Da Famiglia cristiana del 29/11/1998

ESCLUSIVO - Dai nostri inviati

Somalia. Il traffico che uccide

Mogadiscio, novembre

Scorie nucleari, rifiuti tossici, armi, riciclaggio di denaro sporco.
Il Paese africano, da otto anni ostaggio dei signori della guerra, è stato scelto dalle diverse mafie come crocevia per ogni tipo d’affare illecito. All’ombra dei servizi segreti.

di Barbara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari

Il pilota impallidisce: «Non se ne fa niente. Nemmeno se mi date centomila dollari». La soffiata avuta a Londra era precisa: «Provate ad andare dieci chilometri a nord della città di Obbia e cinque dalla costa. Là esiste un deposito di rifiuti altamente tossici, probabilmente radioattivi». Alla richiesta di sorvolare quella zona, il nostro interlocutore, fin lì d’accordo ad accompagnarci nelle zone settentrionali della Somalia, reagisce d’impulso: «Ragazzi, vi tirano giù. C’è un cubo in cemento armato di 30 metri per lato con dentro roba pesante. So che all’interno sono custoditi dei cilindri alti quanto una bottiglia».

Il deposito a nord di Obbia potrebbe essere uno di quelli previsti dal progetto "Isola del sale", studiato allo scopo di individuare (e attrezzare, isolare, difendere) dei luoghi ove trasportare materiale nucleare. «A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, americani e francesi valutarono la fattibilità dell’operazione dando alla fine luce verde», ci aveva confidato a Roma una fonte che ha chiesto di rimanere anonima.

Aldo Anghessa, un chiacchierato personaggio arrestato e processato più volte, già collaboratore dei servizi segreti italiani, aggiunge ulteriori particolari: «Il progetto è stato denominato "Isola del sale" perché così viene comunemente chiamata la penisola di Haifun, nella regione di Bosaso, che ospita enormi saline. E proprio l’estremità nordoccidentale di quella penisola, disabitata, prevalentemente sabbiosa, raggiungibile solo via mare, è stata scelta come deposito principale del progetto. C’è un documento preliminare al riguardo che si conclude sollecitando la creazione "di punti di osservazione antiaerea per eventuali controlli a distanza", giacché si sostiene a chiare lettere che l’unico problema è la sua visibilità da un aereo. Oggi, lungo la costa centrosettentrionale somala, ci sono cinque siti di quel genere».

«Il deposito a nord di Obbia è operativo da circa un anno», precisa il pilota. «Il luogo è sorvegliato giorno e notte. La guardia, però, la fanno altri, non i somali. Lasciate perdere, tornate in Italia». C’è chi, più a sud, nella regione del Basso Giuba, ha tentato di organizzare un deposito di materiale nucleare. «Un paio di anni fa, alcune aziende straniere ci hanno contattato a Nairobi», dichiara il generale Hersi Morgan, che controlla Kisimayo. «Volevano un pezzo di terra per immagazzinare rifiuti tossici e radioattivi sul mio territorio». Morgan dice di aver rifiutato.

Il progetto "Isola del sale" è solo la punta dell’iceberg, il risvolto più inquietante di un problema planetario come quello dello smaltimento di scorie nucleari, rifiuti tossici, residui di lavorazioni industriali inquinanti. I Paesi ricchi ne producono enormi quantità. Solo una parte, però, viene trattata rispettando le leggi.

Buoni guadagni e pochi rischi

Le aree debitamente attrezzate per "lavorare" questi materiali comportano alti oneri economici. «Smaltire correttamente rifiuti solidi urbani oggi in Italia costa 150 – 400 lire al chilo; smaltire rifiuti pericolosi, a seconda della categoria, può andare dalle 1.000 alle 10.000 lire al chilo», spiega Massimo Scalia, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse.

La criminalità organizzata si dimostra sempre più interessata a gestire questo business, che assicura una buona redditività e comporta pochi rischi, dal momento che le violazioni sono perseguite con scarso rigore. Secondo una stima attendibile, il traffico illecito dei rifiuti frutta – solo per quel che concerne l’Italia – circa 6 mila miliardi di lire.

Spesso fusti e cisterne vengono spediti all’estero. Le destinazioni finali sono scelte con cura. Si prediligono ovviamente i Paesi dilaniati da guerre civili, dove è facile ottenere la disponibilità di pezzi di territorio in cambio di forniture d’armi e di congrui finanziamenti ai contendenti in lotta tra loro.

Nel 1987, tra Milano e Roma, viene messo a punto un progetto, definito "Urano", per insabbiare in tre località desertiche del Sahara grandi quantità di rifiuti industriali tossico-nocivi. Il 5 agosto 1987 il protocollo d’accordo è firmato da Elio Sacchetto, per la Compagnia Minera Rio de Oro, e da Luciano Spada, per la Instrumag A.G. A promuovere "Urano" (in Italia, in Europa, in Africa) risulta però essere Guido Garelli, 54 anni, che – secondo alcuni accertamenti – opera indifferentemente con documenti di identità italiani, somali o dell’Autorità territoriale del Sahara, e ama presentarsi come Guy Soulmeyman Rinaldi.

Nei documenti, tutti timbrati "classified", si specifica che ogni cosa andrà fatta «nel pieno rispetto delle leggi dei Paesi e delle norme sancite dal diritto internazionale». Tra i materiali di cui si pianifica il trasporto ci sono anche antiparassitari, bagni galvanici o acido nitrico e, testuale, «resti di medicinali», nonché «rifiuti con composizione sconosciuta».

Sul finire degli anni Ottanta, quando il regime di Siad Barre entra in crisi, l’attenzione dei trafficanti si sofferma sulla Somalia, nazione che diventa una ghiotta preda allo scoppiare della guerra civile. «Gli incontri e le conversazioni che cercheremo di avere verteranno sulla possibilità di sviluppo del "Progetto Urano", per la parte già nota (ricordiamolo: smaltimento di rifiuti industriali tossico-nocivi, ndr), nel Corno d’Africa», si legge tra l’altro in una "lettera d’intenti riservatissima", firmata il 24 giugno 1992 a Nairobi (Kenya) da Guido Garelli, Ezio Scaglione (37 anni, nato in Piemonte, ad Alessandria, "console onorario della Somalia") e Giancarlo Marocchino, 56 anni, un italiano dal 1984 in Somalia.

Nell’agosto e nel settembre dello stesso anno, Mustafà Tolba, segretario dell’Unep, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di protezione ambientale, lancia l’allarme: «Ditte italiane scaricano rifiuti tossici in Somalia. Non posso fare nomi, metterei a repentaglio la vita di molte persone».

Grazie a quella pubblica denuncia, clamorosa quanto autorevole, l’affare pare sfumare. Stefan Weber, della sezione svizzera di Greenpeace, oggi rivela: «Non è così. Quell’operazione ha sicuramente visto tre navi cariche di rifiuti raggiungere il Golfo di Aden». L’8 settembre 1992, poi, un telefax "confidenziale" trasmesso a Nairobi, alla sede dell’Unep, evidenzia l’allarme suscitato ad Hargheisa dall’arrivo di 81 mila litri di «pesticidi obsoleti».

L’Unep, in seguito al moltiplicarsi delle segnalazioni, affida un’indagine sul campo a Mahdi Gedi Qayad, già docente di Chimica all’Università di Mogadiscio e suo consulente. La missione comincia il 10 maggio e termina l’8 giugno 1997. Il rapporto finale (l’Unep ne ha negato a lungo l’esistenza; Famiglia Cristiana è riuscita ad averne una copia) riporta interviste e indizi. Due gli episodi più rilevanti: la morte di un pescatore intossicato dal contenuto fuoriuscito da una sacca trovata sulla spiaggia di Brava; la presenza (documentata con foto e video) di una cisterna, lunga sei metri, sulla costa compresa tra Ige e Mareeg, 350 chilometri a nord di Mogadiscio.

Le decine di testimonianze da noi raccolte nel viaggio compiuto in Somalia consentono di redigere un lungo elenco di luoghi dove, con ogni probabilità, negli ultimi 10 anni sono stati depositati rifiuti altamente pericolosi. Partendo da sud, si tratta della città di Jamama (area di Kisimayo), dell’area che circonda Merka, dell’acquitrino dove si spegne il fiume Shebeli, della località chiamata Cinquantesimo, tra Merka e la capitale.

E ancora: l’area di Mogadiscio (il 19 agosto 1996 il presidente ad interim della Somalia Ali Madhi autorizza con decreto Ezio Scaglione a creare un impianto per lo smaltimento di rifiuti tossici in località El Baraf); Warsheikh, sempre a nord della capitale, dove secondo il generale Morgan nel 1992 «vennero bruciati rifiuti nucleari»; la costa che da Mogadiscio si spinge a settentrione, dove sarebbero stati scavati numerosi depositi clandestini. Infine, una serie di interramenti a Johar, lungo la strada Garoe-Bosaso, nell’altopiano desertico tra la regione di Sanaag e quella di Bari. Per tacere degli scarichi fatti in mare, al largo, segnalatici dai pescatori.

«Impossibile sorvegliare i 3.300 chilometri di costa della Somalia», dichiara a Nairobi Halifa Omar Drammeh, dell’Unep: «Uno dei nostri obiettivi prioritari, per il 1998, è proprio la lotta contro lo scarico illegale di rifiuti tossici nelle acque somale, ad opera di navi e società straniere».

Gli effetti di una così prolungata opera di inquinamento non tardano a manifestarsi. Strane malattie colpiscono uomini e animali. Quattro anni fa, per esempio, un medico segnala a Merka un eccessivo numero di tumori alla lingua, alla tiroide, al retto, e troppi casi di malformazioni neonatali. La segnalazione non ha alcun seguito.

Nessuno sa poi che fine abbia fatto l’indagine delle Nazioni Unite effettuata in seguito alle due misteriose esplosioni udite il 5 e 7 dicembre 1995 nelle regioni di Sanaag, Berbera e Sol, nella Somalia settentrionale. Nei giorni successivi, molti accusano difficoltà respiratorie e diarree. Alcuni bambini muoiono.

Nel gennaio 1997, sulla costa tra le regioni di Mudug e Nugal, dopo aver bevuto l’acqua conservata in un bidone trovato sulla spiaggia, alcune persone accusano dolori acuti all’addome. Hanno emorragie allo stomaco e alla bocca. Molti muoiono, alcuni dopo essere stati trasportati in aereo all’ospedale di Médecins sans frontières di Kisimayo. Un episodio analogo si verifica da tutt’altra parte, nel villaggio di Ellanleh (regione del Galgadud): è l’agosto di quest’anno.

Tra il gennaio e il febbraio 1998, nel basso Shebeli (Sud Somalia) si parla di decine di morti a causa di una non meglio precisata febbre emorragica. Nel giugno scorso una «febbre sospetta» colpisce l’area di Warsheikh e vengono segnalate vittime nei villaggi di Adehlé e di Run Mirgod.

Il 22 giugno 1998 l’agenzia di stampa libica sintetizza uno studio del ricercatore algerino Kadhem Amoudi, secondo cui «l’alta mortalità di dromedari in Somalia è causata anche dallo scarico di rifiuti nucleari americani nel deserto del Corno d’Africa». Il 15 giugno un altro dispaccio dell’agenzia libica dà notizia di una simile epidemia nell’area di Baidoa, che coinvolge migliaia di persone, con decine di vittime a Seyd Helow e Bulo Barakov.

Sull’aereo che il 28 ottobre ci trasporta da Merka a Nairobi, la dottoressa Pirko Heinnonen dell’Unicef ci dice che a Bardale (una cittadina a ovest di Baidoa, dove lei era appena stata) una nuova epidemia di natura sconosciuta sta mietendo vittime: «Almeno 120 morti in due mesi», dice. «I sintomi sono febbre alta, tremori in tutto il corpo, emorragia al naso e alle gengive».

Da dove arrivano i rifiuti? Le Procure di Asti e Torre Annunziata stanno concludendo laboriose indagini sul coinvolgimento di aziende italiane, su eventuali coperture dei servizi segreti (con i magistrati collaborano ex agenti o confidenti del Sismi) e sul riciclaggio di denaro sporco, come ad esempio i dinari della Libia (sotto embargo valutario) o quelli kuwaitiani, rapinati dagli iracheni in seguito all’invasione del 1990.

progetto "Isola del sale", studiato allo scopo di individuare (e attrezzare, isolare, difendere) dei luoghi ove trasportare materiale nucleare. «A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, americani e francesi valutarono la fattibilità dell’operazione dando alla fine luce verde», ci aveva confidato a Roma una fonte che ha chiesto di rimanere anonima.


Le ragioni di un’inchiesta

Da sempre Famiglia Cristiana segue con attenzione i tanti misteri che avvolgono la Somalia, un Paese che negli ultimi due decenni è stato teatro di tutto: dagli scandali e dalle tangenti della Cooperazione ai più diversi commerci illeciti, dagli omicidi sospetti (come quelli del vescovo di Mogadiscio, monsignor Salvatore Colombo, dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin) alle gravi violenze commesse persino da militari dei contingenti Onu.

Solo nel corso di quest’anno abbiamo già pubblicato due inchieste (sul numero 8 del 4 marzo e sul numero 13 dell’8 aprile). Lavorando sul campo, i nostri inviati hanno incontrato altri colleghi impegnati a far luce sui traffici di armi e di rifiuti, nonché sul riciclaggio di denaro sporco.

Ne è nato un piccolo pool che comprende, per Famiglia Cristiana, Barbara Carazzolo, Alberto Chiara e Luciano Scalettari, unitamente a Francesco Carcano (Tv svizzera italiana), Davide Demichelis (giornalista freelance), Andrea Di Stefano (gruppo Espresso-Repubblica), Angelo Ferrari (attualmente all’Agi), Giancarlo Fortunato (fotoreporter) e Raffaele Masto (Radio Popolare).

Qualche settimana fa, divisi in due gruppi, alcuni di essi si sono recati in Somalia, facendo tappa a Berbera, Bosaso, Burao, Hargheisa, Mogadiscio, Merka, Kisimayo. Questo reportage è frutto di sei mesi di lavoro.



Arriva la cisterna, la gente si ammala

Una cisterna, lunga 6 metri, corrosa dall’acqua salata, e un fusto rotto. Le foto appartengono al corredo di immagini allegato al rapporto di Mahdi Gedi Qayad, un consulente dell’Unep, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di tutela dell’ambiente.

Per verificare le voci di scarichi illegali di sostanze tossico-nocive, Mahdi Gedi Qayad, docente di Chimica, dal 10 maggio all’8 giugno 1997 ha svolto accurate indagini lungo le coste somale.

La cisterna qui sopra, in particolare, è stata fotografata sulla spiaggia tra Ige e Mareeg, 350 chilometri a nord di Mogadiscio. «Molta gente del posto ha detto che una cisterna simile è stata scaricata in mare non lontano da lì», si legge nel rapporto. «Alcuni pescatori hanno lamentato improvvise allergie imputabili a vernici e altri sintomi strani».



Annotazioni − n. 47 (segue)

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