Da Il Manifesto del 01/01/2005
Originale su http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Novembre-2002/02...

le lezioni sempre attuali di un braccio di ferro

Quarant'anni fa, la crisi dei missili a Cuba

di Daniele Ganser

Nel gennaio 1959, dopo l'ingresso trionfale di Ernesto «Che» Guevara e di Fidel Castro a L'Avana, l'amministrazione degli Stati uniti e il presidente Dwight Eisenhower furono indotti a temere che il comunismo potesse estendersi attraverso l'America latina. Alleato fidato di Washington ai tempi della guerra fredda, il dittatore Fulgencio Batista era stato deposto da una guerriglia sostenuta dalla stragrande maggioranza del popolo cubano. Ancor prima che Castro - che a quell'epoca non era neppure comunista - attuasse la sua riforma agraria, il 17 maggio, e cominciasse a espropriare le corporations americane, partendo dalle terre della società bananiera United Fruit Co., il 4 aprile 1960, il Consiglio di sicurezza nazionale della Casa bianca aveva deciso, il 10 marzo 1959, che egli doveva essere sostituito, e stava studiando le strategie adatte ad «istituire un nuovo governo a Cuba».
Autorizzata da Eisenhower a collaborare con le organizzazioni terroristiche, la Cia cominciò a organizzare, pagare, armare e addestrare gli esuli cubani al fine di sabotare la politica castrista. Nella massima segretezza, la Cia venne anche autorizzata a compiere attentati contro il presidente cubano, come è stato rivelato nel 1975 dalla Commissione speciale del Senato degli Stati uniti. Iniziò così fin dal 1959 una guerra non dichiarata degli Stati uniti contro Cuba.
I bombardamenti e i sabotaggi dei terroristi della Cia iniziarono il 21 ottobre 1959, allorché due aerei provenienti dagli Stati uniti mitragliarono L'Avana, provocando 2 morti e 50 feriti. Il ministro degli esteri cubano, Raúl Roa, portò tale episodio all'attenzione delle Nazioni unite, e il 18 luglio 1960 fornì al Consiglio di sicurezza i dati sul numero di cubani uccisi, i numeri di immatricolazione degli aerei, i nomi dei piloti e l'origine degli attacchi.
L'ambasciatore degli Stati uniti, Henry Cabot Lodge, respinse decisamente tali accuse: «Per quanto mi sembri assolutamente inutile, consentitemi di dargli [a Castro] qui ed ora questa assicurazione forte e sovrabbondante: gli Stati uniti non hanno la minima intenzione aggressiva nei confronti di Cuba». Il Consiglio di sicurezza non prese alcuna decisione in merito. La cosa non garbò affatto a Castro che, nel settembre 1960, si recò personalmente al Palazzo di vetro per perorare la causa di fronte all'Assemblea generale dell'Onu. Esordì dicendo: «Non avete motivo di preoccuparvi, faremo del nostro meglio per essere brevi».
Cinque ore dopo, stava ancora enumerando e denunciando gli atti criminosi che aveva subito il suo regime...
Un mese prima di questo discorso, in un memorandum top secret, il presidente Eisenhower aveva autorizzato lo stanziamento di 13 milioni di dollari per creare un campo di addestramento di terroristi in Guatemala, dove gli esuli anticastristi si preparavano ad invadere di Cuba. L'invasione iniziò un sabato mattina, il 15 aprile 1961.
Piloti al soldo della Cia bombardarono gli aeroporti di Santiago di Cuba e di San Antonio de los Baños e i velivoli dell'aviazione cubana a L'Avana. All'alba del giorno dopo, 1.500 terroristi sbarcarono nella Baia dei Porci. Le forze di Castro affondarono le navi degli invasori e annientarono o fecero prigionieri tutti i commandos anticastristi che erano scesi a terra.
Mentre Cuba era sotto una pioggia di bombe, Raúl Roa invocò ancora una volta l'aiuto delle Nazioni unite. Spiegò che il suo paese era stato attaccato da «una forza mercenaria organizzata, finanziata e armata dal governo degli Stati uniti, proveniente dal Guatemala e dalla Florida». L'ambasciatore americano all'Onu, Adlai Stevenson, respinse tali accuse definendole «totalmente false; gli Stati uniti non hanno commesso alcuna aggressione contro Cuba». L'ambasciatore britannico, Sir Patrick Dean, dichiarò il suo sostegno a Stevenson: «Il governo del Regno unito sa per esperienza di poter fare affidamento sulla parola degli Stati uniti».
Tuttavia, non era possibile continuare a negare la realtà. John F.
Kennedy, che dopo Eisenhower era salito alla presidenza degli Stati uniti, decise di riconoscere la verità e si fece carico di ogni colpa, il 24 (22 nel testo inglese) aprile in una dichiarazione della Casa bianca: «Il presidente Kennedy ha dichiarato fin dall'inizio che in quanto presidente si assume piena responsabilità». Ma già il giorno dopo Washington riprendeva la sua guerra contro il regime di Castro e imponeva un embargo totale sui prodotti americani destinati a Cuba.
Per L'Avana, che temeva altre aggressioni, diveniva di vitale importanza attuare tutte le misure necessarie per proteggere la sovranità nazionale.
A Mosca, il leader dell'Unione sovietica Nikita Kruscev seguiva da tempo l'aggressione americana contro Cuba. Scriverà nella sua autobiografia: «Il problema era sempre presente nei miei pensieri. Se Cuba cadeva, gli altri paesi dell'America latina ci avrebbero respinto sostenendo che, nonostante tutta la sua potenza, l'Unione sovietica non era stato in grado di fare alcunché per Cuba, se non dar voce a vane proteste al cospetto delle Nazioni unite». Con una sfida temeraria, Kruscev decise di lanciare l'operazione «Anadyr» e, nel maggio 1962, spedì per nave, verso Cuba, attraverso l'Atlantico (territorio della Nato), 50.000 soldati sovietici e 60 missili atomici... Così facendo, Nikita Kruscev dimostrava il suo impegno a difesa dell'alleato caraibico, guadagnava posizioni strategiche e dava una dimostrazione di forza sia nei confronti degli Stati uniti che della Cina. I soldati sovietici stavano installando i missili nucleari a Cuba allorché, il 14 ottobre 1962, vennero fotografati da un aereo spia americano, un U-2 in volo ad alta quota.
La notizia sconvolse l'amministrazione americana. Il presidente convocò immediatamente il suo Consiglio nazionale di sicurezza in una riunione segreta alla Casa bianca. «Perché [Kruscev] ha messo [i missili] proprio lì? - si chiese John F. Kennedy. È come se, all'improvviso, noi cominciassimo a mettere un gran numero di missili atomici a medio raggio (Mrbm) in Turchia; sarebbe dannatamente pericoloso, credo».
McGeorg Bundy, il suo consigliere speciale, gli rispose: «Lo abbiamo fatto, signor presidente», riferendosi ai missili nucleari Jupiter che gli Stati uniti avevano installato per l'appunto in Turchia, in prossimità della frontiera con l'Unione sovietica, nel 1961.
Il presidente Kennedy era comunque convinto che i missili nucleari dovessero essere evacuati. Non erano ancora operativi, come lo rassicurava la Cia, ma la loro installazione continuava e il fattore tempo rivestiva la massima importanza. Il segretario alla difesa, Robert McNamara, consigliò al presidente di non discutere la questione di fronte alle Nazioni unite: «Una volta attivato il canale politico, credo che lei non avrà più la minima possibilità di lanciare un'operazione militare». Poco dopo lo scoppio della crisi, Richard Gardner, vice segretario agli affari internazionali, spiegò senza tante perifrasi: «A Washington... consideriamo le Nazioni unite in modo pratico e realistico, un mezzo di promozione del nostro interesse nazionale».
Trattative dietro le quinte Nonostante le enormi pressioni del Pentagono, che voleva bombardare e invadere Cuba, John F. Kennedy saggiamente si pronunziò contro tale opzione. Soltanto in un secondo tempo si scoprì che le forze terrestri sovietiche di stanza a Cuba erano dotate anche di missili nucleari tattici che avrebbero utilizzato contro un'invasione delle forze americane, scatenando così la prima guerra atomica tra due potenze nucleari...
Il presidente americano decise invece di procedere a un blocco marittimo attorno all'isola, onde impedire alle navi sovietiche di portare altri missili. Lunedì 22 ottobre, in un discorso trasmesso per televisione, John F. Kennedy spiegò alla gente sbalordita, negli Stati uniti e in tutto il resto del mondo, che l'Unione sovietica, «in una sfida flagrante e deliberata» della Carta delle Nazioni unite, aveva installato missili nucleari a Cuba. «Il pericolo maggiore sarebbe stato decidere di non far niente», sottolineò, spiegando che aveva ordinato di attuare un rigoroso embargo nei confronti di qualsiasi apparecchiatura militare offensiva imbarcata verso Cuba. Nel contempo, una risoluzione americana invitava «all'immediato smantellamento e al ritiro di tutte le armi offensive dislocate a Cuba, sotto il controllo degli osservatori delle Nazioni unite». Riferendosi al blocco, il segretario generale dell'Onu, Sinth U Thant, un buddhista della Birmania, raccontò in seguito: «Stentavo a credere ai miei occhi e alle mie orecchie. Tecnicamente, ciò segnava l'inizio della guerra contro Cuba e l'Unione sovietica.
Per quanto ricordo, è stato il discorso più grave e più funesto mai pronunciato da un capo di stato».
Cercando di impedire una escalation della crisi, U Thant sollecitò immediatamente tutti i membri delle Nazioni unite ad astenersi da qualsiasi azione militare. Dietro le quinte, parlò con Kennedy, con Kruscev e con Castro. A quest'ultimo confessò: «Se la Cia e il Pentagono continueranno a disporre di tanto potere, il futuro del mondo si presenta sotto una pessima luce». In quello stesso momento, Adlai Stevenson faceva del Consiglio di sicurezza, che all'improvviso tornava ad essere utile, «il tribunale dell'opinione mondiale», per citare le sue parole. Il 25 ottobre presentò le foto dei missili nucleari sovietici a Cuba di fronte a un pubblico perplesso e ad un ambasciatore sovietico molto imbarazzato, Valerian Zorin, che riuscì solo a borbottare: «Sono prove truccate ...». Stevenson spiegò che Kennedy aveva ordinato il blocco senza consultare il Consiglio di sicurezza dell'Onu perché l'Unione sovietica avrebbe bloccato qualsiasi risoluzione in merito. Un amico di Stevenson osservò che l'ambasciatore aveva fatto colpo sul pubblico americano: «Nei giorni successivi, la sua posta ha indicato che si era trasformato in una specie di eroe per il vasto pubblico americano, che era abituato a una dieta televisiva a base di rozza violenza e di bugie pubblicitarie piene di allusioni sessuali».
I bombardieri americani erano già in volo, con il loro carico di bombe nucleari e i piani di volo che li dovevano guidare verso i bersagli strategici nell'Unione sovietica. Le forze della Nato nell'Europa occidentale erano in stato di allerta. Le forze militari Usa si stavano radunando nel sud degli Stati uniti. Le navi e i sottomarini sovietici stavano manovrando nei Carabi.
A Cuba, i soldati sovietici lavoravano giorno e notte per rendere operativi i loro missili nucleari. Le forze di terra sovietiche a Cuba, prive di qualsiasi possibilità di rifornimento dal loro paese, puntavano i missili nucleari tattici contro una possibile forza d'invasione americana. Cuba si preparava ad un'invasione imminente e schierava anch'essa le sue forze armate. La catastrofe era ormai vicina. Ma non si concretizzò. Perché dietro le quinte si intavolarono le trattative. Fermamente decisi ad evitare la guerra, Kennedy e Kruscev raggiunsero l'accordo di ritirare senza clamore i rispettivi missili da Cuba e dalla Turchia, e, il 28 ottobre 1962, gli Stati uniti promisero di astenersi da qualsiasi nuovo attacco contro Cuba (promessa poi non mantenuta). Il mondo respirò di sollievo.
All'inizio di novembre era stato disinnescato il conflitto potenziale più pericoloso dei tempi della guerra fredda.
L'insegnamento che ci viene dalla Baia dei Porci è chiaro e semplice e valido ancora oggi: tutti i paesi, grandi e piccoli, dovranno innanzi tutto astenersi dal violare le norme e i principi delle Nazioni unite.
In secondo luogo, dovranno tener sempre fede ai loro impegni nei confronti dell'Onu, e non sfruttare tale organizzazione soltanto nel momento in cui hanno bisogno di un appoggio a livello internazionale.
Infine, tutti i paesi, soprattutto i membri più potenti della comunità mondiale, devono, in qualsiasi circostanza, decidere contro la guerra e astenersi da qualsiasi azione militare unilaterale.

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