Da Avvenire del 27/07/2007

DIBATTITO - La contestazione rappresentò una cesura fondamentale, come quella successiva dell'89: dopo l'intervento di Benedetto XVI

Chiesa e '68: partita aperta

La parola «crisi» rappresenta appieno quegli anni: la speranza allora era di superarla, ma il progetto raramente riuscì. Vinse la soggettività del desiderio: ma resta oggi aperta la domanda sul futuro

di Vittorio Possenti

Per i quarant'anni del '68 e della contestazione, il 2008 sarà un anno di dibattiti e bilanci. Benedetto XVI ha anticipato i tempi, ravvisando nel '68 una «cesura storica» ed una «crisi della cultura in Occidente». Due anni fa a Introd il papa alluse al '68 da una visuale religiosa, riferendosi alla «grande crisi della lotta culturale scatenata nel '68, dove realmente sembrava passata l'era storica del cristianesimo… Vediamo che le promesse del '68 non tengono». Egli interpretò il '68 come un conflitto fra visione religiosa e opzione secolaristica. Il teologo Ratzinger visse da vicino questi aspetti nell'università tedesca del tempo e ne scrisse nell'autobiografia, a testimonianza che già allora il suo giudizio sul '68 come «secondo illuminismo» era formato. Egli comprendeva che per tale movimento il tempo della fede e della Chiesa era considerato finito.

Oggi - nelle sue risposte ai sacerdoti a Lorenzago - la diagnosi riguarda la cultura. Forse a qualcuno sembrerà che il pontefice abbia troppo nobilitato la contestazione, attribuendole un'importanza eccessiva e quasi paragonandola all'altra grande cesura rappresentata dal 1989 e dal crollo del comunismo. Lo scorrere del tempo rende invece sempre più chiara la partita che allora si giocò, il cui esito rimase per un poco in bilico, ma che poi prese la strada che conosciamo. In maniera spesso confusa e poco consapevole agli occhi stessi di chi conduceva la danza, accadde allora una svolta che può ricordare la «letteratura della crisi» in auge in Europa a cavallo degli anni '30 del Novecento. In maniera più riflessa La ribellione delle masse di Ortega y Gasset, La crisi della civiltà di Huizinga, La crisi delle scienze europee di Husserl, Umanesimo integrale di Maritain, Il tramonto dell'Occidente di Spengler, tutti questi testi si cimentarono con la grande crisi, esplosa dopo la prima guerra mondiale. La parola-chiave di queste opere è crisi, spesso già dal titolo. Nel '68 la speranza fu di andar oltre la crisi, e raramente il progetto riuscì. Era troppo forte e ideologico il desiderio di far piazza pulita del passato e della tradizione, senza avere in tasca qualche scampolo di progettualità: sembrava che il positivo potesse sorgere per miracolo dalla distruzione. Mi sorprese allora un carissimo amico, dotato di equilibrio e saggezza, che enunziò: «Prima di tutto occorre distruggere, poi si vedrà».

Fondamentali nuclei vennero presi di mira attraverso una critica non senza fondamenti ma spesso esasperata: scuola, famiglia, rapporti sessuali, tradizione, autorità, libertà. Solo ad una certa distanza intravediamo che si cercò di cambiare l'uomo, e che la «questione antropologica» affiorata dopo, iniziò esattamente allora. Non molti se ne accorsero, neppure entro la compagine ecclesiale; forse invece qualche filosofo, in specie Marcuse col suo L'uomo a una dimensione, immediatamente accolto come un libro profetico. Le sue tesi ci appaiono ora segnate da un riferimento a linguaggi usurati, eppure occorre dare atto che il tema era stato posto individuandone il centro: il grande dibattito sull'uomo. Il '68 ha cercato di cambiare l'uomo, e in certo modo vi è riuscito. Intenso fu l'appello ad un soggettività desiderante e pulsionale per la quale valeva il detto: «Desidera tutto, anche se non hai bisogno di nulla».

Il '68 non ha avviato una rivoluzione politica (nonostante il gran parlarne), poiché non ha prodotto nessuna nuova istituzione politica, come osserva giustamente Edmondo Berselli (su Repubblica di ieri). Ha piuttosto innescato una trasformazione spirituale, ponendosi come un evento di crisi nel senso originario del termine, ossia uno spartiacque che divide il prima e il dopo. Uno dei suoi obiettivi polemici fu la realtà stessa della tradizione, sostituita dal cambiamento permanente. Si verificava così la verità di un detto di Mignet, pensato per altre rivoluzioni: in tempo di rivoluzione tutto ciò che è antico è nemico. Da questo atteggiamento «barbarico» proveniva anche la priorità della critica sull'edificazione, del negativo sul positivo. Il contro era uno scopo in sé, qualcosa che si giustificava da solo e che rinviava ad un domani indeterminato il momento positivo. Forse Fukuyama ha calcato un poco la mano, ma non aveva torto nell'intitolare un suo lavoro La grande distruzione, ravvisandone l'origine nel '68 e nei mutamenti della cultura, dei rapporti uomo-donna, del modo di intendere la sessualità e la famiglia. In quegli anni ha inizio in molti Paesi occidentali un periodo in cui molti indici sociali puntano verso il peggio: aumento dei tassi di divorzio, diminuzione del tasso di fertilità. Nello stesso periodo la soggettività del desiderio favorisce una cultura che relativizza codici morali e comportamenti. Discorso analogo vale per l'autorità, essenziale ad ogni livello. Qui il '68 ha vinto alla grande, identificando autorità con potere. L'equivoco dura tuttora. Che cosa sia l'autorità e quale il suo compito nessuno lo sa più, e perfino in filosofia politica si fatica molto capire se autorità politica significhi qualcosa.

Se la critica del consumismo, che condivisi, è stata messa in angolo dal trionfo del mercato, la liberazione del desiderio cerca ancora la sua strada, non rivolgendosi più alla Politica, come accadeva allora, ma rimanendo affascinata dalla Tecnica. Tra Politica e Tecnica ha vinto la seconda: le rivoluzioni attraverso la politica sono spesso fallite, quelle attraverso la tecnica avanzano. La Tecnica, mentre asseconda l'uomo, finisce per incatenarlo. La persona rischia grosso: si ripropone la domanda di Habermas sul futuro della natura umana. Il '68 non ha risposto.

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