Da Avvenire del 09/05/2006

Il caso

Moro, nessun regista

Escono le memorie di Belci e Bodrato, nel '78 collaboratori di Zaccagnini: «Sfatiamo il mito di un Grande vecchio dietro alle Br»

«Alcuni "trattativisti" insistono a sostenere che il presidente Dc fu vittima di una congiura. Ma, se fosse vero, allora sarebbe stato inutile sperare di salvarlo con una trattativa»

di Marco Roncalli

Sono passati ventotto anni. Né tanti, né pochi, più di una generazione. Un periodo in cui, direbbe Karl Popper, la verità ha continuato a nutrirsi di errori, mentre la parola terrorismo si è via via caricata di altri significati, sostituendo ai colori "rosso" e "nero" connotazioni come "islamico" e "internazionale". Eppure è impossibile seguire la vicenda politica italiana senza continuare a partire da là. Da quel 9 maggio che vide l'esecuzione di Moro, nulla - si è detto - è stato come prima. E tuttavia è persino difficile capire se le cose poi siano andate meglio o peggio, almeno in termini di ethos dentro la Repubblica. Una certezza però ci soccorre: il corso successivo ha restituito a Moro - quello libero degli incarichi politici e quello prigioniero delle lettere dal carcere - una statura altissima di politico vero e un onore più volte negatigli nel suo agire da leader di partito e da cattolico militante, e persino nell'umana disperazione davanti alla fine. Quanto al resto sull'affaire Moro si continua a rivisitare la storia. E tuttavia la pietra sepolcrale con la quale da un po' si vorrebbe seppellire tutto in fretta ancora non c'è. Ed ecco allora che si ritorna a parlare di quanto ha preceduto ed è seguito a quella che i brigatisti definirono in un comunicato del '79 la «Campagna di primavera». E si continua a discutere per comprendere i veri motivi di un bersaglio, il "regime democristiano", e della scelta di sgretolarlo attraverso la cancellazione di Moro. Via Fani, l'assassinio della scorta (ricordiamo quei nomi: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Giuliano Rivera), il rapimento e il processo, lo iato fra le ragioni della "trattativa" e della "fermezza", l'esplorazione di altre strade, «la fine dell'amico Aldo», gli equilibri del partito e la continuazione di una linea, la solidarietà nazionale e il rapporto con i comunisti, le teorie sulla democrazia compiuta... Tutte queste sequenze - inesorabilmente - tornano alla mente di chi davvero fa politica. E si può pensare a Moro anche sentendo parlare di quel Quirinale che avrebbe dovuto aprirgli le porte se... Arrivano in libreria proprio oggi i ricordi di Guido Bodrato e Corrado Belci, 1978 Moro, la Dc, il terrorismo (Morcelliana, pagine 298, euro 22,00) che riflettono su molti di questi passaggi alla luce dei segnali premonitori e dell'esito. Una ricostruzione che si concentra sul partito armato senza rimuovere i rischi corsi dal Paese ad opera della strategia della tensione. «Non traiamo questo libro da un diario (che comunque in quei terribili giorni non avremmo tenuto), ma ci ha aiutato a ricordare quegli avvenimenti la ferita che è rimasta aperta nel nostro animo», scrivono i due autori, tra i più stretti collaboratori di Benigno Zaccagnini, il segretario della Dc durante il rapimento Moro (Zac li aveva chiamati, nella convinzione di averne bisogno solo per un paio di mesi e insieme a Giovanni Galloni e a Beppe Pisanu sarebbero stati chiamati «la banda dei quattro»). Un lavoro, questo di Belci e Bodrato, che risente ancora dell'angoscia provata «nei giorni del tormento», minuto dopo minuto. Pagine scritte perché altre, con «certe interpretazioni che fanno violenza alla storia, non possono essere avallate dal silenzio». Il memoriale a due voci parte dalla genesi e dall'evoluzione del centrosinistra , dall'attenzione ai comunisti considerati innanzitutto cittadini da aiutare nell'avvicinamento a forme democratiche, analizza la crisi politica e istituzionale che l'Italia ha vissuto negli anni Settanta (con tre scioglimenti anticipati del Parlamento: 1972, 1976, 1979), non evita l'interrogativo della presunta subalternità della Dc al Pci, e si ferma ai primi anni Ottanta, cioè al congresso democristiano che ha posto fine alla politica del confronto e ai governi di solidarietà nazionale, ma anche al deposito della requisitoria del Pm sulla strage di via Fani e sull'assassinio di Aldo Moro al tribunale di Roma, alla richiesta di rinvio a giudizio dei brigatisti al tribunale di Torino. Nel testo e nelle conclusioni ecco inoltre lunghe riflessioni sulla crisi provocata dalla morte di Moro e sul valore del suo insegnamento. Riflessioni non ignare del fatto che comunque la violenza ha continuato a colpire una democrazia difficile, a insanguinare un Paese spezzando le vite di chi voleva capire, fare, cambiare. Una violenza, questa la tesi di Belci e Bodrato, figlia di un terrorismo nato in casa che si accanisce contro il partito del «cuore dello Stato». Quello scudocrociato, ritenuto dai brigatisti erede del fascismo e articolazione dell'imperialismo americano, ma anche per qualche interprete l'invisibile stratega dei servizi deviati, mandante della morte dello statista. Letture distorte che Belci e Bodrato rifiutano, chiedendosi se ha avuto senso rifiutare il riconoscimento che le Br pretendevano dalla Dc. Riconoscimento : una parola in cambio di una vita: ma davvero possiamo riassumere solo così?. «Qual era il significato di quella parola, quali potevano essere le conseguenze di una resa sulla vita del Paese? Anche questo dubbio deve fare i conti con il fatto che il terrorismo non è iniziato con l'assassinio di Moro, ma soprattutto non si è concluso con i processi e la condanna delle "vecchie" Br. Quasi tutto il commando che ha partecipato alla strage di via Fani è stato processato e ha scontato una pena, salvo Casimirri», scrivono i due. E continuano: «Eppure c'è ancora chi continua a cercare il "grande vecchio", il regista degli Anni di piombo. Mentre alcuni brigatisti ed esponenti di altri gruppi dell'arcipelago del terrorismo hanno scritto memorie e partecipano a dibattiti su un tempo che ha sconvolto anche la loro vita, alcuni "trattativisti" continuano a sostenere che dietro le Br c'erano i servizi segreti e che Moro è stato vittima di una congiura. Qualche volta si tratta di un sospetto sincero, molte volte di un pretesto. Ma se questa fosse stata la realtà, sarebbe stato inutile sperare di salvare la vita di Moro con una trattativa».

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