Da La Nuova Sardegna del 07/03/2002

Gladio e caso Moro: Arconte su morte Ferraro

di AA.VV.

Il gladiatore Arconte racconta come l'ufficiale del Sismi gli consegnò il documento su Moro un mese prima di morire
"Ferraro aveva paura di essere ucciso"
L'incontro tra i due 007 avvenne a Olbia nel giugno del 1995
Nella nota "a distruzione immediata" si parlava del sequestro del presidente della Dc prima dell'agguato di via Fani
dal nostro inviato Piero Mannironi
CABRAS. Antonino Arconte, nome in codice G.71, aveva visto per la prima volta quel documento il 13 marzo del 1978. E l'aveva perfino fotografato. Un foglio in carta azzurrina, intestato "Ministero della Difesa, direzione generale S.B" era dentro il plico consegnatogli dal grande capo.
Cioè, il generale Vito Miceli. L'ordine era di portarlo a Beirut e metterlo nelle mani del gladiatore G-219. Arconte non sapeva cosa contenesse quella busta. Lo scoprì solo il 13 marzo, quando il mercantile Jumbo Emme, sul quale era imbarcato come macchinista navale, arrivò nella capitale libanese.
"Pensavo si trattasse di una missione tutto sommato tranquilla - dice -. Il numero uno mi aveva parlato soltanto di cinque passaporti che avrebbero dovuto consentire l'esfiltrazione di alcune persone dal Libano in fiamme. Gli ordini poi erano quelli di proseguire per Alessandria d'Egitto".
G-219, un uomo alto e robusto, salì a bordo della Jumbo Emme la mattina del 13 marzo. I due gladiatori non si conoscevano. Sapevano solo di appartenere alla stessa organizzazione supersegreta. "Noi la chiamavamo Gladio" dice Arconte.
La consegna del documento avvenne nel piccolo alloggio di Arconte. G-219 aprì il plico sigillato: dentro, oltre ai cinque passaporti, c'era quel foglio di carta azzurrino. Per qualche minuto, il gladiatore di Oristano rimase da solo nella cabina. Fu allora che tirò fuori dalla sua sacca una piccola macchina fotografica e fece alcuni scatti al documento, in fondo al quale era scritto, a stampatello: "A distruzione immediata".
Insomma, non doveva restare alcuna traccia dell'ordine di "attivare contatti con gruppi del terrorismo mediorientale, al fine di ottenere collaborazione e informazioni utili alla liberazione dell'onorevole Aldo Moro". Un ordine strano, stranissimo, visto che era stato scritto ben due settimane prima del rapimento del presidente della Democrazia cristiana in via Fani.
"Sinceramente - dice Arconte - non capii molto di quella nota. Io ubbidivo agli ordini: dovevo soltanto fare la consegna. E poi, non mi interessavo di politica. D'altra parte, il mio vero lavoro era quello di fare l'istruttore militare: addestravo ribelli e profughi nelle zone calde, soprattutto in Africa. Solo quando arrivammo ad Alessandria, seppi del rapimento di Aldo Moro...".
Ma quel documento non è stato distrutto. E ora, dopo oltre vent'anni, riemerge dalle nebbie del passato. Si badi bene: non la fotoriproduzione fatta da Arconte, ma proprio l'originale. Questo significa solo una cosa: l'agente G-219 non ubbidì all'ordine di distruggere la nota diramata, tra l'altro, da un servizio segreto del quale si è finora ignorata perfino l'esistenza. Cioé il Simm, il Servizio Informazioni della Marina militare. Niente a che vedere con il Sios Marina.
Anche il destinatario finale del documento, l'agente G-216, evidentemente, preferì disubbidire. Lui era un uomo che contava all'interno della struttura dei servizi segreti militari. Era il colonnello Stefano Giovannone, responsabile dell'intelligence italiana per tutto il Medio Oriente. Giovannone, che nel mondo delle "barbe finte" era conosciuto come "Stefano d'Arabia" o come "Il maestro", era, guarda caso, un uomo fidatissimo di Aldo Moro, del quale condivideva pienamente la linea filopalestinese. Era tanto vicino al presidente della Dc, che Moro, dalla prigione delle Br, chiese il suo aiuto. Scrisse infatti a Flaminio Piccoli (allora presidente dei deputati democristiani) di "far intervenire il colonnello Giovannone, che Cossiga stima". Poi, nella missiva indirizzata al sottosegretario alla Giustizia Erminio Pennacchini, Moro ribadì: "Vorrei comunque che Giovannone fosse su piazza".
Ma come ha fatto quel documento - l'originale si intende - a ritornare da Beirut nelle mani del gladiatore Antonino Arconte? E' lo stesso G-71 a dirlo: "L'ho avuto dal mio collega G-219, alias Mario Ferraro, nella tarda primavera del 1995. Poco più di un mese prima della sua strana morte".
"Nel 1985 noi gladiatori - dice Arconte - venimmo abbandonati, "cancellati". Molti di noi morirono, altri preferirono sparire. Io, per esempio, nell'aprile del 1985 venni spedito al passo di Oujda, nel Marocco orientale. Era una trappola dalla quale non avrei dovuto uscire vivo. Mi salvò solo l'istinto. Quando tornai in Italia, scoprii che la nostra struttura, Gladio, era stata cancellata. A Ferraro andò diversamente. Lui, infatti, passò al Sismi, mantenendo grado e stipendio".
"Ma nel febbraio del 1986 - continua Arconte -, G-219 ricevette un ordine che giudicò "molto strano". Si trattava di una missione a Beirut, dove lui aveva lavorato per anni insieme a Giovannone. Mi raccontò che il suo istinto gli diceva che, se fosse partito, sarebbe "tornato con le gambe davanti". Cioé morto. E non partì".
"Ci incontrammo - dice ancora Arconte - e io cercai di convincerlo a denunciare quanto ci era accaduto, a raccontare la nostra storia nella struttura Gladio. Lui disse no. Ed è anche comprensibile: aveva mantenuto un posto all'interno dei servizi segreti. Altri agenti, come Tano Giacomina e Franz, due miei carissimi amici, preferirono inabissarsi nel mondo della normalità. E farsi dimenticare. Tano si imbarcò e Franz si mise a fare il dentista".
Ma torniamo al famoso documento a "distruzione immediata" che potrebbe riaprire il "caso Moro". Come, perché e quando il colonnello Mario Ferraro, alias agente G-219, lo consegnò ad Arconte?
Racconta il gladiatore di Cabras: "Alla fine della primavera del 1995, Ferraro era molto preoccupato. Mi disse che aveva subìto delle minacce, ma non mi spiegò perché. Mi disse solo che stava tentando qualcosa con delle vecchie carte che aveva raccolto nel corso degli anni. Mi chiese un incontro, perché voleva consegnarmi qualcosa. Non voleva spedirmi nulla per posta, perché non si fidava. Io gli dissi che mi era impossibile andare a Roma. Allora concordammo di incontrarci a Olbia. Gli consigliai di imbarcarsi a Civitavecchia, così ci saremmo visti al bar della stazione marittima, o comunque lì vicino. Ho sempre pensato che non c'è posto migliore per non dare nell'occhio che stare in mezzo alla gente".
Continua Arconte: "Era prudente, guardingo. Come se temesse di essere seguito. Restammo insieme per alcune ore. Mi sembrò di capire che voleva ottenere qualcosa, ma non mi disse da chi, utilizzando la famosa lettera che io gli avevo consegnato il 13 marzo del 1978 a Beirut. Per dire la verità, mi parlò anche di altri documenti che era riuscito a salvare e conservare. Aveva messo tutto da parte, dopo avere capito che c'era puzza di bruciato in quell'operazione a Beirut. A tavola, in un ristorante nel centro di Olbia, mi disse davanti a un piatto di cozze che, se non fosse riuscito a ottenere nulla, di sarebbe unito a me nel raccontare pubblicamente la nostra storia di gladiatori. Mi chiese però un po' di tempo per decidere. Evidente: voleva prima vedere come sarebbe andata a finire ciò che stava tentando di fare".
"Restammo d'accordo che sarebbe stato lui a mettersi in contatto con me con il solito sistema - dice ancora Arconte -. E cioé mi avrebbe chiamato al telefono di un locale pubblico di Oristano, sempre lo stesso, lasciandomi un messaggio. Il gestore sapeva poi come rintracciarmi. Ho avuto la netta sensazione che volesse cambiare vita. Farla finita con certi ambienti e che tutto dipendeva dal progetto che aveva in testa. Ci salutammo davanti a un taxi che lo portava all'aeroporto di Olbia. E fu allora che mi diede la lettera e mi chiese di conservarla".
"Purtroppo - dice ancora Arconte - lo rividi un mese dopo: una foto su un giornale. C'era scritto che era morto. Suicida. Io non ci ho mai creduto. Poi, figuriamoci, un omone come lui... impiccato a un portasciugamani del bagno di casa! Ho poi letto dei tanti sospetti che hanno circondato la sua morte. Io trovo impossibile che un uomo che sta pensando a cambiare aria per costruirsi una nuova vita, decida di ammazzarsi così".
Ha ragione Antonino Arconte: sulla morte di Mario Ferraro, colonnello del Sismi e in passato uomo della struttura supersegreta Gladio, restano ancora molte, troppe, ombre.

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