta di entusiasmo, costruita sulla rinunzia;
- su tutti è l’ansia che questi bambini, qui con i loro insegnanti, possano avere un domani sereno, un civile convivere, contro ogni vile costume, contro ogni crimine;
- su tutti, ancora, è la forza di resistere, è la gioia del donare senza chiedere, è la rinunzia per tutta la vita agli affetti più cari, perché il cittadino possa avvertire nella nostra Arma, il mormorio lontano di un Piave, attraverso le cui acque – anche se spesso arrossate - non passeranno né la follia, né la prepotenza, né il terrorismo, né l’ingiustizia che lo assolve;
- per tutti e su tutti, infine, è la certezza di mantenere inalterato lo smalto della lealtà verso lo Stato e le sue Istituzioni, per divenire più degni di chi ci conforta, di chi ci stima, delle nostre genti, ma anche di quel passato, di quella storia, di quelle verità, e perché no? Di quelle tradizioni di cui – come ieri sera ha detto il nostro Comandante Generale – siamo tanto fieri, e che tanti stranieri ci invidiano!
Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
E’ per noi motivo di orgoglio che la massime Autorità religiose, civili e militari, ed esponenti del mondo dell’economia, del lavoro, della cultura, della stampa di questa nobile e laboriosa città di Milano, ci abbiano onorato con la loro presenza nel giorno celebrativo della festa dell’Arma. Una presenza tanto più ambita e significativa, quanto più scarna ed austera vuol essere la cerimonia; una presenza per la quale esprimiamo gratitudine e l’assicurazione che, anche dalla loro adesione, sapremo trarre la forza per il nostro procedere; una presenza, infine, quella di magistrati e funzionari della P.S., che vorrei sottolineare per la solidarietà che, in Milano, ci lega nella difesa del bene e delle Istituzioni.
A voi, rappresentanti delle valorose Armi, di Corpi e di Servizi, che, stretti ai vostri labari e alle vostre Associazioni, rappresentate idealmente i tanti e tanti Caduti nel cratere della fede, giunga il nostro commosso pensiero.
Agli uomini in congedo della nostra Arma, qui numerosissimo – con le bandiere di tante Sezioni – ad esprimere il loro credo inalterato in quei simboli del valore di sempre, e la loro solidarietà alle fatiche di commilitoni in servizio, il nostro abbraccio fraterno.
Ed a voi, infine, carabinieri tutti, di ogni ordine e grado che, riuniti in questo cortile, rappresentate le migliaia e migliaia di colleghi che servono l’Italia e le sue genti nell’ambito della I Divisione “Pastrengo”, in questo immenso teatro di lavoro onesto e pulito, giunga il mio orgoglio, la mia fierezza di Comandante.
Mentre celebriamo i 166 anni della nostra Istituzione, nello stupendo proscenio del nostro passato che d’improvviso si affaccia, potrei anche cogliere – come noi amiamo – i valori della “tradizione”; di una tradizione che sa di squadroni e sciabole, di tappe del Risorgimento, di briganti, di lucerne in grigioverde appese ai fili spinati, di bende e sangue e tanto azzurro, su rocce, su steppe, su selle ed acrocori lontani; di una tradizione alla quale noi spesso ancoriamo il diritto a guardare - senza iattanza ma a testa alta – un qualsivoglia interlocutore.
Ma là dove la realtà incalza giorno dopo giorno per dirci della sua brutalità, anche la più nobile delle tradizioni apparirebbe oggi quale stinta oleografia, su cui la patina della sufficienza potrebbe aggiungersi a mortificare i credenti.
E le genti, nell’inquieto succedersi degli eventi, pretendono con l’ansia di chi crede, di chi vuol comunque credere che – al di là delle nostre pur belle tradizioni – sulle strade, sulle piazze, nelle valli continui a vivere, a vibrare a respirare solo la storia; perché la storia non mente; senza fiabe, senza leggende, senza miti, senza retorica; con la forza concreta ed esclusiva delle sue verità:
Ecco perché mentre poc’anzi abbiamo deposto – tutti uniti – una corona d’alloro, il pensiero commosso è corso a quello stupendo e men conosciuto “Monumento al carabiniere” che – nella città di Torino, culla dell’Arma – da oltre cinquanta anni custodisce la volontà ed il contributo alla sua realizzazione da parte di ben 8.400 Comuni d’Italia; là, tra i tanti del basamento, c’è un pannello su cui tre giovanissimi carabinieri appaiono nell’atto di sorreggere – con il corpo proteso in uno sforzo immane – una grossa parete in rovina, mentre un loro commilitone si china per trarne salva una vita umana, un essere fragile, una donna.
Fu certamente il terremoto di Messina del 1908 ad ispirare il maestro Rubino; ed è altrettanto certo che la storia fece poi eco nel 1968 con il sisma del Belice quando, alle tre della notte, nel crollo dell’intero centro di S. Ninfa di Trapani, nel tumulto di una terra sconvolta, io vidi un bravo Comandante di Stazione lasciare la giovane moglie incinta ed avventurarsi da solo, tra le macerie, con una piccola torcia in mano alla ricerca di un gemito; e la storia si ripeté più di recente ad Osoppo, a Gemona, a Tarcento ed in tante altre località del Friuli ove i carabinieri, nell’immane disastro, eressero sulle tende delle loro stazioni lo stemma dello Stato.
Si, lo stemma dello Stato. Contro gli sciacalli di sempre, fianco a fianco con i valorosi soldati di tante Armi e Specialità; senza nulla chiedere!
Fu proprio in quel contesto, fu nel tormento e nel travaglio di far tacere la tradizione e di dar respiro alla storia, che giunsi ad idealizzare quegli stessi giovanissimi tre carabinieri; come se quella grossa parete, prossima a rovinare, ed affidata più alla forza delle loro divise che a quella della loro fisica prestanza, richiamasse prepotente ad una situazione di fondo, da cui ogni crepa, ogni precipitare, ogni rovinio potrebbe travolgere e schiacciare soltanto l’inerme, l’umile, l’indifeso.
E’ proprio perché la storia soccorra nel dar vigore alle mie parole, che intendo attingere oggi a qualche verità.
E’ una verità, ad esempio, che la Costituzione nella quale viviamo, che molti rammentano e che ogni giorno noi difendiamo, ha visto tra i suoi artefici più autentici 2115 Ufficiali, Sottufficiali e carabinieri caduti ed altri 6500 feriti; e, fra tutti, i nostri martiri di Cefalonia, delle Fosse Ardeatine, di Radicofani, di Fiesole.
E’ una verità quella che, alle vostre spalle, si affaccia e si traduce nella forte figura di un Salvo d’Acquisto, quasi che, con il petto ampio e generoso, voglia difendervi e dirvi – ancora una volta – che quando per la salvezza del nostro prossimo è e deve essere il tributo della vita, è con voi , è con noi la benedizione delle contrade più lontane d’Italia.
E’ una verità quella che, a voi di fonte, pone taluni tra i valorosi tuttora viventi, e tra essi – di quell’epoca – il Comandante della Brigata “Cento Croci”, poi elevata dal C.L.N. al rango di Divisione partigiana, operante al confine del Piemonte e della Liguria; una figura eroica, rimasta negli archivi e nella leggenda con il nome di “Richetto”; due volte ferito in combattimento, tre volte evaso dalle mani dei suoi carcerieri, protagonista di decine di scontri vittoriosi. Ebbene questo “Richetto” che, già Comandante eroico di una Divisione partigiana, è oggi tra noi, era ed è un carabiniere semplice! Si chiama Federico Salvestri; fu decorato allora di medaglia d’argento al V.M.; poi scomparve come tanti e tanti altri carabinieri nel vuoto e nel nulla, in quella umiltà donde era emerso, contento di fare lo “stradino” in un piccolo paese della provincia di Parma.
E’ una verità, ancora, che pochi anni orsono un sindaco della provincia di Genova appose sulla facciata di una nostra caserma una lapide in memoria di ben sei carabinieri, trucidati dell’aprile 1944 sugli spalti gloriosi della Resistenza; una lapide con la quale l’eletto del popolo chiedeva al viandante, ad un qualsiasi viandante, anche al miscredente, di fermarsi e di onorare quei caduti, quelle divise.
E’ una verità, infine, che Autorità comunali, regionali, scolastiche ecc. siano giunte ad intitolare a tanti nostri martiri strade, piazze, scuole, aule, ospedali d’Italia, perché ovunque appunto la storia prevalesse sulla “tradizione”, perché i bimbi ed i giovani sapessero, capissero come e quanto – al di là delle fiabe – si possa dare senza calcolo, con generosità, perché gli altri sopravvivano, perché una famiglia respiri, perché la libertà trionfi.
E su tutto, un’altra verità voglio aggiungere! Che la massima parte di quei corpi torturati, di quei Caduti, non ebbero il culto sollecito dei loro cari, né un fiore deposto ad immediato ricordo: perché? Perché erano originari di terre lontane, perché non avevano combattuto in difesa di un loro particolare interesse o di un loro campanile; perché erano davvero cittadini di una più grande terra, l’Italia, e difensori di una più grande bandiera, quella tricolore.
Resi più forti da queste verità, che raccolti in tempi meno remoti –tra le inclemenze della terra e le inquietudini del popolo – ancora palpitano e respirano, cari carabinieri, con la vitalità di questi titoli – che altri non hanno – voi rifiutate le violenze ed il loro mercato, i mimetismi ed i facili baratti, i giudizi costruiti sull’opportunismo; voi rifiutate da persone leali, il falso e l’insinuazione eretti a sistema; respingete – anche con il silenzio – ciò che di ottuso e di folle può travolgere il bene di ognuno e di tutti.
Con queste verità, che rappresentano il vostro patrimonio più nobile e più sano, voi sapete combattere a viso aperto e senza consentire ad alcuno di alludere a massacri o a suicidi: giacché non si possono concedere giudizi a chi vi aggredisce con l’arma della viltà, a chi si esalta nel sangue dell'inerme, a chi si accanisce nella dissacrazione dei valori dello spirito, dell’uomo e dello Stato.
Non saranno le reiterate tentate stragi presso una caserma Lamarmora in Torino, né quella spietata contro la caserma di Dalmine (ove finanche una donna, una sposa ed una bimba erano state designate ad essere uccise), né l’ultima compiuta con i razzi contro la Centrale Operativa della Moscova ove, mentre i carabinieri operatori raccoglievano l’invocazione di un cittadino bisognoso di soccorso, il timer andava scandendo i minuti della tragedia poi sventata solo dalla sorte; non sarà tutto ciò a flettere la volontà di essere o ad incidere sul distacco, sulla serenità, sulla obiettività del vostro lavoro.
Attraverso l’umiltà del nostro carabiniere più lontano, più sperduto o più esposto, noi avvertiamo d’intorno una società carica di vita e di sapore umano, così come umano è il dare a chi ha bisogno, aiutare chi soffre, tendere la mano all’indifeso.
Ricordatevi, cioè, solo e sempre che la moltitudine vi ama, vi vuole, vi sente; ricordate che – al di là di ogni consuntivo di rito, che per il 1979 a parte è stato sottolineato ed illustrato e che di certo ci inorgoglisce – tanti e tanti vi idealizzano in quei tre giovanissimi carabinieri che – con uno sforzo immane – tentano di reggere e reggono quell’immensa parete che sta per precipitare; ricordate che i vostri sacrifici, le vostre rinunzie, le vostre amarezze contribuiscono al civile convivere, alla sopravvivenza della fede, alla salvezza delle Istituzioni.
Se è anche vero che l’oggi pretende luci e ribalte, miti e prosceni; se è molti, troppi amano ed ambiscono ruoli e livelli, voi ricordate che il popolo buono preferisce, invece, scorgere nel buio di una tempesta, il conforto di un piccolo faro di periferia, anche ignoto, di un faro alla cui intermittenza, come se un cuore battesse, chi naviga ed è flagellato dai flutti si affida con la tranquillità, con la convinzione, con la certezza di ottenere aiuto e difesa.
E se è vero che voi siete, che voi vivete, che voi siete capaci di sentir battere la vita del vostro prossimo, allora carabinieri giovani e anziani, avete anche il diritto di guardare a testa alta coloro che vi hanno preceduto sulla via dell’onore e che altri hanno affidato al tempo ed al ricordo di quelli che verranno, agli angoli di una strada o all’aula di una scuola.
Ciò – non dimenticatelo mai! - potrete fare anche perché alle vostre spalle esistono i bravi Comandanti di Stazione; quelli che la letteratura ha consacrato come i patriarchi della tribù; quelli che – in un collage fatto tra il romantico e il naif – l’arte, la cinematografia, la saggistica hanno consegnato alle folle, quali i custodi della legge e dello Stato nella periferia più domestica o più lontana; quelli che hanno arricchito la nostra storia con i nomi di d’Acquisto e di Maritano.
Questi Comandanti di Stazione, che da sempre rappresentano l’essenza della nostra Istituzione, che da sempre vivono nell’ombra , nel silenzio ed in modestia, che da sempre, invece, allevano e preparano generazioni intere di carabinieri alla durezza ed alla macerazione della vita quotidiana, all’amore per un dovere che tutto pospone, anche la famiglia, alla difesa dell’inerme, ad un sacrificio che molto spesso non paga, al divenire uomini anche ora quando l’anagrafe li vuole ancora minorenni, alcuni di questi Comandanti di Stazione oggi qui ho voluto inquadrati al centro dello schieramento , e qui li intendo citare tutti accanto ai loro Ufficiali più giovani, perché ad essi va la gratitudine dell’Arma ed il mio “bravo” più convinto.
Ma su loro e su tutti – in ogni specialità, in ogni impiego ed ogni età – è la fiamma della nostra fede comune, del nostro credo;
- su tutti, è la volontà fermissima di rappresentare per questi giovani studenti – che oggi sono giunti tra noi dagli Istituti superiori di Milano – l’esempio di una vita pulita, fatta di entusiasmo, costruita sulla rinunzia;
- su tutti è l’ansia che questi bambini, qui con i loro insegnanti, possano avere un domani sereno, un civile convivere, contro ogni vile costume, contro ogni crimine;
- su tutti, ancora, è la forza di resistere, è la gioia del donare senza chiedere, è la rinunzia per tutta la vita agli affetti più cari, perché il cittadino possa avvertire nella nostra Arma, il mormorio lontano di un Piave, attraverso le cui acque – anche se spesso arrossate - non passeranno né la follia, né la prepotenza, né il terrorismo, né l’ingiustizia che lo assolve;
- per tutti e su tutti, infine, è la certezza di mantenere inalterato lo smalto della lealtà verso lo Stato e le sue Istituzioni, per divenire più degni di chi ci conforta, di chi ci stima, delle nostre genti, ma anche di quel passato, di quella storia, di quelle verità, e perché no? Di quelle tradizioni di cui – come ieri sera ha detto il nostro Comandante Generale – siamo tanto fieri, e che tanti stranieri ci invidiano!
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