Da Aprile del 26/07/2006

Abu Omar e il fango del Sismi

Servizi. Pollari che nega e poi torna sui suoi passi, Mancini che incastra il suo superiore, due civili coinvolti e un suicidio sospetto. Una vicenda sempre più ingarbugliata

di Andrea Santini

Più si va avanti e più questa storia del sequestro dell’Imam Abu Omar da parte di un commando della Cia assistito da una squadra mista italiana di cui avrebbero fatto parte uomini del Sismi, un carabiniere del Ros con ambizioni di 007 e - si scopre adesso – due civili di quella struttura parallela già apparsa nello scandalo Laziogate e delle intercettazioni abusive, si sta trasformando in un velenoso nido di serpenti. Vediamo la situazione.

Primo punto. Il colonnello Marco Mancini, responsabile della prima Divisione e braccio destro del direttore del Sismi Niccolò Pollari, assieme al suo predecessore ed ex superiore Gustavo Pignero erano stati arrestati (il secondo ai domiciliari per motivi di salute), interrogati e rilasciati. Era successo che, poco prima dell’arresto, Mancini aveva invitato Pignero ad un appuntamento in via Tomacelli, dinanzi al negozio della Ferrari e, con un registratore nascosto in tasca, lo aveva convinto a “cantare”, liberando lui da ogni responsabilità e incastrando il direttore del Sismi Pollari. L’ordine, insomma, veniva dall’alto.

Ora, se si considera che le parole registrate hanno liberato da ogni responsabilità anche colui che le pronunciava, vale a dire Pignero, chi ci dice che i due non si siano messi d’accordo? Dato che tutta la vicenda ricadeva sotto il segreto di Stato, e che quindi nessuno dei due poteva parlarne ai magistrati, ecco che la registrazione rubata salva capra e cavoli.

Oppure è tutto vero, ma allora verrebbe da domandarsi se vi siano dei precedenti su un alto dirigente del Sismi che incastra col sistema più ovvio del mondo il proprio superiore, e soprattutto su un superiore, già a conoscenza del fatto che l’altro non è d’accordo con lui, che, nonostante anni di esperienza, si fa incastrare come un pollo.A noi precedenti non ne vengono in mente. Se qualcuno ne conosce, batta un colpo.

Secondo punto. Il direttore del Sismi, che ha sempre negato, ora ammette di essere stato informato che la Cia stava organizzando il sequestro, e che anzi aveva chiesto l’aiuto del Sismi, ma dice che ha rifiutato l’aiuto, ha avvertito per lettera il politico di riferimento, vale a dire il sottosegretario Letta, e poi, dopo il sequestro, non ha denunciato il fatto perché non aveva le prove che il sequestro fosse stato compiuto dalla Cia.

In ogni caso fa appello al segreto di Stato e, attraverso i suoi legali, chiede che i magistrati interroghino il presidente del Consiglio dell’epoca, Silvio Berlusconi, l’attuale presidente del consiglio Romano Prodi e i rispettivi sottosegretari con delega sui servizi segreti, Gianni Letta ed Enrico Micheli.

Una situazione melmosa. Anche perché ci sono degli antefatti. Il primo è che, non appena Mancini è entrato nell’occhio del ciclone, Pollari lo ha scaricato senza scaricarlo. Vale a dire lo ha messo in malattia, o ferie, scegliesse lui. Poi però ha lasciato che Mancini scegliesse il suo sostituto, che era il suo vice, uomo a lui fedelissimo.Ha senso?

Il secondo è che Pollari e il Sismi, mentre i giornali si ponevano domande e indicavano responsabilità, hanno ricevuto attestazioni di fiducia da entrambi i governi, il passato e il presente, e che Pollari, in attesa che sia pronta la riforma dei Servizi, resta al suo posto. Ha un senso?

Terzo punto. Uno dei fatti più inquietanti dell’inchiesta milanese è la scoperta della Centrale occulta di Via Nazionale, una sorta di Ufficio Affari Riservati retto da un ex sindacalista di Telecom, Pio Pompa, passato nelle fila del Sismi con il compito di “occuparsi” dei giornalisti, vale a dire arruolarli (è il caso di Alberto Farina, vice direttore di “Libero”, indicato come “fonte Betulla”), di fornire loro false notizie o di depistarli.

Per quelli che non era possibile arruolare, insufflare o depistare, come il vice direttore di “Repubblica” Giuseppe D’Avanzo, il ruolo dell’ufficio era quello di tenerli d’occhio, con tutti i mezzi possibili, leciti e illeciti. In più l’ufficio aveva il compito di predisporre dossier, anche su politici e magistrati. Dossier in cui vanivano raccolte tutte le voci e i pettegolezzi, senza preoccuparsi che fossero provati i meno. I magistrati li hanno sequestrati a casse.

Ora, da quello che si può capire, questo ufficio avrebbe dovuto essere uno dei luoghi più protetti, segreti e nascosti fra tutte le strutture del Sismi. E allora qualcuno dovrebbe spiegare perché fosse normalmente frequentato dal direttore del Sismi, persona conosciutissima non solo nell’ambiente, e la cui foto finiva spesso sui giornali. Ha un senso?

Quarto punto. Il direttore del Sismi Pollari, giustificandosi con impegni di lavoro, ha dribblato la convocazione dinanzi al Copaco, la Commissione bicamerale di controllo sui servizi segreti, che ieri ha però ascoltato il suo alter ego al Sisde, il generale Mario Mori, il quale non ha avuto difficoltà a parlare. Per dire che non ne sapeva niente di niente: La Cia non lo ha informato, il Sismi non lo ha informato, e neppure la Digos di Milano, che indagava su Abu Omar per conto dei magistrati, lo ha informato.

E visto che tra i compiti istituzionali del Sisde c’è quello di tenere costantemente sotto controllo i centri islamici in Italia, ha svolto il regolare monitoraggio anche sul centro di viale Jenner a Milano, gestito dall’imam Abu Omar, ma non ha avuto neppure sentore che si preparavano a rapirlo. E’ possibile che i suoi uomini non si siano resi conto che l’imam era pedinato non solo dalla Cia, ma anche dagli uomini del Sismi, con una evidente invasione di campo? La risposta del generale è stata che non era compito istituzionale del Sisde occuparsi degli uomini della Cia. Tre ore di audizione per non dire assolutamente niente. Ha un senso?

Soprattutto se si considerano altri elementi. Uno, il gran traffico di riunioni, di trasferimenti di vertici del Sismi di varie città, ma soprattutto il ruolo del colonnello Mancini. Mancini, per Mori, al di là del ruolo istituzionale, non è uno sconosciuto. Ha fatto parte del nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa, di cui Mori era il vice, a Milano. E’ l’uomo che ha infiltrato Frate Mitra e che ha portato all’arresto di Curcio e Franceschini. E l’uomo che si è occupato del caso Moro.

Per di più, la scoperta della partecipazione al sequestro di due uomini dell’agenzia di investigazione privata di Cipriani portano ad un altro dei suoi ex uomini. Quel Tavaroli, collega di Mancini nel Nucle antiterrorismo di Milano e poi dirigente Telecom con delega alla sicurezza e alle intercettazioni telefoniche, che era il datore di lavoro di Cipriani. Viene da pensare che gli uomini di Mori abbiano fatto come le tre scimmiotte e non gli abbiano riferito nulla, o che il capo del Sisde non sia toccato dal pur minimo senso di curiosità. Ha un senso?

Quinto punto. C’è un morto scomodo in questa vicenda. Si chiamava Adamo Bove, era un ex poliziotto, anzi, un brillantissimo ex poliziotto, che ad un certo punto ha mandato all’aria la carriera ed è diventato un dirigente della Telecom. Il settore, sempre quello della sicurezza telefonica e delle intercettazioni, come Tavaroli. Ufficialmente si è gettato da un viadotto dell’autostrada. Subito dopo la sua morte nei giorni scorsi, su di lui sono cominciate a correre voci. Che fosse coinvolto nelle intercettazioni illegali, che non sopportasse l’idea di essere chiamato a risponderne penalmente, e che tutto questo lo avesse portato al suicidio.

Finché non sono intervenuti i magistrati a chiarire le cose. Bove stava collaborando con loro. Era lui che li aveva messi sulle tracce di Cipriani nella vicenda Laziogate. Era lui che, come consulente, li aveva portati a individuare i telefonini utilizzati nel sequestro di Abu Omar. Era sempre lui che stava indagando sull’utilizzo illecito delle intercettazioni Telecom. E che negli ultimi tempi si era accorto di essere pedinato e, forse, intercettato. Suicida? Ha un senso?

Bove era stato un poliziotto dai nervi d’acciaio, aveva operato a Napoli in una situazione di rischio personale altissimo, contrastando con freddezza e lucidità le famiglie di camorra più sanguinarie. Tra i suoi successi c’è quello dell’arresto di Schiamone detto “Sandokan”, uno dei latitanti più ghiotti della camorra. Un uomo che aveva traffici internazionali con la ex Yugoslavia, armi, medicinali taroccati e droga. E che per questo era nel mirino anche del Sismi.

Fu proprio dopo quei successi che Adamo Bove mollò tutto e si trasferì in Telecom. Un uomo depresso, un candidato al suicidio? Ha un senso?

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