Da Corriere della Sera del 11/01/2007

Una lunga catena di misteri senza soluzione dopo 26 anni

di Giovanni Bianconi

ROMA — L'ultimo pubblico ministero che si è occupato della strage di Ustica in un'indagine durata 26 anni, Erminio Amelio, è costretto dal ruolo e dal rito a dire che — ovviamente — «la sentenza della Cassazione va rispettata e non c'è nulla da commentare». Lui e la collega Maria Monteleone, insieme al procuratore generale, avevano sostenuto una tesi diversa da quella affermata dai giudici supremi, ma le regole sono queste, il magistrato lo sa e si adegua. Poi però aggiunge: «La verità non si prescrive. La ricerca dei perché a domande rimaste senza risposta è un dovere che non viene meno col passare del tempo».
Ecco perché, secondo il pubblico ministero, è valsa comunque la pena arrivare fino all'ultimo grado di giudizio, seppure a oltre un quarto di secolo dai fatti, con un numero d'imputati ridotto all'osso e un verdetto che non accontenta nessuno. Tranne forse gli accusati definitivamente assolti, che però possono rammaricarsi di aver dovuto aspettare tanti anni prima di vedere riconosciuta la propria innocenza. Nei meandri di un'indagine cominciata la sera del 27 giugno 1980 alla Procura di Palermo, poi trasferita a Roma e andata avanti con le regole del codice di procedura penale abolito nel 1989, si sono scontrate tesi e conclusioni opposte, fino all'avvicendarsi di sentenze con significati storici e politici che vanno oltre il semplice binomio condanna o assoluzione.
A cominciare dalle prescrizioni dichiarate nel 1999 — a quasi vent'anni dalla tragedia — nell'ordinanza-sentenza firmata dal giudice istruttore Rosario Priore, che rimandava a casa senza processo i presunti autori materiali dei depistaggi avvenuti attraverso la consumazione di reati scoperti e accertati (almeno secondo gli inquirenti) fuori tempo massimo. Uscirono così di scena i «radaristi» e altri che ebbero a che fare con la manomissione di nastri e registri. Cosa ben diversa dall'affermare che non era successo nulla. Anzi. Così come il fatto di non essere riusciti a individuare con certezza le cause dell'esplosione del Dc9 non ha impedito di disegnare uno scenario di guerra (o quasi) intorno a quel disgraziato aereo. L'annosa disputa tra «partito del missile» e «partito della bomba» (con la variante alimentata dai fautori della «sfiorata collisione» tra corpi volanti, mentre perdevano consensi i propugnatori del «cedimento strutturale») non s'è mai conclusa. Tuttavia le presenze di velivoli quasi sicuramente militari sul cielo del mar Tirreno in quella sera d'inizio estate del 1980 è stata certificata da un atto giudiziario. Anche se troppo tardi per capire da dove venissero e perché erano lì.
Troppo tardi è avvenuto, probabilmente, il recupero del relitto, rimesso insieme dopo un paio di lustri dal disastro. E quello che è successo intorno alle perizie contrapposte e alle testimonianze su episodi di questa storia rimasti senza spiegazione ha poco da invidiare a un «giallo» ben costruito. Ci sono perfino degli strani incidenti mortali e suicidi su cui grava il sospetto dell'omicidio mascherato. Ma questo appartiene quasi alla tradizione dell'Italia repubblicana, che di misteri e «buchi neri» è costellata fin dalle origini.
Nell'aula della Corte d'assise sono approdati solo quattro alti graduati dell'Aeronautica militare, accusati di aver impedito — con i loro comportamenti — alle autorità di governo di conoscere la verità; e quindi di riuscire a scoprire i colpevoli di quanto accaduto o ad attivarsi perché ciò avvenisse. «Attentato contro organi costituzionali», era il titolo del reato. Parzialmente riconosciuto per due dei quattro imputati; due generali ai quali non venne attribuito «l'impedimento» alla conoscenza dei fatti, ma soltanto una «turbativa»: ipotesi meno grave, condanna prevista più lieve, conseguente prescrizione. Dietro quel declassamento del reato, però, c'era un quadro politico più inquietante ancora. Perché il fatto che i militari avessero reso non impossibile bensì più difficile l'accertamento della verità richiamava in causa le responsabilità di chi in ogni caso non si mosse adeguatamente per capire che cosa fosse successo. Il governo in primo luogo.
Sentenza di primo grado scomoda, quindi; per i generali assolti grazie alla prescrizione e non solo per loro. Ribaltata in appello. Non tanto nell'esito pratico (l'assenza di colpevoli c'era prima ed è rimasta), ma per via delle formule giuridiche che ancora una volta nascondevano significati più profondi. Se reato ci fu — sostennero i giudici nel dicembre 2005, a venticinquennale della strage già celebrato — doveva essere l'«impedimento», e non la semplice turbativa; di cui però non s'è raggiunta la prova certa. Dunque assoluzione piena in luogo della prescrizione, perché «il fatto non sussiste».
È contro questa verità giudiziaria che i pubblici ministeri hanno presentato ricorso in Cassazione. E visto che nel frattempo il Parlamento aveva riformato il reato contestato, si poteva stabilire che i generali tornavano a casa puliti per via di quella modifica, non perché mancassero le prove a loro carico. Ma gli ultimi giudici hanno detto di no, lasciando intatta l'assoluzione piena. E potrebbero aver detto no (ma bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per saperlo con certezza) alla possibilità che la pubblica accusa sia abilitata a farsi carico dei diritti delle parti civili. Uno dei motivi per chiedere l'altro esito era infatti l'eventuale richiesta dei risarcimenti in sede civile. Questione tecnica anch'essa, da dirimere attraverso l'interpretazione di norme e codici, dietro la quale se ne cela una più vasta e per nulla formale: i diritti delle vittime e dei loro familiari. Che da ieri non hanno più sedi legali per far sentire la loro voce. L'ultima (e a questo punto unica) verità giudiziaria è che sulla strage di Ustica non ci furono depistaggi né «alti tradimenti»; ciò che accadde veramente e uccise ottantuno persone è un'altra storia e resta misteriosa.

«La ricerca della verità non si prescrive»

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