Da Diario del 23/05/2003

L'inchiesta vecchio stile

Dissero: Cercate in via Gradoli Risposero: Moro non ci serve vivo

di Paolo Cucchiarelli

Roma.


È la chiave del caso Moro. Cercata, invano, per anni. Oggi comincia a emergere. E offre nuove spiegazioni non solo di quel sequestro, ma anche di tanti altri affari neri d’Italia. Aiuta a ricomporre i frammenti della tragedia del presidente democristiano, rapito 25 anni fa dalle Brigate rosse, ma anche del caso Cirillo, della fuga di Kappler, di traffici di armi e di petrolio. Dal dopoguerra alla metà degli anni Ottanta ha operato in Italia un superservizio segreto, clandestino, alle dipendenze (informali) della presidenza del Consiglio. Nome in codice: l’Anello. Questo superservizio, pochi giorni dopo il rapimento di Moro, individua il «covo» br di via Gradoli, a Roma, comunica la notizia a Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, e a un dolente Francesco Cossiga, ministro dell’Interno. Ma l’ordine è: restare fermi. «Moro vivo non serve più a nessuno», è la conclusione di Andreotti.

L’Anello e le sue attività sono oggetto di un’inchiesta in via di conclusione a Roma. Il pubblico ministero Franco Ionta ha da poco chiesto al giudice per le indagini preliminari di archiviare il caso, poiché ormai nessun reato è ipotizzabile o perseguibile, anche perché in molti casi è già scattata la prescrizione. Ma è stata la Procura di Brescia a imbattersi per prima in una misteriosa struttura, chiamata «Noto Servizio», di cui si faceva cenno in alcuni dei documenti ritrovati anni fa in un archivio abbandonato di via Appia Nuova, a Roma, dove erano state stivate alla rinfusa carte dell’Ufficio Affari Riservati (il progenitore del servizio di sicurezza civile, il Sisde). Del «Noto Servizio» – in realtà oscuro e assolutamente ignoto – si è parlato in pubblico per la prima volta nel novembre 2000, quando la procura di Brescia invia alla Commissione parlamentare sulle stragi un rapporto del perito Aldo Giannuli, lo scopritore della «discarica» dei servizi sull’Appia Antica.

Oggi il «Noto Servizio» ha un nome e un volto: è l’Anello, organizzazione clandestina degli apparati di sicurezza, operativa dal 1948 alla metà degli anni Ottanta, formata da ex ufficiali badogliani, ex repubblichini, imprenditori, faccendieri, giornalisti, in grado di reclutare (almeno part-time) uomini della malavita e della criminalità organizzata. Personaggi di punta dell’Anello, negli anni cruciali del caso Moro e del rapimento Cirillo, sono Adalberto Titta, il sedicente «colonnello del Sismi» che trattò con i camorristi la liberazione dell’assessore democristiano Ciro Cirillo; il senatore missino Giorgio Pisanò; il faccendiere Felice Fulchignoni; l’imprenditore Sigfrido Battaini; il religioso Padre Enrico Zucca, entrato nelle cronache per aver trafugato, nell’immediato dopoguerra, la salma di Benito Mussolini a Milano.

Titta è, in quegli anni drammatici, il vertice operativo della struttura. Un uomo fin troppo loquace, un po’ guascone, ex pilota nella Repubblica sociale. Muore d’infarto dopo la liberazione di Cirillo, mentre è impegnato in una delicata missione legata proprio a questo caso. Tanto delicata da suscitare i sospetti di una morte non del tutto naturale: i servizi di sicurezza francesi mandano a misurare la lunghezza del cadavere, per accertarsi che sia proprio Titta, e i carabinieri fanno qualche indagine dopo alcuni esposti che accennavano a un omicidio mascherato da malore.

L’Anello, del resto, era specializzato proprio in omicidi coperti da morte naturale e da incidenti stradali. Ma, più in grande, si occupava dell’economia parallela del petrolio, che serviva a finanziare le forze politiche più «affidabili» e sinceramente anticomuniste. Tra il 1975 e il 1976 l’Anello si dà da fare addirittura per far nascere una nuova Dc, in grado di contrastare l’apertura a sinistra preparata da Aldo Moro: è la breve avventura del Nuovo partito popolare, che divenne poi l’oggetto principale, con riferimenti alle forniture militari alla Libia, di un famoso dossier segreto, chiamato «Mi.Fo.Biali», oggetto di ricatti trasversali che coinvolsero anche il giornalista di Op Mino Pecorelli.

IL SUPERTESTIMONE. L’Anello, nella sua lunga storia, ha avuto una diretta forma di dipendenza dalle istituzioni politiche, a cominciare dalla presidenza del Consiglio. Michele Ristuccia, uno degli aderenti alla struttura, classe 1941, già funzionario della Fiera di Milano, grande amico di Adalberto Titta, negli interrogatori dell’inchiesta afferma a chiare lettere che vi erano persone del ministero della Difesa e dell’Interno che «agevolavano» l’attività dell’Anello, ma che esso «dipendeva direttamente dalla presidenza del Consiglio. La sua gestione è stata monopolio democristiano, tranne che nell’ultimo periodo, nel quale suppongo che anche il Psi sapesse, in quanto mi risulta che avesse fatto alcune richieste». I componenti dell’Anello, continua a verbale il supertestimone Ristuccia, avevano in dotazione «un tesserino sulla base del quale era dovuta a loro cooperazione e immunità da responsabilità penali in cui avrebbero potuto incorrere per motivi di servizio. Preciso che non so se tutti i membri dell’Anello avessero questo tesserino, ma Titta certamente lo aveva e io l’ho potuto personalmente vedere, ricordo che aveva l’intestazione della presidenza del Consiglio dei ministri».

Operativamente, i componenti della struttura si appoggiavano prevalentemente ai carabinieri, ma anche al Sid, il servizio segreto militare di quegli anni. L’Anello poteva contare su un ufficiale dei carabinieri operativo a Milano, che aveva un ufficio in via Statuto; un altro ufficio era a Roma. «Battaini», è scritto in una delle informative sull’attività dell’Anello, «dispone di notevoli masse di denaro e tiene il proprio deposito di armi, munizioni e automezzi, presso la caserma dei carabinieri di via Moscova».

Andreotti risulta il principale beneficiario politico della struttura, almeno secondo quanto si afferma in più punti nelle «veline» agli atti dell’inchiesta. Anche alcune testimonianze affidano al sette volte presidente del Consiglio un ruolo guida per l’Anello. Fu Andreotti a volerla, con questa denominazione, per fronteggiare il «notevole caos» che c’era negli anni Settanta nei vari organismi che si occupavano di intelligence, sia per inefficienza, sia per concorrenza. Andreotti decise di creare una struttura «pilota» che traghettasse questo mondo dal caos a servizi segreti più adeguati. Nascerebbe da qui il nome di Anello, adottato, secondo alcune testimonianze, dalla metà degli anni Sessanta: la struttura avrebbe dovuto essere infatti la congiunzione – l’anello appunto – tra le molteplici e spesso confuse strutture parallele del dopoguerra e i servizi di sicurezza istituzionali. I testimoni ascoltati nell’inchiesta hanno confermato che il compito principale dell’Anello era quello di «arginare» con tutti i mezzi l’avanzata delle sinistre. Anche Francesco Cossiga era a conoscenza dell’Anello, testimonia Ristuccia. «Una volta l’onorevole Andreotti, secondo quanto mi ha raccontato Adalberto Titta, fece intervenire l’Anello a beneficio del governo Craxi».

La struttura poteva contare su un buon numero di uomini (164 nel 1974) che costavano diversi miliardi di lire l’anno. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, almeno secondo i racconti dei testimoni dell’inchiesta, la struttura si era preparata per sequesti (poi non realizzati) di alcuni personaggi politici. Tra questi, il sindaco di Milano Aldo Aniasi, il leader del Movimento studentesco Mario Capanna e l’editore Gian Giacomo Feltrinelli. Ma è il caso Moro l’episodio più clamoroso nella storia segreta dell’Anello.

VIA GRADOLI. «Ricordo che il Titta mi accennò, già durante il sequestro Moro e me lo confermò poi successivamente, che erano stati contattati per adoperarsi per la liberazione di Moro, così come per il sequestro Cirillo». Questa è la testimonianza di Ristuccia, uno dei principali collaboratori di Titta. «Mi disse addirittura di aver avuto contatti con appartenenti alle Br e che questi avevano espresso sfiducia verso l’Arma dei carabinieri e la Dc. Mi disse», continua a verbale Ristuccia, «che gli uomini delle Br con i quali erano entrati in contatto non erano riusciti a trovare gli interlocutori adatti e non si fidavano delle istituzioni. Titta sosteneva di aver parlato di ciò con Cossiga e con l’onorevole Andreotti, ma che quest’ultimo (si era espresso) con valutazioni negative sull’eventualità del rilascio dell’ostaggio, bloccando così le attività che intendeva intraprendere. Ricordo che lo stesso giorno in cui si seppe che nel lago della Duchessa doveva trovarsi il cadavere di Moro, mi disse in tempo reale che si trattava di una “bufala”. Ciò ovviamente me lo disse prima che ci fosse la smentita».

Lo stesso testimone racconta: «Io venni informato da Titta che il presidente della Dc correva seri rischi di sequestro. Sequestro durante, il Titta mi disse di essere a conoscenza del luogo dove Moro era detenuto, lo aveva detto anche ai senatori Andreotti e Cossiga. Il Titta mi disse, sequestro durante, che Moro era detenuto in via Gradoli e, come ebbi occasione di accennarvi, lo seppe direttamente dalle Brigate rosse. Non posso dirvi come entrò in contatto con le Br, ma lui mi disse di essere stato fortemente ostacolato sul caso Moro, proprio dal potere politico dal quale dipendeva. Come già dettovi, in particolare alla richiesta di poter intervenire su via Gradoli, il Titta ricevette un secco diniego da Andreotti che, mi disse, gli fece capire che non era auspicabile una soluzione positiva del processo, la frase che ricordo distintamente è: “Moro vivo non serve più a nessuno”. Preciso che tutte queste notizie io le ho apprese sequestro durante».

È la testimonianza di un personaggio che riferisce racconti di un morto, che non può più né confermare né smentire. Forse è troppo poco per imbastire un’azione giudiziaria, ma certo è un’ulteriore smagliatura in una vicenda, il sequestro Moro, piena di elementi oscuri. Nelle dichiarazioni di Michele Ristuccia vi è certamente un errore: l’appartamento di via Gradoli è indicato come la prigione di Moro, mentre è appurato che fosse una base delle Br, ma che non ospitò il sequestrato. È lo stesso errore compiuto, in diverse dichiarazioni, da Bettino Craxi. Titta aveva una indicazione che riguardava la sola via Gradoli, oppure il capo operativo dell’Anello aveva cambiato in Gradoli una diversa indicazione della prigione al fine di tutelarla?

Dopo che la politica blocca l’intervento a favore di Moro, le notizie raccolte dall’Anello potrebbero aver imboccato un percorso autonomo. La famiglia Moro e il Vaticano continuano a cercare di liberare il prigioniero. E il 9 maggio 1978 il Vaticano tenta di scambiare il presidente della Dc con 50 miliardi di lire. Era già noto che padre Zucca – che oggi scopriamo essere stato un importante esponente dell’Anello – si era dato da fare per raccogliere un’ingente somma di denaro dopo essere stato contattato, in confessionale a Milano, da un uomo delle Br. Questo episodio fu rivelato dal settimanale L’espresso già il 26 maggio 1978. Recentemente, il 12 marzo 2003, Giulio Andreotti rivela che il 9 maggio di 25 anni fa (il giorno in cui fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro), il Vaticano era pronto a pagare un ingente riscatto per liberare il prigioniero, ma che alla fine tutto fallì. È evidente che il tentativo di cui parla Andreotti e quello dell’Anello, tramite padre Zucca, hanno molte analogie: stessa data, il 9 maggio; stessa città, Milano; stesso contatto, «esponenti dissidenti» delle Br, stesso mezzo, il confessionale.

KAPPLER E CIRILLO. L’Anello ebbe un ruolo anche nella vicenda della fuga di Herbert Kappler, il colonnello delle Ss responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, fatto uscire dall’ospedale militare del Celio, dopo un accordo politico ed economico con la Germania. Fu Titta e non la moglie di Kappler, Annelise – come si disse – ad accompagnare Kappler al confine. Nelle carte dell’inchiesta romana c’è la testimonianza del medico che visitò Kappler prima che questi fosse portato oltre confine.

È nel caso Cirillo, però, che l’Anello giocò in pieno le sue carte. Ciro Cirillo, assessore campano della Dc, fu rapito dalle Br a Napoli nel 1981. Per Cirillo, a differenza che per Moro, la Democrazia cristiana e lo Stato accettarono di trattare con i terroristi, anzi lo fecero attraverso la criminalità organizzata. È Adalberto Titta in persona che tratta in carcere con Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata (Nco). Titta entra nel carcere di Ancona per concordare direttamente con Cutolo la liberazione di Cirillo, porta a cena fuori dal carcere il capo camorrista e gli mostra un foglio di scarcerazione per invogliarlo a riprendere i contatti con le Br che erano stati aperti già nel 1978, durante la vicenda Moro. L’Anello è la chiave che unisce le due vicende. E spiega alcune affermazioni di Cutolo, che ha più volte ripetuto di aver avuto un ruolo anche nella vicenda Moro, oltre che in quella Cirillo. Personaggio di congiunzione tra l’Anello e il boss della Camorra è Francesco Gangemi, esponente di primo piano della Dc calabrese, avvocato di Raffaele Cutolo, ma anche grande amico di Adalberto Titta. Fu proprio Gangemi – affermano alcuni testimoni dell’inchiesta – a presentare Cutolo a Titta per permettergli di intervenire nell’affare Cirillo. «Il Cutolo non avrebbe mai accettato di prendere parte ad alcuna trattativa se il Gangemi non avesse garantito per il Titta», assicura il supertestimone Ristuccia. Il legame Titta-Cutolo-Gangemi-Anello può dare un contesto ad alcune sibilline affermazioni fatte dal capo della Nco. Nel 1993 Cutolo diceva, a proposito della vicenda Cirillo, che in tanti «fecero la fila da me, ad Ascoli Piceno, e quel Titta dei servizi segreti era disposto in cambio dei miei favori a far eliminare i miei nemici». E aggiungeva: «Avrei potuto salvare la vita dell’onorevole Moro perché, grazie a informazioni ottenute da alcuni membri della banda della Magliana, avevo saputo dove era la sua prigione. Mi incontrai con il sedicente “inviato di Cossiga” che mi promise persino sconti di pena. Ma in seguito ricevetti una visita del mio fedele luogotenente Vincenzo Casillo, latore di un messaggio di alcuni politici campani: “Don Rafè, facitevi ’e fatte vuoste”».

L’inviato di Cossiga, rivela Cutolo nel volume di Giuseppe Marrazzo Il camorrista. Vita segreta di don Raffaele Cutolo, potrebbe essere Nicola Lettieri, il sottosegretario all’Interno che durante i 55 giorni del sequestro guidava il «comitato di crisi» del Viminale. Cutolo avrebbe incontrato Lettieri mentre era latitante, dato che era fuggito dal manicomio criminale di Aversa il 3 febbraio 1978. Certo è che Cutolo dice di essere stato in possesso di una lettera di ringraziamento di Lettieri e di un biglietto di accompagnamento dell’onorevole Attilio Ruffini, sequestrati dai carabinieri al momento dell’arresto, nel rifugio di Albarella dove aveva trascorso l’intera latitanza. I carabinieri, imbarazzatissimi, dissero poi che la lettera e il biglietto erano caduti a un maresciallo durante la perquisizione della casa-covo. Nessuno ha mai saputo – ufficialmente – che cosa contenessero le due missive.

L’anno dopo, nel 1994, davanti alle telecamere di Mixer Cutolo raccontò di aver ricevuto, mentre era latitante ad Albarella e mentre Moro era nelle mani delle Br, la visita di Nicolino Selis, affiliato della Nco, suo rappresentante a Roma e contemporaneamente boss della banda della Magliana, per conto della quale controllava la zona che da Acilia arriva al mare. Selis, dice Cutolo, «aveva saputo dove si trovava la prigione di Moro e mi chiese se volessi salvarlo». Cutolo in quella occasione aggiunse di essersi consultato con un avvocato che a sua volta si rivolse a dei politici. Il capo della Nco ha detto di aver saputo successivamente da un suo fedelissimo, Enzo Casillo («Morto con la tessera dei servizi segreti in tasca») che «importanti politici nazionali erano molto preoccupati del fatto che Moro avrebbe potuto salvarsi». In quell’occasione si mossero anche due sacerdoti calabresi. Selis non può certo confermare: scomparso nel 1981, il suo cadavere non è mai stato trovato; probabilmente sotterrato ad Acilia, vicino al greto del Tevere, è stato coperto con la calce viva.

Durante i 55 giorni, quindi, Cutolo latitante sostiene di aver ricevuto l’avvocato Gangemi, l’inviato di Cossiga, Lettieri, e il suo rappresentante nella banda della Magliana, Nicolino Selis, che aveva scoperto dove era la prigione di Moro: presumibilmente nella sua zona di controllo, cioè tra Aprilia e il mare. Cutolo trascorse quei mesi di latitanza a casa di un vecchio contadino di Albanella, vicino a Pestum. L’uomo si chiamava, ironia della sorte, Nicola Lettieri, come il probabile «inviato di Cossiga». Finirà ucciso anche lui: da chi – dirà Cutolo – «credeva di trovare nella sua casa di campagna qualche tesoro da me nascosto».

IL VATICANO E IL CONFESSIONALE. Con alcune lettere ad Andreotti, padre Zucca chiedeva di poter aprire una trattativa. Il religioso milanese affermava di essere «sicurissimo» che le Br avrebbero liberato Moro per soldi. Diceva anche di aver incontrato un brigatista in una chiesa di Milano «verso la fine di aprile» (Moro era stato rapito il 16 marzo). L’incontro-colloquio si era svolto in confessionale e in quell’occasione si era parlato di soldi. Il brigatista avrebbe anche proposto a Zucca di incontrare Moro. I soldi sarebbero stati depositati in una banca svizzera.

L’inchiesta sull’Anello, svolta dal maggiore del Ros-carabinieri Massimo Giraudo (lo stesso ufficiale che ha condotto l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana che ha portato alle prime condanne del gruppo di Ordine nero dopo oltre 30 anni), ha dimostrato che già il 31 marzo 1978 Zucca aveva confidato a un amico (presumibilmente Adalberto Titta) di essere stato avvicinato al fine di aprire una trattativa con le Br. Un appunto del Sisde del 4 aprile 1978 dà conto di questa notizia.

Michele Ristuccia ha confermato il contatto Anello-Br: «Titta mi disse che le Br non volevano condurre la trattativa con organi di polizia ufficiali o esponenti politici. In merito alle mancate risposte di Andreotti, mi ricordo che non le diede a voce, al Titta, facendo bene intendere che Moro vivo non interessava».
Francesco Cossiga ha detto di essere stato informato «anni dopo» del tentativo messo a punto dal Vaticano il 9 maggio per cercare di liberare Aldo Moro e di cui ha parlato per la prima volta Andreotti in marzo. «Seppi da lui che questa possibilità di riscatto era la ragione del suo ottimismo quando lo andai a trovare la sera dell’8 maggio 1978. In Vaticano si avevano ragioni per credere di avere contatti con le Br. Da quello che compresi questo contatto passava per la rete dei cappellani carcerari», dice oggi Cossiga, che come Andreotti smentisce categoricamente a Diario di conoscere l’Anello e Titta. Ma c’è un altro elemento che si connette a questa vicenda, dando un senso concreto ad alcuni dubbi che ancora oggi dominano i pensieri della famiglia Moro.

Qualcuno, mai identificato, la mattina del 9 maggio 1978 avrebbe dovuto entrare nella prigione di Moro e portargli la carezza, il conforto del Papa, e poi garantire la liberazione dell’ostaggio e il contemporaneo pagamento del riscatto. Poche ore più tardi, invece, Aldo Moro sarebbe stato ritrovato ucciso in via Caetani. Comunque l’Anello predispose i 50 miliardi di cui parla Andreotti per pagare la mattina del 9 maggio il riscatto che avrebbe liberato Moro. Se è finita come è finita qualcosa è andata male o qualcuno non ha rispettato i patti. Chi interruppe bruscamente la trattativa in corso? L’Anello fu bloccato da qualcuno che non voleva che Moro uscisse libero dalla prigione potendo raccontare che il suo luogo di prigionia era stato individuato, ma si era scelto di non intervenire? E di trattare segretamente tramite quelli che un comunicato delle Br (il numero 4 del 4 aprile, quando Zucca aveva già il suo contatto aperto con le Br) definisce i «misteriosi intermediari»?

Afferma la sentenza che ha mandato assolto, in primo grado, Giulio Andreotti dall’accusa di essere il mandante politico dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli: «Qui preme sottolineare l’articolo Vergogna buffoni, pubblicato su Op del 16 gennaio 1979, e quindi poco più di due mesi prima dell’omicidio, in cui Carmine Pecorelli preannunciava una rivisitazione di tutto il caso Moro, con esplicito riferimento alle trattative con le Br, non andate a buon fine perché qualcuno non aveva mantenuto i patti e aveva «giocato al rialzo», pretendendo un prezzo che non poteva essere accettato. Ma se così è, non può revocarsi il dubbio che tali circostanze, se vere e portate a conoscenza dell’opinione pubblica, che pure aveva atteso con ansia la liberazione di Aldo Moro, avrebbero sicuramente sconvolto il panorama politico italiano, proprio perché sarebbe chiaramente emerso che il potere politico non aveva voluto che fosse salvata la vita dello statista».

L’inchiesta sull’omicidio Pecorelli ha evidenziato i rapporti che si erano stabiliti tra il giornalista di Op e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, almeno dall’agosto-settembre 1978. Pecorelli ricevette molte «dritte» dal generale. Tante allusioni di Pecorelli al fascicolo «Mi.Fo.Biali», nato intorno alla corruzione della Guardia di finanza per lo scandalo dei petroli, non sono che riferimenti in codice all’Anello e alla sua azione sotterranea. E dalla Chiesa, almeno secondo le malevole testimonianze di Ristuccia, conosceva l’Anello: «Il generale non faceva parte dell’Anello, conosceva Titta e non ostacolava le attività dell’Anello, non perché fosse contrario a esse, ma semplicemente per concorrenza, in quanto», dichiara a verbale Ristuccia, «non desiderava, specialmente in tema di lotta al terrorismo, che qualcuno potesse arrivare prima di lui. Ricordo in particolare il tentativo di catturare Moretti a Milano con un intervento su un obiettivo, sul quale da tempo stava lavorando anche l’Anello. L’improvvido intervento del generale ne consentì la fuga. Conobbi il generale dalla Chiesa in quanto me lo presentò il Titta appena giunto a Milano». E ancora: «Ricordo (che Titta, ndr) non apprezzava il generale dalla Chiesa in quanto per protagonismo avrebbe danneggiato alcune operazioni dell’Anello».

Il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, collaboratore di dalla Chiesa, ha affermato davanti a un magistrato nel 1993 che dalla Chiesa era molto interessato da una ipotesi di lavoro: l’esistenza di una struttura segreta paramilitare, con funzioni organizzative antinvasione ma che «aveva debordato poi in azioni illegali e con funzioni di stabilizzazione del quadro interno». Dalla Chiesa credeva che questa struttura poteva aver avuto origine «sin dal periodo della Resistenza, attraverso infiltrazioni nelle organizzazioni di sinistra e attraverso il controllo di alcune organizzazioni di altra tendenza». Poteva trattarsi di Gladio-Stay behind. Ma Gladio nasce nel 1954. L’Anello nasce invece nel 1948.

LE ALLUSIONI DI PECORELLI. Che cosa è accaduto tra la sera dell’8 maggio 1978 e le prime ore del 9? Pecorelli aveva una sua ipotesi: «Cossiga era convinto, crediamo (?), che Moro sarebbe stato liberato, e forse la mattina che il presidente è stato ucciso era (...) in attesa che arrivasse la comunicazione che Moro era libero. Moro invece è stato ucciso. In macchina. A questo punto vogliamo anche noi fare un po’ di fantapolitica. Le trattative con le Br ci sarebbero state. Come con i Feddayn. Qualcuno però non ha mantenuto i patti. Moro, sempre secondo le trattative doveva uscire vivo dal covo (al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario?), i “carabinieri” (?) avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andar via la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile, perché si voleva comunque l’anticomunista Moro morto, e le Br avrebbero ucciso il presidente della Democrazia cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile operazione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama “De” e il macellaio Maurizio».

Il «De» (un modo per alludere e tutelare tipico di Pecorelli) secondo tutti gli studiosi del caso Moro è Giustino De Vuono, un ex legionario, calabrese, legato alla criminalità organizzata, di cui non si sa più nulla da anni. De Vuono venne indicato come uno dei possibili componenti del commando di Via Fani nel «volantone» diffuso dal Viminale subito dopo il 16 di marzo. Per anni si è favoleggiato sulla presenza della ’Ndrangheta nel commando che rapì Moro e uccise i cinque uomini della scorta. Ci sono state decine di riferimenti a questa presenza e i sospetti maggiori hanno riguardato De Vuono, grande specialista di armi che, secondo alcuni testimoni, era effettivamente presente in via Fani. «De» secondo Pecorelli partecipa alla uccisione insieme a «Maurizio» (il nome di battaglia di Mario Moretti). Ma un uomo dell’Anello, almeno secondo il nostro testimone Ristuccia, faceva parte del commando di via Fani: «Il Titta mi disse che anche nel commando che aveva operato in via Fani era presente un calabrese che lavorava per l’Anello meridionale, ma che era stato più volte impiegato da lui».

La famiglia Moro, Maria Fida in particolare, ha il dubbio che Moro sia stato liberato dalle Br e ucciso da qualcun altro. Da chi? «L’unica spiegazione», ha detto l’ex presidente della Commissione stragi, Giovanni Pellegrino, in occasione del venticinquesimo anniversario della morte del presidente della Dc, «è quella che aveva pensato Craxi. Cioè che non sono i carcerieri a decidere l’esecuzione. L’ordine viene da fuori. E non sono stati loro neanche gli esecutori materiali. Entra in campo la complessità di più trattative che tendono da un lato alla salvezza di Moro e dall’altro alla neutralizzazione di quello che aveva potuto dire alle Br.

La vicenda alla fine precipita perché queste trattative si ostacolano e fanno emergere nei custodi finali di Moro l’idea che la soluzione politicamente più opportuna fosse la soppressione di un ostaggio, cioè il Moro vivo, per poter neutralizzare gli effetti destabilizzanti del secondo ostaggio, cioè le cose che Moro aveva detto alle Br». Oppure, molto più semplicemente, le Br uccidono Moro per uscire da una situazione senza sbocchi politici se non la liberazione, vista la mole di iniziative che quella mattina del 9 maggio erano in corso. Oppure c’è stata una cogestione: alla fine, per chi ha trattato, sia dalla parte delle Br, sia da quella dello Stato, la soluzione migliore, la più concreta e realistica dal punto di vista politico, è la morte di Moro. Ecco il perché delle tante incongruenze sulle modalità della morte e anche sul fatto che fosse stato detto o no a Moro che il suo destino era segnato.

Ma c’è stato lo zampino di qualcuno che ha giocato al rialzo? Giustino De Vuono è scomparso nel nulla. Resta soltanto l’estremo messaggio di Carmine Pecorelli, che fa nascere nuovi interrogativi su questa storia dell’Anello e su questa inchiesta che la procura di Roma si avvia ad archiviare. Pochi giorni prima di essere assassinato (era il 20 marzo 1979), Pecorelli dedicò al delitto Moro l’ultimo suo inconfondibile articolo. Intitolato: Aldo Moro un anno dopo.

Pieno di domande allusive, di sottintesi e probabilmente di messaggi, sarcastici e cifrati. Cita il lago della Duchessa, il falso comunicato Br del 18 aprile 1978, quanto il falsario Toni Chichiarelli, vicino alle Br e alla banda della Magliana, stila un falso documento che dà Moro per «suicidato» e sepolto nei «fondali limacciosi» di quel lago. Toni Chichiarelli seguiva da tempo – ci sono testimoni – il giornalista. «Chi è stato interrogato nel Palazzo? La catena ha rivelato in ogni suo anello l’esistenza di connivenze all’interno della struttura dello Stato, nel cuore dello Stato». Un messaggio, un avvertimento, o una firma. Diventerà decifrabile poche ore dopo, quando un colpo di pistola in bocca chiuderà la vita di Carmine Pecorelli.

Paolo Cucchiarelli, giornalista parlamentare, è autore, tra l’altro, di «Lo stato parallelo» (con Aldo Giannuli, Gamberetti editrice, 1997). In questa inchiesta anticipa alcuni elementi di un più ampio lavoro che sarà pubblicato in un volume intitolato «Morte di un Presidente. Perché l’omicidio Moro rimarrà un mistero».

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