Da L'Opinione del 16/11/2005

Come è nato il caso Alpi. Il gioco delle fonti

di Cristina Del Tutto

L’uccisione della giornalista di Rai 3 Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin è diventata nel nostro Paese il simbolo di un giornalismo che cerca la verità e qualche volta ne paga un prezzo troppo alto. Nella mente di tutti il ricordo di Ilaria Alpi punta il dito contro le Istituzioni corrotte, i traffici di armi, lo smaltimento dei rifiuti tossici. L’importanza che il caso Alpi ha all’interno della politica italiana si evince proprio dalla volontà del Parlamento di costituire un’apposita Commissione d’inchiesta. Fatto non da poco se si pensa a quante vite valorose il nostro Paese ha perso. Ma il caso Alpi è diverso. Venti deputati e ventidue consulenti esterni tra magistrati, investigatori della Polizia di Stato ed esperti vari, lavorano dal 21 gennaio 2004 per ricostruire pezzo dopo pezzo tutte le vicende che ruotano attorno all’omicidio dei due giornalisti. Leggendo i compiti assegnati alla Commissione si capisce subito che cosa ci si aspettava dal suo operato.

E’, infatti, indicato nelle prerogative della Commissione l’accertamento delle possibili commistioni tra l’omicidio e i traffici illeciti di armi, rifiuti tossici e la cooperazione italiana in Somalia. Come dire: “Sapete che cosa dovete andare a cercare”. Dalle audizioni effettuate in Commissione si capisce che ad un certo punto i conti hanno cominciato a non quadrare. Il 20 marzo 1994, poco dopo l’omicidio dei due giornalisti, il generale Fiore, all’epoca responsabile del contingente italiano in Somalia, ha rilasciato una dichiarazione che ai più era apparsa sconcertante: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sarebbero stati vittime di un attentato da parte dei fondamentalisti islamici. Per alcuni commentatori sono state affermazioni affrettate. I genitori di Ilaria Alpi arrivano addirittura ad accusare il generale di aver dichiarato il falso. Secondo loro, gli accertamenti dovevano seguire la pista dell’esecuzione connessa al traffico di armi e rifiuti tossici.

Il comandante del contingente italiano aveva descritto dettagliatamente le motivazioni che lo avevano spinto ad ipotizzare una pista islamica dietro l’omicidio dei due italiani. In quel periodo a Mogadiscio c’erano forti segnali di ostilità nei confronti degli occidentali. I somali erano risentiti con il contingente internazionale. Soprattutto rimproveravano agli americani di comportarsi non come forza di pacificazione ma di voler decidere chi doveva guidare il Paese. Gli americani, infatti, avevano preso le parti del generale Ali Madhi, fornendo l’occasione al fondamentalismo islamico, che già si stava radicando nel Paese, di infiltrarsi nella fazione rivale di Aidid. Lo stesso generale Fiore non lesinò critiche al comandante americano Howe, che guidava l’operazione internazionale in Somalia. In questo scenario il generale riferisce che gli era giunta notizia da un informatore, dimostratosi già in altre occasioni attendibile, che i fondamentalisti islamici stavano preparando un attentato eclatante contro gli occidentali.

Da un’attenta analisi di questa informazione era arrivato alla conclusione che se ci fosse stato un agguato sarebbe stato colpito l’anello più debole. Non i militari e nemmeno i volontari, ma proprio i giornalisti. Per questo, all’arrivo degli inviati italiani l’11 marzo, li informò personalmente del pericolo imminente, invitandoli ad alloggiare in apposite tende allestite dall’esercito. Ilaria Alpi rifiutò l’invito e rispose che a lei i somali volevano bene e non le sarebbe accaduto nulla. Purtroppo, le paure del generale Fiore si concretizzarono in fatti reali e furono proprio due giornalisti italiani a perdere la vita nel territorio di Ali Madhi, a Mogadiscio Nord. Sminuite le dichiarazioni del generale italiano, prese invece vigore il teorema del complotto e dell’esecuzione. Sono stati scritti libri, è stato fatto anche un film. E tutti ci hanno raccontato la stessa versione dei fatti. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi perché sapevano troppo.

Le ipotesi sull’esecuzione dei giornalisti prendono corpo e valore da diverse informative che la Digos di Udine dal maggio 1994 invia per competenza alla Procura di Roma che indaga sul caso. Nelle prime tre note informative del 21, 24 maggio e 1° agosto la Digos di Udine afferma che, secondo fonte attendibile, la Alpi era venuta a conoscenza di un traffico illegale di armi effettuato con delle navi donate dalla cooperazione italiana alla Somalia. Una di queste era stata ripresa dalla Alpi a Bosaso e si ipotizzò che i giornalisti fossero stati uccisi proprio a causa di quelle riprese. Successivamente, in una nota del 25 marzo 1996, si riferisce che il commando degli attentatori era composto da sette uomini, e che erano noti i nomi dei due esecutori materiali. Si dava anche una ricostruzione dei fatti. Fu il sultano di Bosaso, intervistato dalla Alpi durante la permanenza nella città, ad avvertire Ali Madhi delle intenzioni della giornalista italiana.

L’uccisione venne quindi decisa in una riunione alla quale parteciparono il sultano, l’ingegnere Mugne, proprietario dei pescherecci dati dalla cooperazione e sospettato di traffico di armi, e Giancarlo Marocchino, un autotrasportatore italiano residente in Somalia che aveva ottimi rapporti con i giornalisti e i militari. Da questo momento la storia è conosciuta da tutti. Fino a quando, lo scorso anno, la Commissione d’inchiesta cominciò la ricognizione dei fatti interrogando tutti i protagonisti della vicenda. Ed ecco che si comincia ad intravvedere una strana relazione tra le fonti segrete della Digos di Udine e alcuni giornalisti. Quei giornalisti che in questi anni ci hanno proposto libri, interviste e speciali TV raccontando come Ilaria Alpi fosse stata uccisa perché aveva scoperto il traffico di armi e rifiuti tossici in Somalia. Tutto cominciò con la ricerca da parte della Commissione delle fonti sulle quali la Digos di Udine aveva basato le sue informative.

Le audizione del Sovrintendente, del Sostituto Commissario e del primo Dirigente di Udine hanno riportato incongruenze e diverse reticenze che hanno spinto la Commissione a vederci chiaro e disporre diverse perquisizioni. Perché la Digos di Udine si rifiuta ancora di rivelare le generalità degli informatori? La Commissione indaga, ed ecco cosa è riuscita a scoprire. Innanzitutto, le informazioni della Digos di Udine, sulle quali si erano basate le vicende sul caso Alpi-Hrovatin, non erano state rilasciate da un solo informatore. Le fonti scoperte dalla Commissione sono ben tre. La prima, alla quale si addebitano le prime tre note del ’94, sarebbe un cittadino somalo. Il Sostituto Commissario Ladislao riferisce in audizione che il soggetto si era recato in Questura per il rilascio del permesso di soggiorno.

La Commissione scopre invece che il somalo era già in possesso del documento. Prima discordanza. Dal permesso, inoltre, si evince che il somalo era in Italia e non in Somalia quando furono uccisi i giornalisti. E ancora. Il Sostituto Commissario Ladislao alla fine identifica in audizione la prima fonte. Sempre in audizione il Dirigente Donadio Motta si avvale dell’articolo 203 del c.p.p. che gli permette di non svelare il nome della fonte. A suo dire la rivelazione della sua identità avrebbe costituito un serio pericolo di vita. Ma quando l’informatore scompare senza lasciare traccia, la Digos di Udine non effettua nessun accertamento per ritrovarlo e non si preoccupa di verificare che la sua fonte possa aver subito incidenti a causa dei fatti dichiarati. Viene scoperta anche la seconda fonte. E’ il Sostituto Commissario Ladislao a riconoscere nel giornalista Luigi Grimaldi la fonte delle informative sottoscritte dal Sovrintendente Pitussi. Dopo qualche mese arriva la rettifica.

Nel frattempo la Commissione scopre che tra Pitussi e Grimaldi ci sono stretti contatti e che alcuni dati riportati nelle informative di Pitussi trovano coincidenze evidenti con le inchieste giornalistiche condotte da Grimaldi. Terza fonte. Stessi protagonisti. Questa volta è lo stesso Pitussi che si rende disponibile per fornire alla Commissione l’identità della terza fonte prospettando, però, una sua eventuale nomina a consulente. Parallelamente la Commissione rintraccia il somalo dal quale la terza fonte avrebbe attinto le informazioni riportate poi dalla Digos di Udine. Interrogato dalla Commissione, dichiara di non sapere nulla delle informazioni contenute nelle relazioni di Udine. L’indagine arriva a identificare anche il somalo che faceva da intermediario con la Digos, la cosiddetta terza fonte. L’intreccio si aggroviglia sempre di più. Quella che doveva essere la fonte “coperta” della Digos di Udine, quella che ha accusato Giancarlo Marocchino di essere uno degli organizzatori dell’attentato, era già stata intervistata sia da Grimaldi sia dal giornalista di Rai Tre Maurizio Torrealta.

Le interviste, sequestrate nelle abitazioni dei due giornalisti, non facevano alcun accenno all’omicidio di Ilaria Alpi ma erano incentrate sul traffico di armi in Somalia. Non sono mai andate in onda. La fonte era nota anche ai giornalisti di Famiglia Cristiana, Carazzolo, Scalettari e Chiara, autori di un libro sul caso Alpi, che avevano avuto modo di incontrarlo segretamente. Insomma, pare proprio che la “fonte” fosse segreta soltanto per la magistratura e per Commissione. La Commissione ha inoltrato gli atti sulla vicenda di Udine alla Procura di Roma per ulteriori accertamenti. Nel frattempo, continua ad indagare, anche perché c’è un uomo in carcere condannato a ventisei anni di reclusione per essere stato uno degli esecutori dell’attentato Alpi che si dichiara tutt’ora innocente.

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