Da La Repubblica del 16/05/2007
Originale su http://www.repubblica.it/2007/05/sezioni/cronaca/calabresi-libro/gemma...

Domani a Milano la targa per il commissario morto nel 1972. "Solo dopo 35 anni una targa gli restituisce la dignità"

Gemma Calabresi: "Solo ora torno dove uccisero Luigi"

di Dario Cresto-Dina

MILANO - In via Cherubini, di fronte al portone accanto al quale venne ucciso la mattina del 17 maggio 1972, c'è un piccolo prato. Nell'erba, qualche giorno fa, sorrette da quattro aste di ferro arrugginite sono comparse le strisce biancorosse di carta plastificata che delimitano un quadrato di tre metri per tre. Qui, domani, la città di Milano scoprirà un masso delle montagne lombarde per ricordare il commissario Luigi Calabresi.

La vedova, domani, tornerà per la prima volta in questa strada, sotto questo portone, raccogliendo le sue due vite, quella di prima e quella ricostruita dopo, i quattro figli, il nuovo marito, il dolore, l'orgoglio. A distanza di trentacinque anni un lungo cammino di riconciliazione della famiglia Calabresi con Milano forse si completerà. Gemma Capra adesso è qui, a non più di trecento metri da via Cherubini, e guarda con i suoi incredibili immutati occhi di ragazza le strisce colorate che si agitano nel vento. "Quando il sindaco Letizia Moratti mi parlò della targa, ho provato a riavvicinarmi in macchina alla nostra vecchia casa, ma non ce l'ho fatta. Certe cose le fai subito o non ci riesci più. Domani non sarà facile. Non mi sono preparata, non mi preparo mai. Affronto le cose. Farò lo stesso anche questa volta. Sono sicura che ci riuscirò".

Signora Gemma, esistono diversi tipi di memoria. Vorrei cominciare da quella intima. Dov'è oggi, nel suo lessico familiare, suo marito Luigi Calabresi?
"A differenza di mio figlio Luigi, che ha sempre in tasca il ritaglio di un articolo sul suo assassinio, non tengo la foto di Gigi nel portafoglio. Luigi non ha mai conosciuto suo padre, quando è morto stava nella mia pancia, se fosse stato una bambina avevamo deciso che l'avremmo chiamata Chiara. Un giorno gli ho detto: hai un nome impegnativo da portare, ti chiedo scusa. Lui mi ha risposto: "No, mamma, sono contento di doverlo fare". Ho un cassetto pieno delle cose di Gigi, delle cose sue e mie, e ancora mi stupisco che siano così tante, visto che non siamo riusciti a fare nemmeno tre anni di matrimonio. Ho l'ultima rosa che mi ha portato e ho lui dentro i nostri figli".

In che modo?
"Nei loro atteggiamenti. Magari ne sorprendo uno davanti allo specchio che si mette a posto il ciuffo e rivedo Gigi con un balzo del cuore e poi lo ritrovo in un fratello per come tiene tra le dita la tazzina del caffè. Mario, il più grande, ha la sua forza, è avvolgente come lui, come lui si prende cura di tutti, Paolo nel sonno ha la sua stessa espressione, Luigi ne ha ereditato l'ironia, le battute".

Quando Carlo Azeglio Ciampi le ha consegnato la medaglia alla memoria di suo marito lei ha detto di sentirsi un po' una reduce. Quanto fanno ancora male le ferite?
"Vede, io sono orgogliosa di quello che ho fatto in questi trentacinque anni. Ho preso delle decisioni: ho cambiato lavoro, mi sono risposata, ho educato i miei figli tenendoli lontani dall'odio e dalla vendetta, ho ritrovato anche la gioia di vivere. Oggi sento una strana pace interiore, strana nel senso che avverto un dolore terribile e sereno. La ferita non si rimarginerà mai, mi fa male anche soltanto quando passo accanto alla panetteria di corso Vercelli e sento il profumo del pane che compravo per Gigi, dei "francesini" molto croccanti".

Che uomo era il commissario Calabresi?
"Molto diverso da come è stato raccontato. Brillante, allegro, il romano che si sa godere la vita. Un uomo onesto, un uomo di passioni e di fede. Non un uomo votato al martirio, come qualcuno ha voluto far credere. Questo no".

Lei, Gemma, non ha mai smarrito Dio?
"No. La fede è sempre rimasta con me. Ho sempre sentito vicino Dio, mi ha aiutata a non andare a cercare vendetta. Per merito della fede la rabbia si è trasformata in dolore, con il tempo è cresciuta la mia sensibilità, si è allargata agli altri, ho imparato a prendermi maggiore cura degli altri. Ho pregato per Giuliana Sgrena e Florence Aubenas, per Clementina Cantoni, per la Pari e la Torretta, per Torsello e Mastrogiacomo. Ho pregato per le famiglie di D'Antona, di Biagi, di Calipari e di Raciti, perché so che cosa succede a quelle mogli e a quei figli".

Non ha mai pensato, davanti a tutto questo, che il suo dio sia un dio ingiusto?
"Penso spesso che siamo sbagliati noi, non il mio Dio. Ho capito, invece, la precarietà della vita e della felicità, da trentacinque anni sono consapevole che da un minuto all'altro l'esistenza di ciascuno di noi può venire distrutta. Ma è quel prima o poi che fa la differenza. A me è successo che avevo appena venticinque anni".

Apriamo un'altra stanza della memoria, quella della memoria collettiva. Perché ci è voluto così tanto tempo per andare a recuperarla dalla parte delle vittime del terrorismo e dei loro familiari?
"Forse perché lo Stato non era preparato, non era pronto. Io credo che il terrorismo sia la conseguenza di un ideologismo arido e irrazionale che ha attecchito e che continua nonostante tutto a prosperare perché noi abbiamo perduto la capacità del pensiero critico e del dialogo, quel dovere del dialogo che si dovrebbe insegnare a scuola e che invece si fa poco o per nulla. E poi siamo colpevoli per non essere stati sufficientemente capaci a prendere le distanze dai terroristi: noi, la politica, la sinistra come la vecchia democrazia cristiana, gli intellettuali. Oggi, se penso a Nadia Lioce, se leggo i comunicati demenziale dei nuovi brigatisti mi dico che non ci siamo lasciati alle spalle gli anni di piombo. Il rischio è ancora grosso, è ancora qui".

Bisogna prendere anche le distanze dalle proprie tragedie personali per contribuire alla maturazione di una coscienza collettiva?
"Io ho cercato addirittura di prendere le distanze dal 17 maggio del '72, da quelle immagini che tornano sempre sui giornali e nelle tv. Quel marciapiede, la Cinquecento, il sangue sull'asfalto, gli hanno sparato alla schiena e alla testa.... Quelle fotografie e quei filmati fanno male a me, ai miei figli, al Paese. Io credo nella memoria condivisa, nei suoi insegnamenti, voglio conoscere, conoscere, conoscere. Accogliere le tragedie di tutti perché non succedano mai più".

Qualcosa di positivo si sta muovendo?
"Mi sembra di sì, dopo un vuoto e un silenzio spaventosi. Il primo è stato Scalfaro che ci ha ricevuti con grande onore, ci ha rassicurati. Poi Ciampi e Napolitano hanno fatto loro il dolore delle famiglie colpite dal terrorismo, famiglie di uomini moderati e semplici, con valori, ideali, senso dello Stato. Adesso i gesti del sindaco di Roma Veltroni e di quello di Milano Letizia Moratti, l'iniziativa del presidente della Provincia di Milano Filippo Penati, che ha lanciato anche un appello affinché si metta fine alla contrapposizione tra mio marito e Pinelli, sono segnali importanti e di questo vanno ringraziati perché restituiscono dignità a Gigi e a tutti gli altri morti. Nel rispetto della verità, della giustizia e delle sentenze".

A questo proposito si tornerà presto a discutere della grazia a Adriano Sofri. Immagino che la sua posizione non sia cambiata.
"È un problema dello Stato. Una responsabilità che non deve essere caricata sulle nostre spalle, come ho detto alcuni mesi or sono al presidente Napolitano. Io chiedo soltanto il rispetto delle persone e delle sentenze, chiedo che non si trasformi una possibile grazia in un verdetto di innocenza".

Dio insegna il perdono. Lei chi ha perdonato?
"È difficile rispondere a questa domanda senza correre il rischio di un malinteso. Non si può perdonare con la bocca se non lo si è fatto prima con la mente e il cuore. Perché Gesù sulla croce non ha detto: vi perdono? Perché Gesù, che in quel momento era un uomo, sente che umanamente è impossibile perdonare e affida il compito a Dio: Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno. Indica a noi una strada, ci dà il tempo del cammino. Io su quel cammino, mi creda, ci sono".

E a che punto si trova?
"Leonardo Marino ci ha chiesto perdono. Io l'ho perdonato. Nessun altro ci ha chiesto nulla".

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