1950. Il bandito Giuliano
Tratto da: Il Nuovo
Storia del bandito Giuliano, ma soprattutto degli intrecci mafiosi nella Sicilia dell’immediato Dopoguerra. Responsabile della strage di Portella della Ginestra "Turiddu" morì in circostanze strane.
Documento aggiornato il 17/02/2006
La banda Giuliano costò all'Italia la vita di149 persone: 42 civili e 86 militari (un ufficiale e 4 soldati dell'esercito; 3 ufficiali dei carabinieri; 24 sottufficiali; 54 militi), 21 poliziotti (3 funzionari, 3 sottufficiali, 15 agenti). Senza contare i reati minori, su di essa pesarono inoltre 172 tentati omicidi:142 di militari e 30 di civili; 46 sequestri di persone. E 3 stragi: nella storia dei luttuosi avvenimenti italiani restò scolpita quella di Portella della Ginestra, capostipite sin dall'immediato dopoguerra di tutte le stragi che poi avrebbero insanguinato il Paese, la prima insomma di un filone che, pur in epoche e su scenari diversi avrebbe avuto gran clamore, suscitato dibattiti parlamentari e vespai di polemiche, partorito interminabili istrutturie e lungi processi. Ma alla fine spesso resteranno ignoti i mandanti e a volte anche gli esecutori e i retroscena, in un mare comunque di dubbi e di interrogativi, al punto che molti esperti diranno: "La strategia della tensione non iniziò nel 1969 nella milanesissima Piazza Fontana ma oltre due decenni prima nella sicilianissima Portella della Ginestra".
Salvatore Giuliano nella sua Montelepre, 343 sul livello del mare, in vetta a un colle che domina la valle del Nocella nella Sicilia nord-occidentale, sembrava destinato alla vita anonima di tanti giovanotti che cercavano di leccarsi le ferite della guerra. "Fin quasi alla fine del 1943 - parole dell'Antimafia - si era mantenuto fedele alle tradizioni della casa dove era nato e del luogo dove aveva operato e non aveva dato alcuna possibilità di far parlare di sè. L'occasione propizia per un radicale cambiamento di rotta, gli si presentò il 2 settembre 1943. Quel giorno, a Quarto Mulino di San Giuseppe Jato, mentre trasportava con un mulo un carico di grano non a posto con le norme annonarie, si imbatté in una pattuglia di carabinieri e di guardie campestri. Alle contestazioni mossegli dai tutori dell'ordine, Giuliano passò subito per le vie più spicce: esplose vari colpi di rivoltella uccidendo il carabiniere Antonio Mancino che insieme all'appuntato Renzo Rocchi e alle guardie campestri Vincenzo Manciaracina e Giuseppe Barone, formava il posto di blocco...".
Questo linguaggio burocratico, sostanzialmente esatto nell'epilogo, trascurava qualche tocco di sceneggiatura: mentre l'appuntato Rocchi e le due guardie campestri andavano a bloccare un altro "borsanerista", Giuliano si trovò puntato addosso il fucile del carabiniere Mancino. Chissà in quel minuto cosa dev'essergli passato per la testa. Deve essersi detto: "O adesso, o mai più". E scattò fulmineo con un spintone, forse un calcio, fatto sta che il carabiniere avvertì al viso l'impatto violento della canna del suo stesso fucile. Poi Giuliano puntò verso il boschetto e quando echeggiò uno sparo, avvertì immediata una vampata al fianco sinistro: era stato ferito. Ebbe la forza di trascinarsi dietro un masso. Forse pensò che, se doveva morire, almeno avrebbe venduto a caro prezzo la pelle.Quando si dice il destino! Senza quel pensiero la Sicilia avrebbe avuto un bandito e una banda in meno e soprattutto tanti lutti, incubi, scandali, tormentoni e anche misteri in meno. Giuliano portò la mano alla calza dove celava la pistola, si alzò e prese la mira: il carabiniere Mancino, centrato al cuore, si accasciò senza un lamento. Lo sparatore si acquattò. E poi, strisciando lentamente, riuscì a dirigersi verso la parte opposta del boschetto, sino a un sentiero tra i campi. Passava un carretto. E il contadino che ci stava sopra non ebbe bisogno di parole per capire. Nascose il ferito tra balle di fieno, se lo portò a Borghetto, chiamò un medico che lavò la ferita e la disinfettò. "Siate gentili. Avvertite mia madre", disse appena Giuliano. Poi sprofondò in un sonno profondo, con una febbre che lo accompagnò per cinque giorni.
Quando si rimise in forze era ormai "Turiddu di Montelepre", classe 1922 del 20 novembre, figlio di Maria Lombardo e di Salvatore Giuliano, in un'epoca in cui al maschio di famiglia molto spesso veniva dato il nome del padre. Salvatore Giuliano senior era stato emigrante a Brooklyn; aveva abitato nella settantacinquesima strad; aveva fatto ciò che gli era capitato: il carrettiere, il muratore, il lattoniere, il fruttivendolo. E la famiglia si era subito ingrandita: per prima nel 1909 era arrivata Giuseppina. Poi nel 1913, ecco il primo maschio che, tanto per non cambiare, era stato chiamato Giuseppe. E nel 1920 era nata Mariannina. Per i Giuliano però, stretti in quel piccolo appartamento di Brooklyn e dilaniati dalla nostalgia di Montelepre, era scattata anche l'ora del "tutti a casa". Appena mamma Maria aveva avvertito che una nuova vita era tornata ad agitarsi nel suo grembo, aveva deciso: "Voglio che questa mia creatura nasca a Montelepre". E così era stato. Turiddu, l'ultimogento, era subito diventato il beniamino di tutti, coccolatissimo da mamma Maria, legatissimo a Mariannina da un affetto viscerale. Cosicché in quei giorni del 1943 la sua decisione di non costituirsi alla legge e di diventare bandito non trovò intorno a sè opposizioni, ma protezioni, innanzitutto all'interno della famiglia.
La costituzione della banda Giuliano; le sue tragiche imprese; l'accorrere sotto le insegne del "re di Montelepre" di giovanotti da ogni angolo della Sicilia; l'exploit di un mito intorno alla sua imprendibilità; la sua fede nel separatismo che trasformava i banditi in "soldati" al suo comando e al servizio di una Trinacria indipendente; le intense macchinazioni della mafia che in collegamento con la politica prima lo lusingò, poi lo usò e strumentalizzò, infine lo abbandonò, hanno riempito archivi di Stato, sotterranei di municipi, persino raccolte di documentazioni vescovili e parrocchiali. In una bibliografia sterminata che in oltre cinquant'anni non ha smesso di animarsi di titoli, io stesso ci ho fatto un libro e nella mia enciclopedia in quattro volumi "Mafia, la vera storia della piovra dalle origini ai giorni nostri", alla banda Giuliano e ai suoi retroscena di intrighi e trame ho dedicato decine di pagine. Eppure, se è vero che sono tanti gli avvenimenti noti e definitivamente chiariti, è altrettanto vero che, quando non restano impenetrabili e del tutto avvolti nel porto delle nebbie, alcuni fatti si trascinano dietro ancora dubbi e interrogativi: da Portella della Ginestra alle vere protezioni di cui godette il bandito; dai radicati rapporti tra mafia e forze addette alla repressione del banditismo (con dispetti e persino concorrenza tra polizia e carabinieri negli "agganci" di confidenti e nella cattura dei latitanti) ai veri perché della messinscena intorno alla morte del bandito e all'avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta, suo cugino-luogotenente; persino alle infinite leggende sui molti amori di "Turiddu"
Il 20 aprile 1947 la Sicilia per la prima volta andò alle urne per eleggere l'assemblea Regionale. Il verdetto fu di 590.882 voti al Blocco del Popolo (social-comunisti), 329.182 alla Dc, 287.588 all'Uomo qualunque, 194.844 ai monarchici e appena 170.789 ai separatisti, conseguenza oltretutto della irrimediabile spaccatura verificatisi dal 30 gennaio al 3 febbraio nel corso del loro terzo congresso. La vittoria delle sinistre caricava di particolare significato la celebrazione del Primo Maggio che, interrotta durante il fascismo, da alcuni anni era tornata a rivestire il ruolo di appuntamento dell'anno a Portella della Ginestra, vallata percorsa dal fiume Jato e posta tra due alture di ginestre chiamate Pizzuta e Cumeta. Avrebbe dovuto tenere il comizio un politico di rango, quel Girolamo Li Causi, originario di Termini Imerese, avversario storico di boss e luogotenenti, che durante il fascismo aveva patito carcere e confino. Impegnato però in un'altra manifestazione, gli organizzatori avevano ripiegato sul giovane sindacalista Francesco Renda che, a sua volta trattenuto da un imprevisto, sarebbe stato sostituito dal calzolaio Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato. Ma in anni di riorganizzazione dei latifondi, profonde tensioni sociali, a quel raduno per la Festa del Lavoro già una settimana prima veniva data un'importanza senza precedenti, a prescindere dagli stessi oratori. E fu in quest'atmosfera d'attesa che maturò la strage.
Non era trascorsa una settimana dalla vittoria del Blocco del Popolo che Maria Lombardo Giuliano, madre di Turiddu, chiamò il genero Pasquale Sciortino, neomarito di Mariannina e lo incaricò di portare una lettera al figlio. Il tono della richiesta non ammetteva repliche. Sciortino raggiunse la fattoria dei fratelli Genovese. Turiddu si appartò, lesse ripetutamente in silenzio, bruciò la lettera con un fiammifero, poi disse: "E' venuta l'ora della nostra liberazione". Uno dei Genovese chiese: "Di quale liberazione parli?". E Giuliano: "Bisogna far un'azione contro i comunisti, bisogna andare a sparare il Primo maggio a Portella della Ginestra". Con questa frase e con quella lettera bruciata iniziava forse il più grosso giallo della vita di Turiddu: si incuneeranno versioni e controversioni, supposizioni e controsupposizioni. Pasquale Sciortino potrebbe aver avuto modo di leggere il messaggio, ma giurerà sempre di no. Maria Lombardo ammetterà invece di aver letto la lettera, ma non si allontanerà mai da questa versione: "Si trattava di amici in America, disposti a far espatriare mio figlio, mettendogli a disposizione persino un aereo". Un giallo insomma apparentemente senza soluzione. Eppure Portella della Ginestra fu la prima delle trame che incominiarono a intossicare la vita dell'Italia liberata. Poiché ufficialmente non si conosceranno mai i mandanti e solo una piccola parte degli esecutori finirà in galera, la strage resterà banco di prova, insomma primo test di una strategia che si ripeterà in altre occasioni: affacciare raffiche di ipotesi, sovrapporle alle deboli tracce dei riscontri testimoniali, per poi alla fine confonderle e neutralizzarle, facendone un polverone. Eppure preparazione ed epilogo, morti, feriti, panico, fuggi-fuggi, sin dall'inizio non erano scalfibili davanti alla Storia.
Salvatore Giuliano diramò un ordine: "Il 30 aprile troviamoci a Cippi", in alto, sopra il cimitero di Montelepre. E divise i presenti in due gruppi: il primo, al suo comando, avrebbe raggiunto la Pizzuta; il secondo, al comando di Antonino Terranova, sarebbe arrivato sulla Cumeta. Sino a un certo punto i due gruppi procedettero insieme, portandosi dietro una mitragliatrice Breda: avanti la squadra di Giuliano, dietro quella di Terranova. Ma questi non giunse mai sulla postazione indicata: si giustificherà di avere intravisto una pattuglia di carabinieri e di aver ripiegato per evitare un conflitto a fuoco che avrebbe mandato a monte l'operazione.
Era una notte di luna, faceva freddo. L'alba si preannunciò poi vicina tra il chicchirichì dei galli e l'abbaiare lontano dei cani delle fattorie. Alle 7 incominciarono ad arrivare per primi i contadini di Piana dei Greci, poi quelli di San Cipirrello, infine quelli di San Giuseppe Jato, chi a dorso di mulo, chi in bici o in moto, chi su grandi carretti addobbati a festa. E le mamme incominciarono a dare la colazione ai loro piccoli sdraiati sull'erba. Intorno alle 9,30 fu il silenzio mentre dal podio si alzava la voce di Giacomo Schirò, attorniato da altri dirigenti comunisti e socialisti locali. Fece in tempo a dire: "Cari compagni, in questa storica giornata...", che quasi in sordina giunse l'eco di un crepitio, poi di un rumore sordo, infine di una raffica. Credendo fossero mortaretti, una vecchietta batté le mani. Si riuscì a capire che gli spari provenivano dalla Pizzuta quando, accanto all'oratore, il sindacalista Vito Alliota venne colpito da un proiettile e cadde come un sasso.Ed ecco qualche mulo piegarsi sulle gambe, un ragazzino in agonia tra le braccia del padre, una mamma con i panni arrossati dal sangue...Allora fu il panico. Alcuni si buttarono a terra, come in tempo di guerra, fingendosi morti, altri se la diedero a gambe levate, dove capitava. Gli spari però sembrarono eterni, durarono otto, forse dieci minuti. Quando cessarono, a Portella della Ginestra, in quel primo maggio del 1947, non fu difficile contare 11 morti (2 bambini, 9 adulti) e 26 persone ferite "più o meno gravemente". Una strage, la prima di tante altre che da allora a oggi, per motivi diversi si verificheranno in Italia.
Quattro testimoni videro tutto o quasi. Erano cacciatori. Probabilmente alla vista della banda Giuliano avevano tentato di nascondersi, ma non c'erano riusciti. Erano perciò stati portati davanti a Turiddu che aveva chiesto: "Mi riconoscete?". Figurarsi però se quelli avevano risposto sì! Perciò erano stati ammanettati, bendati e fatti appiattire sul terreno: in questa posizione avevano udito il primo colpo di pistola, poi le raffiche di mitra. Ad azione conclusa erano stati slegati e invitati a scomparire con una raccomandazione: "Qualora qualcuno dovesse domandarvi chi ha sparato a Portella della Ginestra, rispondete che erano in cinquecento".
La notizia della strage giunse a Palermo come una mazzata. Il prefetto Vittorelli convocò subito un "vertice" di polizia. L'ispettore Ettore Messana inviò al ministro dell'Interno Mario Scelba questo fonogramma: "Confidenti sicuri, di cui non è possibile rivelare i nomi, avevano avvertito subito l'Ispettorato di Pubblica Sicurezza che l'autore del delitto era stato Giuliano e la sua banda. Non si può escludere - ma sinora non è stato possibile nulla raccogliere al riguardo - che l'idea di un'azione criminosa contro i partiti di sinistra sia stata ispirata e rafforzata specialmente da qualche elemento isolato in strette inconfessabili relazioni con il bandito Giuliano". E il maggiore Alfredo Angrisani del gruppo carabinieri di Palermo precisò nel suo rapporto "che azione terroristica devesi attribuire a elementi reazionari in combutta con la mafia". Ergo, prima scattasse la corsa a buttare acqua sul fuoco, sembrò chiaro che se i banditi erano stati gli esecutori, Portella della Ginestra aveva anche avuto dei mandanti. E nel rincorrersi delle voci si affacciarono tante verità, una così diversa dall'altra che ognuna escludeva la successiva, con il risultato finale che né indagini, né processi avrebbero sancito "una verità" definitiva.
"Per me la strage è stata compiuta da Giuliano", volle subito ribadire l'ispettore generale di PS Ettore Messana all'onorevole Girolamo Li Causi lo stesso pomeriggio di quel Primo Maggio 1947 in una riunione che si tenne a Palermo. Come facesse a esserne sicuro così in fretta meravigliò molti. E Messana: "Forse che quella non è una zona comandata da Giuliano?".
Per il 3 maggio i sindacati proclamarono uno sciopero generale. Alla vigilia si verificarono in Parlamento duri scontri. Il dc Bernardo Mattarella protestò contro "le manifestazioni che gettano ombra di turbamento nella vita politica siciliana". E il parlamentare comunista Girolamo Li Causi tuonò: "I nomi sono corsi sulla bocca di tutti. Noi li facciamo perchè li abbiamo fatti sulla stampa...". E parlò di boss e "famiglie" che, a suo dire, avrebbero pilotato e protetto l'azione di Giuliano, ma facendo chiaramente intendere che, aldisopra di tutti, c'erano stati mandanti tra i politici. Il ministro degli Interni Mario Scelba, forte dei telegrammi ricevuti dagli inquirenti palermitani, Messana in testa, affermò che non si trattava di strage politica "poichè nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sè la manifestazione e la sua organizzazione".
Più per quieto vivere che per reale convinzione una retata portò in galera 170 mafiosi, tra cui cinquanta vennero messi in libertà 15 giorni dopo, il resto prima dell'estate, quando si addebitò l'intera responsabilità alla banda Giuliano. Ci vollero dunque un paio di mesi per restringere le indagini al "re di Montelepre" e ai suoi uomini, ma da allora non basteranno decenni per sapere nomi e cognomi di coloro che presumibilmente li avevano armati. Nel 1949 il giornalista Jacopo Rizza, intervistando Giuliano nel suo inaccessibile rifugio da latitante, gli chiese: "Può farmi una dichiarazione su Portella della Ginestra? Chi ha sparato quel Primo Maggio di sangue sui comunisti?". Ma Turiddu tagliò corto: "Non ho nessuna dichiarazione da fare, almeno per il momento".
Nell'aprile del 1950, sempre dalla latitanza, il bandito inviò una lettera alla Corte d'Assise di Viterbo; parlò di "triste errore"; precisò che il piano era solo quello di "prelevare quelli che ritenevo responsabili e giustiziarli lì stesso leggendoci quale era la ragione della loro morte"; sottolineò d'aver provato dolore quando il giorno dopo seppe "e ci interrogammo a vicenda se qualcuno aveva osato sparare direttamente sulla massa...". Chiaro l'intento di Turiddu: da una parte accreditare la versione della fatalità e dell'incidente in modo da continuare a riproporsi agli occhi di molta gente come colui che spesso aveva tolto ai ricchi per dare ai poveri; dall'altra, visto che ormai era ostaggio della mafia e dei politici in rapporto con i boss, assicurarsi attraverso la sua omertà un corridoio di impunità o addirittura un salvacondotto per poter lasciare presto l'Italia. E questo comportamento il bandito lo mantenne in altri due memoriali. Ma poichè il processo di Viterbo alla fine risultò centrato su Portella della Ginestra, sparito dalla scena Giuliano (vedremo come e perchè) toccò al suo ex luogotenente, nonchè cugino Gaspare Pisciotta, sciogliersi la lingua, lanciare messaggi in codice, tentare ricatti, far balenare che un giorno o l'altro avrebbe vuotato il sacco. Era chiara la sua strategia: per lui e gli altri della banda, accusati di decine e decine di delitti, l'unica difesa possibile era alzare sempre più in alto il tiro pensando di poter ottenere considerazione e rispetto. Così non si seppe mai dove stesse il vero o il verosimile, la falsità o la mezza verità e soprattutto sino a che punto l'intera storia della banda Giuliano fosse stata scritta da Turiddu e dai suoi uomini o si fosse invece perpetuata anche tra strumentalizzazioni politiche, piani mafiosi, scenari di intrighi e lotte sotterranee tra gli stessi inquirenti.
"Banditi, mafia e carabinieri eravamo tutti una cosa come la Santissima Trinità: il padre, il figlio e lo spirito santo", urlò un giorno Pisciotta in un'udienza processuale. E in quanto alla strage, se ne uscì un altro giorno con questa frase: " Coloro che ci avevano fatto promesse di liberazione qualora avessimo fatto la strage si chiamano così: il deputato dc Bernardo Mattarella, il principe Gianfranco Alliata di Monreale, l'onorevole Leone Marchesano e il signor Scelba... ". Proseguì Pisciotta: "Furono Marchesano, il principe Alliata e l'onorevole Mattarella a ordinare la strage". Come faceva a saperlo? "Dopo le elezioni del 18 aprile- disse ancora Pisciotta -Giuliano mi mandò a chiamare e ci incontrammo con Bernardo Mattarella e Giacomo Geloso Cusimano. L'incontro tra noi due e i due mandanti avvenne in contrada Carini dove Giuliano chiese che le promesse fatte il 18 aprile venissero mantenute. I due tornavano da Roma e ci hanno fatto sapere che l'onorevole Scelba non era d'accordo con loro, che egli non voleva avere contatti con i banditi...".
Si aprì così un capitolo infinito che al sodo non solo portò a dure smentite degli interessati, ma anche a una carrellata di atti ufficiali: per esempio, già al processo Viterbo, i presunti rapporti tra Mattarella e Scelba con Giuliano, di cui parlava Pisciotta, non trovarono nè conferma dagli altri protagonisti della banda, nè riscontri. Cosicchè negli anni diventarono solo echi senza prove, magari per far riflettere e studiare il clima infuocato e controverso di quei primi dieci anni di dopoguerra siciliano, ma di assoluta inutilità processuale e dibattimentale. Al di fuori poi del processo di Viterbo, i restanti nomi di Gianfranco Alliata di Monreale, Leone Marchesano e Giacomo Geloso Marchesano, come presunti implicati nella strage, riapparvero nel 1969 tra le carte di un uomo politico della Sinistra indipendente che aveva militato nel Partito d'Azione e che raccontava quanto nel 1951 gli avrebbe confidato un deputato monarchico. Apriti cielo! Riesplose uno scenario di querele e di controquerele che ci porterebbe davvero lontano raccontare nei dettagli e che oltretutto ufficialmente e processualmente ancora una volta non avrebbe chiarito nulla visto che il tribunale di Palermo archiviò quanto riguardava questa coda della vicenda, scoppiata a 18 anni di distanza dalla strage. Fu così che da quel momento su Portella della Ginestra cadde il silenzio totale, senza che si conoscessero mai i mandanti: la partita praticamente si era chiusa portando davanti alla giustizia e condannando una parte dei superstiti della banda, alcuni dei quali quel Primo Maggio per giunta a Portella neppure c'erano. Se poi vogliamo fare i conti con il resto della storia di quegli anni la stessa capitolazione della banda, la fine di Turiddu Giuliano e l'avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta restarono capitoli in penombra, mai del tutto ricostruiti nei loro veri retroscena.
L'uomo che aveva l'ordine di prendere Giuliano, era nativo di Feltre, provincia di Belluno. Proveniva dalla gavetta, con grossa esperienza militare in Asia minore e nella guerra in Spagna. Per il colonnello dei carabinieri Ugo Luca, il nome di Salvatore Giuliano significava solo un bandito da consegnare alla giustizia, a qualsiasi costo, anche morto. Stabilì il comando generale del Corpo Repressione Banditismo a Palermo, contando su 1500 uomini, tra cui 800 guardie di Pubblica Sicurezza, 5 raggruppamenti, 3 capisaldi territoriali a Corleone, Montelepre ed Alcamo. E scelse subito una strettissima cerchia di collaboratori: l'ufficiale Giacinto Paolantonio, i marescialli Giovanni Lo Bianco e Giuseppe Calandra che su Turiddu e i suoi uomini sapevano vita e miracoli, ma soprattutto il capitano Antonio Perenze. Esperto di banditi, lunghe permanenze anche in Etiopia e in Libia.
Il compito si presentò subito difficile: insieme a Giuliano c'erano sempre in latitanza gaglioffi terribili, determinati e potenti come Gaspare Pisciotta, Giuseppe Cucinella, Salvatore Pecoraro, Rosario Candela, Frank Mannino, Nunzio Badalamenti e Castrense Madonia. E al colonnello Luca fu subito chiaro che sarebbe stato possibile mettere le mani su Turiddu e i suoi solo se la mafia avesse deciso definitivamente di mollarli.
A contattare i boss ci pensò il maresciallo Lo Bianco, incominciando ad avvicinare sulle pendici del Montepellegrino don Nitto Minasola, il quale precisò subito che non avrebbe mosso un dito finchè non fosse arrivato un placet superiore. Ma il primo disco verde delle cosche si concretizzò nel facilitare la cattura di due picciotti. Allora il maresciallo Lo Bianco si impuntò: "A noi interessa innanzitutto Turiddu". E l'altro rispose: "Accontentatevi. Chissà. Magari da cosa nasce cosa". Che si fosse aperto uno spiraglio definitivo il sottufficiale lo capì quando, spalleggiato da 3 carabinieri, riuscì a mettere le manette ai polsi di Frank Mannino, detto Ciccio Lampo, inviato a un appuntamento che s'era rivelato una trappola. Ma Lo Bianco voleva altre prede. "D'accordo - disse Minasola- adesso gliene do due in una volta. Ma è necessario che andiamo a prenderli in campagna".
Andarono a bordo di un camion dell'Esercito verniciato di rosso, su cui venne applicata la targa della provincia di Messina. A un certo punto il camion si fermò. Da una siepe sbucarono don Nitto Minasola. Subito dopo Castrenze Madonia e Nunzio Badalamenti. Il maresciallo finse di essere un inviato di Giuliano: "Sbrigatevi. Abbiamo da fare molta strada". Aprì lo sportello posteriore del cassone e fece entrare i due in ampi cesti di vimini. Il camion ripartì e naturalmente "approdò" presso la caserma dei carabinieri di Palermo. Cosicchè altri due uomini di primo piano vennero sottratti all'operatività della banda Giuliano. La strategia ormai era chiara: continuare a fare il vuoto intorno a Turiddu, senza neppure informare la magistratura, in attesa della mossa finale e del sì della mafia. Ecco perchè lo scatentato maresciallo Lo Bianco non si mostrava pago. Riagganciò don Nitto Minasola per farsi consegnare Salvatore Pecoraro ma durante il viaggio il bandito fiutò il tranello, cercò di fuggire sparando una sventagliata di mitra che infranse il parabrezza, ma in risposta ricevette alcune pistolettate che, uccidendolo, imbrattarono di sangue gli altri occupanti dell'auto. Allora il maresciallo Lo Bianco, pressato dallo stesso colonnello Luca e dai suoi collaboratori Paolantonio e Perenze, mostrò di non accontentarsi più. Disse chiaro e tondo che voleva Giuliano, ma di Giuliano non vedeva traccia. Fu qui che a Paolontonio, profondo conoscitore del territorio e delle cosche, venne un'ideuzza mica male: fare in modo che a Turiddu venisse in mente di estorcere del denaro a un possidente, titolare del feudo "Dicisa" di Corleone, il quale però non avrebbe dovuto pagare, ma aspettare. Risultato: Giuliano si arrabbiò, considerò il comportamento del possidente un'offesa personale, però decise di non esporsi di persona, ma mandò un messaggio attraverso un mafiosetto di Castelvetrano il quale, arrivando nella masseria del feudo, venne immediatamente arrestato e interrogato sul posto dal colonnello Luca. E venne rilasciato solo quando si impegnò che entro tre giorni avrebbe dato informazioni giuste per la cattura di Giuliano.
Intanto Turiddu era furibondo. Si chiedeva dove fossero spariti Frank Mannino, Castrense Madonia, Nunzio Badalamenti e Salvatore Pecoraro. Lo inquietava il fatto che un possidente per la prima volta si fosse rifiutato di pagare. Ciò voleva dire che il suo potere scricchiolava. C'era lo zampino della mafia? Ebbe allora una pensata: "Chiediamo spiegazioni a don Nitto Minasola". Cosicchè, seguito da Gaspare Pisciotta e da altri, andò a bussare alla sua porta. "Scendi subito, siamo carabinieri", mentì una voce. Don Nitto abboccò e Giuliano se lo portò via.
Minasola giurò e spergiurò che non aveva alcuna colpa; che insomma, era stato costretto a consegnare Mannino, Madonia, e Badalementi, dietro ordine di gente che stava sopra di lui, per esempio don Ignazio e Nino Miceli delle cosche di Monreale; che c'era di mezzo un terzo che rispondeva al nome di Dimenico Albano. Giuliano urlò di rabbia, poi si rivolse al cugino-luogotenente Gaspare Pisciotta: "Tienilo d'occhio tu. Io vado a Monreale e sotto gli occhi di tutti, affinchè vedano e imparino, fuciliamo quei tre".
Come poteva sapere che questa decisione si sarebbe rivelata decisiva nel perderlo? Infatti Pisciotta restò solo con Minasola, sapendo benissimo che al primo movimento sospetto avrebbe solo dovuto ammazzarlo, impiccandolo a un albero. Ma il mafioso sfoggiò allora tutta la sua abilità di gran volpone. Riuscì a convincere Pisciotta che ormai la causa era persa; che sul suo capo pendevano ben 38 mandati di cattura; che però avrebbe potuto salvarsi, se solo avesse avuto un po' di coraggio... Alla fine fu lo stesso Pisciotta a proporgli: "D'accordo, fammi incontrare con questo maresciallo Lo Bianco".
Il sottufficiale si presentò al colloquio indossando pantaloni di velluto e stivali, armato di pistola. Disse: "Tu ci dai Giuliano, vai all'estero con la taglia da 50 milioni, potrai vivere come un signore". Si sentì rispondere: "No, all'estero mi uccidono. Voglio restare qui. E la Sicilia dovrà essermene grata perchè l'ho liberata da un sanguinario. Fammi parlare con il colonnello Luca". Pur fiutando la possibilità di un agguato, il comandante del Corpo Forse Repressione Banditismo non aspettava che questo! L'appuntamento con Pisciotta avvenne in una fattoria alla periferia di Monreale. Impossibile ricostruire il colloquio poichè non ci furono testimoni. Sta di fatto che già al secondo incontro Pisciotta si trovò tra le mani un lasciapassare, "fabbricato" da un collaboratore del colonnello il quale, dopo aver preso un foglio di carta intestata del ministero degli Interni, si rivolse a una tipografia di Palermo, ci fece stampare un attestato, poi andò da un artigiano, si fece fare un timbro rotondo con la scritta "Ministero degli Interni", infine fece falsificare la firma del ministro Mario Scelba. Risultato: con un documento irregolare Pisciotta diventò "benemerito" per grossi servizi resi allo Stato e avrebbe potuto circolare liberamente. Da questo momento il colonnello Luca potè gestire il confidente a suo piacere. Sicuro di portare a termine "l'operazione Giuliano", diramò un ordine secco: "Fermate qualsiasi operazione contro il banditismo". E una sera dei primi di luglio di quel 1950 annunciò: "A Giuliano restano 36 ore di libertà".
Tra le 23,30 e le 24,00 del 4 luglio 1950, in piazza Matteotti a Castelvetrano, si fermò una 1100 nera, con targa civile, dei carabinieri. Scendendo, Gaspare Pisciotta disse al milite in borghese Renzo Renzi: "Aspettami e non muoverti". Poi fece 250 metri e, seguendo un codice che lui ben conosceva, bussò alla casa De Maria. Trovò Giuliano ancora a tavola con qualche avanzo della cena, insieme all' "avvocaticchio" Gregorio De Maria, dottore in legge senza però mai esercitare la professione e la domestica, una ragazza di vent'anni.
Turiddu, contando a sua volta su più di un contatto riservato con qualche grosso esponente delle forze dell'ordine e avendo ricevuto segnalazioni precise, avrebbe subito investito il cugino di male parole: "So benissimo quello che stai facendo. Sei un voltagabbana e basta". Ma Pisciotta avrebbe fatto il candido, giurando: "Turiddu, ma che stai dicendo? Chi ti racconta queste cose ha un solo scopo: metterci l'uno contro l'altro". E probabilmente, se proprio non riuscì a tranquillizzarlo, riuscì a prendere tempo continuando a discutere della questione. Mentre l' "avvocaticchio" e la domestica se ne andarono a dormire, i due continuarono a parlare nella camera dove, accanto al lettino di Turiddu ne era stato preparato un secondo, come altre volte. Giuliano, più stanco del solito e molto depresso, si tolse la pistola dalla cintura e la pose sul comodino, a destra del letto, accanto a un fascio di biglietti da mille che portava in tasca. E si sdraiò in maglietta e pantaloni sulle lenzuola. Pisciotta se ne restò su una sedia, continuando la discussione, sino a tornare a litigare. All'improvviso Giuliano allungò la mano verso la pistola, ma Pisciotta fu più svelto, sparò due colpi di mitraglietta e uccise il "re di Montelepre".
Attenzione, poichè i morti non parlano, un giorno sarebbe stato questo il racconto del "sopravvissuto". Ma presumibilmente le cose andarono in un altro modo: mentre Giuliano sprofondava in un sonno profondo, Pisciotta restava sveglissimo, pur fingendo di dormire. Avendo la certezza che per lui la partita stava per chiudersi e che si trovava a un bivio (o prepararsi ad affrontare la punizione di Giuliano e del resto della banda o rispettare "i patti" con i carabinieri per diventare un "uomo libero"), aspettò solo il momento giusto per agire. Poi impugnò la sua mitraglietta e sparò con spietata determinazione: due colpi da meno di un metro di distanza, mirando alla testa. Forse però tremava. E i proiettili si conficcarono nella spalla, a destra, quanto però bastava per uccidere. Poi raccolse la sua roba, prese una cartelletta in cui Giuliano conservava la corrispondenza e nella ritirata si imbattè nel padrone di casa, svegliato dagli spari e intento a chiedere: "Ma si può sapere cos'è successo?". E Pisciotta: "Non è successo niente. Si tolga di mezzo".
E scese di corsa attraverso la scala interna, chiudendosi la porta alle spalle. "E' morto", annunciò al capitano Antonio Perenze che, all'esterno, attendeva notizie. Infine scappò verso la piazza Matteotti, dove il carabiniere Renzi era sempre in attesa sulla 1100 nera. Pisciotta salì, l'auto scomparve verso Palermo, il capitano Perenze bussò alla porta dell' "avvocaticchio". Quando gli venne aperto, sul letto Giuliano era già cadavere. Il capitano ordinò: "Lavate tutto. Non deve restare una macchia. E aiutateci a rivestirlo". Gli si infilò la cintura nei pantaloni, ma vennero saltati due passanti. Gli si infilarono i calzini. Gli si misero si sandali, dimenticando di allacciarne uno. Poi si provvide a trasportare il cadavere nel cortile: il capitano Perenze si fece aiutare dai carabinieri Giuffrida e Catalano. Ma il trasporto non fu facile: Turiddu pesava oltre 95 chili. Poichè la scala era stretta, il cadavere urtò un paio di volte contro il muro. Finalmente in cortile venne apparecchiata la messinscena. E il corpo senza vita apparirà come nelle foto che gireranno il mondo e passeranno alla storia: petto in giù, gamba sinistra dritta, gamba destra ripiegata, braccio destro ben teso con le dita della mano unite e il palmo aperto; braccio sinistro curvato sotto, tra il petto e la nuda terra del cortile. La canottiera era rossa di sangue: le due ferite provocate dai proiettili erano però al di sotto della macchia. E nel trambusto nessuno s'accorse che il sangue è portato a colare giù, non su. Infine, messo a posto il corpo, vennero sparate alcune raffiche di mitra. Perenze e i due carabinieri usarono i loro mitra, ma anche quello di Giuliano, in modo da far credere che c'era stato un conflitto a fuoco. Poi anche il mitra e la pistola di Giuliano vennero sistemati accanto al cadavere: uno a circa un metro e venti dalla mano destra, con il caricatore girato verso il corpo e la canna verso i piedi, l'altra a meno di un palmo dalla testa. Infine Parenze informò via radio il colonnello Luca che, partito da Palermo, si era fermato a Camporeale e che dunque si mise frettolosamente in viaggio verso Castelvetrano. Alle 5,40 riuscì a dettare il primo fonogramma al Ministero dell'Interno: "Da Castelvetrano colonnello Luca segnala che ore 3,30, dopo inseguimento centro abitato et conflitto sostenuto da pattuglia CFRB rimaneva ucciso bandito Salvatore Giuliano Punto Nessuna perdita parte nostra Punto Cadavere piantonato disposizione autorità giudiziaria Punto Riserva particolari".
Alle 10 esatte del 5 luglio due carabinieri bussarono a Montelepre alla casa di Maria Lombardo Giuliano: "Signora, suo figlio è morto". Lei rispose: "Non ci credo. E' un tranello": Ma quelli insistettero: "Venga con noi. Deve riconoscerlo". Allora Maria Lombardo, seguita dalla figlia Giuseppina, dal marito di questa Francesco Gaglio e da un nipotino di 7 anni, tutti vestiti a lutto, salirono sull'auto dei carabinieri. E raggiunsero il cimitero di Castelvetrano.
Il cadavere era al centro dell'obitorio, su un tavolo di marmo, con due blocchi di ghiaccio ai lati. Sotto la nuca, un troncone di albero d'ulivo. Maria Lombardo Giuliano si avvicinò al tavolo. E svenne. Le praticarono un'iniezione, Quando si riprese, disse: "Sì, quello è mio figlio che mi è nato 28 anni fa". E abbracciò il cadavere. Figlia e genero fecero altrettanto. Intanto Maria Lombardo urlava: "L'hanno tradito. L'hanno tradito". Svenne una seconda volta. E tornò a riprendersi per gridare ancora: "Sangue mio, sangue mio! Ti hanno tradito, ti hanno assassinato". Infine si buttò a terra e con il viso, con la bocca, sembrò percorrere la scia di sangue che il figlio aveva lasciato durante il tragitto all'obitorio. Poi se andò accompagnata dai parenti. All'esterno risuonarono alcuni colpi sordi: era il martello che frantumava il cranio in punto preciso per estrarre il cervello da inviare al laboratorio centrale di criminologia. Quattro giorni dopo la cassa venne caricata sul tetto di un'auto grigia che da Castelvetrano partì alla volta di Montelepre. Due persone anche sui predellini per tenerla ben ferma nell'eventualità di scossoni. Alla fine del viaggio la cassa superò il cancello del cimitero di Montelepre su cui sta scritto: "Fummo come voi, sarete come noi". E momentaneamente venne sistemata in una colombaia, ma dalla colombaia sarebbe passata in una vera tomba, dove anche mamma Maria, con suoi segreti, avrebbe raggiunto il suo Turiddu il 20 gennaio 1971. E intanto agli atti, datato 9 luglio 1950, restava come primo vero rapporto quello dei carabinieri: ribadiva la versione del conflitto a fuoco.
"Fu accertato - diceva il rapporto dei carabinieri - che il mitra del bandito Giuliano si era inceppato dopo il dodicesimo colpo (caricatore da 40) forse per la soverchia compressione della molla rimasta per lungo tempo inoperosa. In via Mannone fu rinvenuto un altro caricatore vuoto sparato dal bandito, anche questo di 40 colpi. Complessivamente da noi furono esplosi 191 colpi :carabiniere Renzi, 60; carabiniere Giuffrida, 42; carabiniere Catalano, 56; capitano Perenze, 33".
Che "verità"! Che "dettagli"! Il 16 luglio 1950 però, un magistrale articolo di Tommaso Besozzi sull'Europeo ribaltò la versione ufficiale, rivelò che i mitra avevano praticamente ucciso un uomo già morto. L'inchiesta di Besozzi mise in risalto una serie di particolari: già alle 22 del 4 luglio, i carabinieri erano ben nascosti e mimetizzati sui tetti; a mezzanotte i garzoni di un fornaio vicino alla casa dove si nascondeva Giuliano, intenti a sottrarsi alla calura estiva cercando qualche pausa di refrigerio sulla porta, erano stati invitati a chiudersi in bottega. Quelli ovviamente se n'erano rimasti a spiare: probabilmente da un buco della serratura o comunque da una fessura avevano anche visto uscire dalla casa De Maria un uomo scalzo (Gaspare Pisciotta), il quale aveva raggiunto un'automobile che si era allontanata a tutto gas. Una vecchia ricordava che prima delle raffiche c'erano stati due colpi sordi, come di rivoltella: e non poteva aver udito male, perché era estate e si dormiva con le finestre aperte.
Come se ciò non bastasse, l'esame del cadavere dava altri particolari sconcertanti. Un lago di sangue nel cortile? Macché: c'era poco sangue, al punto che gli operatori cinematografici, per camuffare l'esistenza di una grossa chiazza, avevano buttato per terra qualche secchio d'acqua. E le ferite? Eccole, eguali, come se provocate in seguito a colpi sparati a bruciapelo. Su un braccio, ecco una serie di graffiature o di abrasioni, come in un cadavere trascinato o tirato. Al polso, neppure l'orologio. E poi il volto sembrava di un ucciso nel sonno, altro che nella rabbia e nella foga di un conflitto!
Uno scoop giornalistico quello di Besozzi che passerà alle antologie. Sul numero successivo dell'Europeo un altro cronista di razza, Nicola Adelfi, parlò di "Giuliano tradito ed ucciso nel sonno da Gaspare Pisciotta". Dopo la morte di Turiddu il Corpo Forze di Repressione Banditismo venne sciolto, eppure sarebbe stato bene partire proprio da Giuliano per inchiodare pure fiancheggiatori e protettori del passato. O forse era meglio per tutti chiudere quegli anni insanguinati per non andare a scovare scheletri negli armadi anche di insospettabili?
Il 9 novembre 1950 Maria Lombardo Giuliano denunciò Pisciotta ai carabinieri di averle assassinato il figlio. Il 24 aprile 1951 l' "avvocaticchio" De Maria confermò in pratica la versione di Besozzi e di Adelfi, poi sposò la sua domestica e insieme a lei disse addio alla Sicilia, emigrando in Virginia. Eppure i carabinieri per un po' difesero ancora la loro tesi. Iniziò così un procedimento che coinvolse il capitano Perenze e i carabinieri Renzi, Giuffrida e Catalano, ma su altri versanti non escluse l'ex ispettore di Pubblica Sicurezza Ciro Verdiani, sospettato di favoreggiamento: più volte aveva incontrato Giuliano, scritto lettere, consigliato di guardarsi da Pisciotta che lo tradiva, gestito contatti ponendosi a volte "al di sopra, o meglio al di fuori, di quella che è la volontà dello Stato". Sicuramente Verdiani non era d'accordo con i metodi del colonnello Luca e immaginava di far calare il sipario sull'operatività del "re di Montelepre" in modo diverso. Forse con promesse, tipo l'espatrio, si illudeva che Turiddu potesse diventare collaboratore della polizia, facilitando grandi retate.
Il 14 marzo 1952 il decesso a Roma di Verdiani fece in modo che il suo ruolo in quegli anni piano piano si dissolvesse sotto i riflettori. Il 16 marzo 1954 il capitano Perenze e i tre carabinieri tornarono davanti ai giudici, ma stavolta cambiarono la vecchia versione. Ed entro il 20 settembre, in circostanze varie, vennero assolti. In sede disciplinare ci fu un piccolo stralcio per il colonnello Luca diventato intanto generale. In un rapporto al Ministro della Difesa-Esercito del 20 dicembre 1954, i generali di Corpo d'Armata Biglino, Carmineo e Pizzorno dichiararono che "non erano state violate le leggi dell'onore militare", aggiunsero di non "avere nulla da eccepire sulla condotta del generale Luca" e testualmente conclusero: "La commissione ha voluto riandare per un'ampia visione del fenomeno alla storia del brigantaggio che afflisse l'Italia per tanto tempo dopo il 1860. Ed ha trovato in essa predecessori e al Giuliano e al Pisciotta e situazioni se non eguali certo analoghe. In quel lontano passato, ingenti furono le forze preposte alla repressione, forze che assommavano a circa 90 mila uomini, gravissime le perdite tra esse, eccezionali le misure assunte dal governo, numerose le ricompense, tra le quali parecchie medaglie d'oro. Equilibrati i termini di confronto, non si può non concludere con un giudizio a favore del CFRB che, senza misure d'eccezione, con forze ridotte, senza perdite, venne a capo di una situazione che aveva dato in precedenza filo da torcere ed aveva provocato 120 morti tra i tutori dell'ordine. Perdite che il generale Luca con saggia, accorta condotta, riuscì ad evitare".
Insomma, secondo i tre alti ufficiali, la linea di comportamento era stata consigliata dalla situazione. E poi in certi momenti, come quello relativo alla cattura di Giuliano, "il modo" dell'azione aveva ben poco rilievo rispetto al "risultato" stesso dell'azione. Il generale Luca diventò vicecomandante dell'Arma dei carabinieri: già in pensione, morì d'infarto alle 21 del 4 luglio 1967, esattamente nel diciassettesimo anniversario di quella sera in cui aveva lasciato Palermo per dirigersi verso Camporeale, restando in attesa di notizie su Giuliano per poi precipitarsi a Castelvetrano. Ma che ne fu degli altri "attori" che, con ruoli diversi, avevano animato l'epilogo della vicenda?
L'ufficiale Paolantonio, lasciato praticamente in disparte da Luca nella fase finale dell' "operazione Giuliano", dopo la notte di Castelvetrano abbandonò l'Arma dei carabinieri per diventare comandante del Corpo dei Vigili Urbani di Palermo. E il maresciallo Lo Bianco, il leggendario "don Peppino", vero castigamatti dei banditi, il cui ruolo si rivelò risolutore per la capitolazione della banda Giuliano? Dopo Castelvetrano, rimase nell'Arma ancora dieci anni. Pare che ad amici e interlocutori continuasse a esternare per diverso tempo una specie di cruccio: "Poteva prenderlo vivo".
E che accadde invece agli altri "attori" sul fronte di Giuliano? Don Nitto Minasola, che si era eretto a trait d'union tra mafia e carabinieri per la cattura dei latitanti, dopo la fine di Turiddu era letteralmente terrorizzato, temendo che potesse succedergli qualcosa. Spesso andò a trovare il generale Luca a Roma, chiedendo che gli venisse permesso di lasciare la Sicilia e dicendo che gli sarebbe bastato qualche pezzo di terra da coltivare nel Nord Italia. Si aspettava quasi un premio alla sua collaborazione. E faceva bene ad aver paura:alle 13,50 del 21 settembre 1960, esattamente dieci anni e 76 giorni dopo l'episodio di Castelvetrano, due killer attesero don Nitto in aperta campagna e lo seguirono sino in paese, senza farsi accorgere. Poi spararono, fulminandolo sulla strada principale di San Cipirrello. In quanto a Gaspare Pisciotta, il luogotenente-cugino che uccise il "re di Montelepre per godersi premi e benemerenze, diventò protagonista di un altro capitolo che non cessò di infittire la ragnatela dei "misteri d'Italia"
Il colonnello Luca e il capitano Perenze, che dopo la morte di Turiddu venne subito promosso maggiore per i meriti conseguiti "nel conflitto a fuoco contro Giuliano", erano sicuri che negli ultimi tempi il bandito avesse scritto un memoriale, il terzo, ma il più importante perché conclusivo. Perciò il 7 luglio 1950, solo tre giorni dopo, Perenze chiese a Pisciotta: "Gasparino, ce lo dai quel documento?". Pisciotta, se ben ricordate, allontanandosi da casa De Maria, s'era portato la busta di pelle in cui il cugino teneva la corrispondenza. All'interno però Luca e Perenze avevano trovato solo alcune lettere di noti separatisti. E il memoriale? "Mi dispiace - disse Gaspare - ma io non so niente". Pregò però Perenze di riferire a Luca, diventato intanto generale, che si impegnava "a farglielo avere".
Il fatto che il memoriale non si trovasse, sicuramente aveva fatto piombare molta gente nel terrore di ricatti. Cosicché a cercarlo non erano solo i carabinieri per completare l'operazione, ma anche qualcuno che, su mandato altrui, prospettò allo stesso Pisciotta danaro, un passaporto, una bella vita in Sudamerica, "così noi qui ce ne stiamo tutti in pace". Pisciotta si convinse che la sua salvezza stesse nel tenere tutti sulla corda, facendo capire che se il memoriale non l'aveva, sapeva però dove mettere le mani al momento opportuno. Infatti pensava che l' "avvocaticchio" De Maria avesse messo da parte il documento che Giuliano aveva scritto con la sua stilografica verde. Perciò disse al maggiore Perenze: "Va tutto bene. Il 15 luglio alle 10 De Maria l'aspetta al quinto chilometro della strada per Mazara del Vallo". Immaginarsi l'ufficiale. All'ora stabilita fu puntuale e chiese al l' "avvocaticchio": "Allora, vuol darmi il memoriale?". Quello fece una smorfia, schioccò la lingua tra i denti come per dire no. E poiché Perenze si mostrò irritato, giurò: "Tutto bruciai. E lo feci per paura di essere arrestato. Quando lei lasciò la casa, presi tutte le carte, ne feci un fascio e vi diedi fuoco". E pronunciò queste parole in un modo tale da convincere persino quel furbone del maggiore Perenze che davvero non mentiva. Ergo, se il memoriale era stato bruciato, non c'era nulla da fare. Anzi, vicenda conclusa, se non ci fosse stata da sistemare la questione Pisciotta che viveva a Monreale in casa della fidanzata e che il generale Luca andava spesso a trovare nonostante dovesse essere consegnato alla magistratura, la quale lo stava giudicando in contumacia. E poiché c'era la madre di Turiddu che parlava di Pisciotta come di un "Giuda", per sottrarlo ad eventuali vendette Luca e Perenze credettero bene di portarselo a Palermo, anzi il maggiore lo ospitò a casa sua. Così Gasparino, detto anche "Aspanu", fece la bella vita, frequentando cinema, ristoranti, negozi, a volte in borghese, a volte in divisa da ufficiale dei carabinieri, sempre insieme al maggiore o a militi fidati. E poiché sputava sangue, venne visitato da un noto tisiologo e affrontò tutti gli esami clinici, regolarmente pagati dall'Arma. A un certo punto però anche a Palermo la presenza di Pisciotta diventò imbarazzante e pericolosa, sia per l'eventualità ancora di vendette, sia perché a capo della Ps palermitana c'era quel Carmelo Marzano che conosceva i metodi dell'Arma per esserne stato sottotenente e che ben ricordava il volto di Pisciotta: tempo prima l'allora colonnello Luca gli aveva fatto firmare un lasciapassare, spacciandolo come un informatore qualunque. Perciò Luca e Perenze decisero di portare nottetempo Gaspare da sua madre Rosalia, a Montelepre.
Qui Aspanu si costruì subito un palchetto a doppio fondo sotto il tetto dove andarsi a nascondere nel caso in cui ci fossero state visite. I suoi rapporti con i carabinieri continuarono per lettera attraverso staffetta o mediante qualche visita di Perenze. Poi Luca partì per Roma e Perenze non solo non andò più a Montelepre, ma lo invitò a non imbucare le lettere "perché alla posta potrebbero aprirle e leggerle". Fu così che per cinque mesi Pisciotta restò rintanato in casa della mamma.
Una mattina di dicembre piombarono cinquanta agenti di polizia che circondarono l'abitazione e la perquisirono da cima e fondo, però senza risultati. Allora un sottufficiale disse alla madre e alla sorella: "Noi non ce ne andremo. Resteremo un giorno, un mese, una settimana, il tempo che occorre". Un'ora dopo si sentì un colpo di tosse: era Aspanu che, minato dalla tisi e terrorizzato, emergeva dal palchetto con il fondo dei pantaloni imbrattati. Gli diedero il tempo di cambiarsi e se lo portarono via. Successivamente la versione che di quella cattura avrebbe fornito l'interessato, sarebbe stata diversa: disse d'essere stanco (si era reso conto che i carabinieri l'avevano abbandonato) e d'aver telefonato al questore di Palermo: "O mi mettete dentro o comincio a raccontare in piazza a Montelepre, quello che è successo a Giuliano". E aggiunse d'aver aspettato due giorni, facendosi trovare vestito di blu con la camicia di seta e la cravatta argentata. Bluff? Vanagloria? Di certo, Carmelo Marzano, per far notare la differenze di stile tra Arma e Ps, disse in conferenza stampa: "Io i banditi li prendo vivi, non morti". Così anche Gaspare Pisciotta finì la sua latitanza e venne consegnato ai magistrati.
Una cinquantina di processi riguardanti i componenti della banda Giuliano si estinsero in istruttoria per la morte dei protagonisti. Il maxi processo di Viterbo, iniziato il 2 giugno 1950, interrotto il 5 luglio alla notizia dell'uccisione di Turiddu e ripreso il 5 aprile 1951, togliendoci cinque morti (il capoband
Salvatore Giuliano nella sua Montelepre, 343 sul livello del mare, in vetta a un colle che domina la valle del Nocella nella Sicilia nord-occidentale, sembrava destinato alla vita anonima di tanti giovanotti che cercavano di leccarsi le ferite della guerra. "Fin quasi alla fine del 1943 - parole dell'Antimafia - si era mantenuto fedele alle tradizioni della casa dove era nato e del luogo dove aveva operato e non aveva dato alcuna possibilità di far parlare di sè. L'occasione propizia per un radicale cambiamento di rotta, gli si presentò il 2 settembre 1943. Quel giorno, a Quarto Mulino di San Giuseppe Jato, mentre trasportava con un mulo un carico di grano non a posto con le norme annonarie, si imbatté in una pattuglia di carabinieri e di guardie campestri. Alle contestazioni mossegli dai tutori dell'ordine, Giuliano passò subito per le vie più spicce: esplose vari colpi di rivoltella uccidendo il carabiniere Antonio Mancino che insieme all'appuntato Renzo Rocchi e alle guardie campestri Vincenzo Manciaracina e Giuseppe Barone, formava il posto di blocco...".
Questo linguaggio burocratico, sostanzialmente esatto nell'epilogo, trascurava qualche tocco di sceneggiatura: mentre l'appuntato Rocchi e le due guardie campestri andavano a bloccare un altro "borsanerista", Giuliano si trovò puntato addosso il fucile del carabiniere Mancino. Chissà in quel minuto cosa dev'essergli passato per la testa. Deve essersi detto: "O adesso, o mai più". E scattò fulmineo con un spintone, forse un calcio, fatto sta che il carabiniere avvertì al viso l'impatto violento della canna del suo stesso fucile. Poi Giuliano puntò verso il boschetto e quando echeggiò uno sparo, avvertì immediata una vampata al fianco sinistro: era stato ferito. Ebbe la forza di trascinarsi dietro un masso. Forse pensò che, se doveva morire, almeno avrebbe venduto a caro prezzo la pelle.Quando si dice il destino! Senza quel pensiero la Sicilia avrebbe avuto un bandito e una banda in meno e soprattutto tanti lutti, incubi, scandali, tormentoni e anche misteri in meno. Giuliano portò la mano alla calza dove celava la pistola, si alzò e prese la mira: il carabiniere Mancino, centrato al cuore, si accasciò senza un lamento. Lo sparatore si acquattò. E poi, strisciando lentamente, riuscì a dirigersi verso la parte opposta del boschetto, sino a un sentiero tra i campi. Passava un carretto. E il contadino che ci stava sopra non ebbe bisogno di parole per capire. Nascose il ferito tra balle di fieno, se lo portò a Borghetto, chiamò un medico che lavò la ferita e la disinfettò. "Siate gentili. Avvertite mia madre", disse appena Giuliano. Poi sprofondò in un sonno profondo, con una febbre che lo accompagnò per cinque giorni.
Quando si rimise in forze era ormai "Turiddu di Montelepre", classe 1922 del 20 novembre, figlio di Maria Lombardo e di Salvatore Giuliano, in un'epoca in cui al maschio di famiglia molto spesso veniva dato il nome del padre. Salvatore Giuliano senior era stato emigrante a Brooklyn; aveva abitato nella settantacinquesima strad; aveva fatto ciò che gli era capitato: il carrettiere, il muratore, il lattoniere, il fruttivendolo. E la famiglia si era subito ingrandita: per prima nel 1909 era arrivata Giuseppina. Poi nel 1913, ecco il primo maschio che, tanto per non cambiare, era stato chiamato Giuseppe. E nel 1920 era nata Mariannina. Per i Giuliano però, stretti in quel piccolo appartamento di Brooklyn e dilaniati dalla nostalgia di Montelepre, era scattata anche l'ora del "tutti a casa". Appena mamma Maria aveva avvertito che una nuova vita era tornata ad agitarsi nel suo grembo, aveva deciso: "Voglio che questa mia creatura nasca a Montelepre". E così era stato. Turiddu, l'ultimogento, era subito diventato il beniamino di tutti, coccolatissimo da mamma Maria, legatissimo a Mariannina da un affetto viscerale. Cosicché in quei giorni del 1943 la sua decisione di non costituirsi alla legge e di diventare bandito non trovò intorno a sè opposizioni, ma protezioni, innanzitutto all'interno della famiglia.
La costituzione della banda Giuliano; le sue tragiche imprese; l'accorrere sotto le insegne del "re di Montelepre" di giovanotti da ogni angolo della Sicilia; l'exploit di un mito intorno alla sua imprendibilità; la sua fede nel separatismo che trasformava i banditi in "soldati" al suo comando e al servizio di una Trinacria indipendente; le intense macchinazioni della mafia che in collegamento con la politica prima lo lusingò, poi lo usò e strumentalizzò, infine lo abbandonò, hanno riempito archivi di Stato, sotterranei di municipi, persino raccolte di documentazioni vescovili e parrocchiali. In una bibliografia sterminata che in oltre cinquant'anni non ha smesso di animarsi di titoli, io stesso ci ho fatto un libro e nella mia enciclopedia in quattro volumi "Mafia, la vera storia della piovra dalle origini ai giorni nostri", alla banda Giuliano e ai suoi retroscena di intrighi e trame ho dedicato decine di pagine. Eppure, se è vero che sono tanti gli avvenimenti noti e definitivamente chiariti, è altrettanto vero che, quando non restano impenetrabili e del tutto avvolti nel porto delle nebbie, alcuni fatti si trascinano dietro ancora dubbi e interrogativi: da Portella della Ginestra alle vere protezioni di cui godette il bandito; dai radicati rapporti tra mafia e forze addette alla repressione del banditismo (con dispetti e persino concorrenza tra polizia e carabinieri negli "agganci" di confidenti e nella cattura dei latitanti) ai veri perché della messinscena intorno alla morte del bandito e all'avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta, suo cugino-luogotenente; persino alle infinite leggende sui molti amori di "Turiddu"
Il 20 aprile 1947 la Sicilia per la prima volta andò alle urne per eleggere l'assemblea Regionale. Il verdetto fu di 590.882 voti al Blocco del Popolo (social-comunisti), 329.182 alla Dc, 287.588 all'Uomo qualunque, 194.844 ai monarchici e appena 170.789 ai separatisti, conseguenza oltretutto della irrimediabile spaccatura verificatisi dal 30 gennaio al 3 febbraio nel corso del loro terzo congresso. La vittoria delle sinistre caricava di particolare significato la celebrazione del Primo Maggio che, interrotta durante il fascismo, da alcuni anni era tornata a rivestire il ruolo di appuntamento dell'anno a Portella della Ginestra, vallata percorsa dal fiume Jato e posta tra due alture di ginestre chiamate Pizzuta e Cumeta. Avrebbe dovuto tenere il comizio un politico di rango, quel Girolamo Li Causi, originario di Termini Imerese, avversario storico di boss e luogotenenti, che durante il fascismo aveva patito carcere e confino. Impegnato però in un'altra manifestazione, gli organizzatori avevano ripiegato sul giovane sindacalista Francesco Renda che, a sua volta trattenuto da un imprevisto, sarebbe stato sostituito dal calzolaio Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato. Ma in anni di riorganizzazione dei latifondi, profonde tensioni sociali, a quel raduno per la Festa del Lavoro già una settimana prima veniva data un'importanza senza precedenti, a prescindere dagli stessi oratori. E fu in quest'atmosfera d'attesa che maturò la strage.
Non era trascorsa una settimana dalla vittoria del Blocco del Popolo che Maria Lombardo Giuliano, madre di Turiddu, chiamò il genero Pasquale Sciortino, neomarito di Mariannina e lo incaricò di portare una lettera al figlio. Il tono della richiesta non ammetteva repliche. Sciortino raggiunse la fattoria dei fratelli Genovese. Turiddu si appartò, lesse ripetutamente in silenzio, bruciò la lettera con un fiammifero, poi disse: "E' venuta l'ora della nostra liberazione". Uno dei Genovese chiese: "Di quale liberazione parli?". E Giuliano: "Bisogna far un'azione contro i comunisti, bisogna andare a sparare il Primo maggio a Portella della Ginestra". Con questa frase e con quella lettera bruciata iniziava forse il più grosso giallo della vita di Turiddu: si incuneeranno versioni e controversioni, supposizioni e controsupposizioni. Pasquale Sciortino potrebbe aver avuto modo di leggere il messaggio, ma giurerà sempre di no. Maria Lombardo ammetterà invece di aver letto la lettera, ma non si allontanerà mai da questa versione: "Si trattava di amici in America, disposti a far espatriare mio figlio, mettendogli a disposizione persino un aereo". Un giallo insomma apparentemente senza soluzione. Eppure Portella della Ginestra fu la prima delle trame che incominiarono a intossicare la vita dell'Italia liberata. Poiché ufficialmente non si conosceranno mai i mandanti e solo una piccola parte degli esecutori finirà in galera, la strage resterà banco di prova, insomma primo test di una strategia che si ripeterà in altre occasioni: affacciare raffiche di ipotesi, sovrapporle alle deboli tracce dei riscontri testimoniali, per poi alla fine confonderle e neutralizzarle, facendone un polverone. Eppure preparazione ed epilogo, morti, feriti, panico, fuggi-fuggi, sin dall'inizio non erano scalfibili davanti alla Storia.
Salvatore Giuliano diramò un ordine: "Il 30 aprile troviamoci a Cippi", in alto, sopra il cimitero di Montelepre. E divise i presenti in due gruppi: il primo, al suo comando, avrebbe raggiunto la Pizzuta; il secondo, al comando di Antonino Terranova, sarebbe arrivato sulla Cumeta. Sino a un certo punto i due gruppi procedettero insieme, portandosi dietro una mitragliatrice Breda: avanti la squadra di Giuliano, dietro quella di Terranova. Ma questi non giunse mai sulla postazione indicata: si giustificherà di avere intravisto una pattuglia di carabinieri e di aver ripiegato per evitare un conflitto a fuoco che avrebbe mandato a monte l'operazione.
Era una notte di luna, faceva freddo. L'alba si preannunciò poi vicina tra il chicchirichì dei galli e l'abbaiare lontano dei cani delle fattorie. Alle 7 incominciarono ad arrivare per primi i contadini di Piana dei Greci, poi quelli di San Cipirrello, infine quelli di San Giuseppe Jato, chi a dorso di mulo, chi in bici o in moto, chi su grandi carretti addobbati a festa. E le mamme incominciarono a dare la colazione ai loro piccoli sdraiati sull'erba. Intorno alle 9,30 fu il silenzio mentre dal podio si alzava la voce di Giacomo Schirò, attorniato da altri dirigenti comunisti e socialisti locali. Fece in tempo a dire: "Cari compagni, in questa storica giornata...", che quasi in sordina giunse l'eco di un crepitio, poi di un rumore sordo, infine di una raffica. Credendo fossero mortaretti, una vecchietta batté le mani. Si riuscì a capire che gli spari provenivano dalla Pizzuta quando, accanto all'oratore, il sindacalista Vito Alliota venne colpito da un proiettile e cadde come un sasso.Ed ecco qualche mulo piegarsi sulle gambe, un ragazzino in agonia tra le braccia del padre, una mamma con i panni arrossati dal sangue...Allora fu il panico. Alcuni si buttarono a terra, come in tempo di guerra, fingendosi morti, altri se la diedero a gambe levate, dove capitava. Gli spari però sembrarono eterni, durarono otto, forse dieci minuti. Quando cessarono, a Portella della Ginestra, in quel primo maggio del 1947, non fu difficile contare 11 morti (2 bambini, 9 adulti) e 26 persone ferite "più o meno gravemente". Una strage, la prima di tante altre che da allora a oggi, per motivi diversi si verificheranno in Italia.
Quattro testimoni videro tutto o quasi. Erano cacciatori. Probabilmente alla vista della banda Giuliano avevano tentato di nascondersi, ma non c'erano riusciti. Erano perciò stati portati davanti a Turiddu che aveva chiesto: "Mi riconoscete?". Figurarsi però se quelli avevano risposto sì! Perciò erano stati ammanettati, bendati e fatti appiattire sul terreno: in questa posizione avevano udito il primo colpo di pistola, poi le raffiche di mitra. Ad azione conclusa erano stati slegati e invitati a scomparire con una raccomandazione: "Qualora qualcuno dovesse domandarvi chi ha sparato a Portella della Ginestra, rispondete che erano in cinquecento".
La notizia della strage giunse a Palermo come una mazzata. Il prefetto Vittorelli convocò subito un "vertice" di polizia. L'ispettore Ettore Messana inviò al ministro dell'Interno Mario Scelba questo fonogramma: "Confidenti sicuri, di cui non è possibile rivelare i nomi, avevano avvertito subito l'Ispettorato di Pubblica Sicurezza che l'autore del delitto era stato Giuliano e la sua banda. Non si può escludere - ma sinora non è stato possibile nulla raccogliere al riguardo - che l'idea di un'azione criminosa contro i partiti di sinistra sia stata ispirata e rafforzata specialmente da qualche elemento isolato in strette inconfessabili relazioni con il bandito Giuliano". E il maggiore Alfredo Angrisani del gruppo carabinieri di Palermo precisò nel suo rapporto "che azione terroristica devesi attribuire a elementi reazionari in combutta con la mafia". Ergo, prima scattasse la corsa a buttare acqua sul fuoco, sembrò chiaro che se i banditi erano stati gli esecutori, Portella della Ginestra aveva anche avuto dei mandanti. E nel rincorrersi delle voci si affacciarono tante verità, una così diversa dall'altra che ognuna escludeva la successiva, con il risultato finale che né indagini, né processi avrebbero sancito "una verità" definitiva.
"Per me la strage è stata compiuta da Giuliano", volle subito ribadire l'ispettore generale di PS Ettore Messana all'onorevole Girolamo Li Causi lo stesso pomeriggio di quel Primo Maggio 1947 in una riunione che si tenne a Palermo. Come facesse a esserne sicuro così in fretta meravigliò molti. E Messana: "Forse che quella non è una zona comandata da Giuliano?".
Per il 3 maggio i sindacati proclamarono uno sciopero generale. Alla vigilia si verificarono in Parlamento duri scontri. Il dc Bernardo Mattarella protestò contro "le manifestazioni che gettano ombra di turbamento nella vita politica siciliana". E il parlamentare comunista Girolamo Li Causi tuonò: "I nomi sono corsi sulla bocca di tutti. Noi li facciamo perchè li abbiamo fatti sulla stampa...". E parlò di boss e "famiglie" che, a suo dire, avrebbero pilotato e protetto l'azione di Giuliano, ma facendo chiaramente intendere che, aldisopra di tutti, c'erano stati mandanti tra i politici. Il ministro degli Interni Mario Scelba, forte dei telegrammi ricevuti dagli inquirenti palermitani, Messana in testa, affermò che non si trattava di strage politica "poichè nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sè la manifestazione e la sua organizzazione".
Più per quieto vivere che per reale convinzione una retata portò in galera 170 mafiosi, tra cui cinquanta vennero messi in libertà 15 giorni dopo, il resto prima dell'estate, quando si addebitò l'intera responsabilità alla banda Giuliano. Ci vollero dunque un paio di mesi per restringere le indagini al "re di Montelepre" e ai suoi uomini, ma da allora non basteranno decenni per sapere nomi e cognomi di coloro che presumibilmente li avevano armati. Nel 1949 il giornalista Jacopo Rizza, intervistando Giuliano nel suo inaccessibile rifugio da latitante, gli chiese: "Può farmi una dichiarazione su Portella della Ginestra? Chi ha sparato quel Primo Maggio di sangue sui comunisti?". Ma Turiddu tagliò corto: "Non ho nessuna dichiarazione da fare, almeno per il momento".
Nell'aprile del 1950, sempre dalla latitanza, il bandito inviò una lettera alla Corte d'Assise di Viterbo; parlò di "triste errore"; precisò che il piano era solo quello di "prelevare quelli che ritenevo responsabili e giustiziarli lì stesso leggendoci quale era la ragione della loro morte"; sottolineò d'aver provato dolore quando il giorno dopo seppe "e ci interrogammo a vicenda se qualcuno aveva osato sparare direttamente sulla massa...". Chiaro l'intento di Turiddu: da una parte accreditare la versione della fatalità e dell'incidente in modo da continuare a riproporsi agli occhi di molta gente come colui che spesso aveva tolto ai ricchi per dare ai poveri; dall'altra, visto che ormai era ostaggio della mafia e dei politici in rapporto con i boss, assicurarsi attraverso la sua omertà un corridoio di impunità o addirittura un salvacondotto per poter lasciare presto l'Italia. E questo comportamento il bandito lo mantenne in altri due memoriali. Ma poichè il processo di Viterbo alla fine risultò centrato su Portella della Ginestra, sparito dalla scena Giuliano (vedremo come e perchè) toccò al suo ex luogotenente, nonchè cugino Gaspare Pisciotta, sciogliersi la lingua, lanciare messaggi in codice, tentare ricatti, far balenare che un giorno o l'altro avrebbe vuotato il sacco. Era chiara la sua strategia: per lui e gli altri della banda, accusati di decine e decine di delitti, l'unica difesa possibile era alzare sempre più in alto il tiro pensando di poter ottenere considerazione e rispetto. Così non si seppe mai dove stesse il vero o il verosimile, la falsità o la mezza verità e soprattutto sino a che punto l'intera storia della banda Giuliano fosse stata scritta da Turiddu e dai suoi uomini o si fosse invece perpetuata anche tra strumentalizzazioni politiche, piani mafiosi, scenari di intrighi e lotte sotterranee tra gli stessi inquirenti.
"Banditi, mafia e carabinieri eravamo tutti una cosa come la Santissima Trinità: il padre, il figlio e lo spirito santo", urlò un giorno Pisciotta in un'udienza processuale. E in quanto alla strage, se ne uscì un altro giorno con questa frase: " Coloro che ci avevano fatto promesse di liberazione qualora avessimo fatto la strage si chiamano così: il deputato dc Bernardo Mattarella, il principe Gianfranco Alliata di Monreale, l'onorevole Leone Marchesano e il signor Scelba... ". Proseguì Pisciotta: "Furono Marchesano, il principe Alliata e l'onorevole Mattarella a ordinare la strage". Come faceva a saperlo? "Dopo le elezioni del 18 aprile- disse ancora Pisciotta -Giuliano mi mandò a chiamare e ci incontrammo con Bernardo Mattarella e Giacomo Geloso Cusimano. L'incontro tra noi due e i due mandanti avvenne in contrada Carini dove Giuliano chiese che le promesse fatte il 18 aprile venissero mantenute. I due tornavano da Roma e ci hanno fatto sapere che l'onorevole Scelba non era d'accordo con loro, che egli non voleva avere contatti con i banditi...".
Si aprì così un capitolo infinito che al sodo non solo portò a dure smentite degli interessati, ma anche a una carrellata di atti ufficiali: per esempio, già al processo Viterbo, i presunti rapporti tra Mattarella e Scelba con Giuliano, di cui parlava Pisciotta, non trovarono nè conferma dagli altri protagonisti della banda, nè riscontri. Cosicchè negli anni diventarono solo echi senza prove, magari per far riflettere e studiare il clima infuocato e controverso di quei primi dieci anni di dopoguerra siciliano, ma di assoluta inutilità processuale e dibattimentale. Al di fuori poi del processo di Viterbo, i restanti nomi di Gianfranco Alliata di Monreale, Leone Marchesano e Giacomo Geloso Marchesano, come presunti implicati nella strage, riapparvero nel 1969 tra le carte di un uomo politico della Sinistra indipendente che aveva militato nel Partito d'Azione e che raccontava quanto nel 1951 gli avrebbe confidato un deputato monarchico. Apriti cielo! Riesplose uno scenario di querele e di controquerele che ci porterebbe davvero lontano raccontare nei dettagli e che oltretutto ufficialmente e processualmente ancora una volta non avrebbe chiarito nulla visto che il tribunale di Palermo archiviò quanto riguardava questa coda della vicenda, scoppiata a 18 anni di distanza dalla strage. Fu così che da quel momento su Portella della Ginestra cadde il silenzio totale, senza che si conoscessero mai i mandanti: la partita praticamente si era chiusa portando davanti alla giustizia e condannando una parte dei superstiti della banda, alcuni dei quali quel Primo Maggio per giunta a Portella neppure c'erano. Se poi vogliamo fare i conti con il resto della storia di quegli anni la stessa capitolazione della banda, la fine di Turiddu Giuliano e l'avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta restarono capitoli in penombra, mai del tutto ricostruiti nei loro veri retroscena.
L'uomo che aveva l'ordine di prendere Giuliano, era nativo di Feltre, provincia di Belluno. Proveniva dalla gavetta, con grossa esperienza militare in Asia minore e nella guerra in Spagna. Per il colonnello dei carabinieri Ugo Luca, il nome di Salvatore Giuliano significava solo un bandito da consegnare alla giustizia, a qualsiasi costo, anche morto. Stabilì il comando generale del Corpo Repressione Banditismo a Palermo, contando su 1500 uomini, tra cui 800 guardie di Pubblica Sicurezza, 5 raggruppamenti, 3 capisaldi territoriali a Corleone, Montelepre ed Alcamo. E scelse subito una strettissima cerchia di collaboratori: l'ufficiale Giacinto Paolantonio, i marescialli Giovanni Lo Bianco e Giuseppe Calandra che su Turiddu e i suoi uomini sapevano vita e miracoli, ma soprattutto il capitano Antonio Perenze. Esperto di banditi, lunghe permanenze anche in Etiopia e in Libia.
Il compito si presentò subito difficile: insieme a Giuliano c'erano sempre in latitanza gaglioffi terribili, determinati e potenti come Gaspare Pisciotta, Giuseppe Cucinella, Salvatore Pecoraro, Rosario Candela, Frank Mannino, Nunzio Badalamenti e Castrense Madonia. E al colonnello Luca fu subito chiaro che sarebbe stato possibile mettere le mani su Turiddu e i suoi solo se la mafia avesse deciso definitivamente di mollarli.
A contattare i boss ci pensò il maresciallo Lo Bianco, incominciando ad avvicinare sulle pendici del Montepellegrino don Nitto Minasola, il quale precisò subito che non avrebbe mosso un dito finchè non fosse arrivato un placet superiore. Ma il primo disco verde delle cosche si concretizzò nel facilitare la cattura di due picciotti. Allora il maresciallo Lo Bianco si impuntò: "A noi interessa innanzitutto Turiddu". E l'altro rispose: "Accontentatevi. Chissà. Magari da cosa nasce cosa". Che si fosse aperto uno spiraglio definitivo il sottufficiale lo capì quando, spalleggiato da 3 carabinieri, riuscì a mettere le manette ai polsi di Frank Mannino, detto Ciccio Lampo, inviato a un appuntamento che s'era rivelato una trappola. Ma Lo Bianco voleva altre prede. "D'accordo - disse Minasola- adesso gliene do due in una volta. Ma è necessario che andiamo a prenderli in campagna".
Andarono a bordo di un camion dell'Esercito verniciato di rosso, su cui venne applicata la targa della provincia di Messina. A un certo punto il camion si fermò. Da una siepe sbucarono don Nitto Minasola. Subito dopo Castrenze Madonia e Nunzio Badalamenti. Il maresciallo finse di essere un inviato di Giuliano: "Sbrigatevi. Abbiamo da fare molta strada". Aprì lo sportello posteriore del cassone e fece entrare i due in ampi cesti di vimini. Il camion ripartì e naturalmente "approdò" presso la caserma dei carabinieri di Palermo. Cosicchè altri due uomini di primo piano vennero sottratti all'operatività della banda Giuliano. La strategia ormai era chiara: continuare a fare il vuoto intorno a Turiddu, senza neppure informare la magistratura, in attesa della mossa finale e del sì della mafia. Ecco perchè lo scatentato maresciallo Lo Bianco non si mostrava pago. Riagganciò don Nitto Minasola per farsi consegnare Salvatore Pecoraro ma durante il viaggio il bandito fiutò il tranello, cercò di fuggire sparando una sventagliata di mitra che infranse il parabrezza, ma in risposta ricevette alcune pistolettate che, uccidendolo, imbrattarono di sangue gli altri occupanti dell'auto. Allora il maresciallo Lo Bianco, pressato dallo stesso colonnello Luca e dai suoi collaboratori Paolantonio e Perenze, mostrò di non accontentarsi più. Disse chiaro e tondo che voleva Giuliano, ma di Giuliano non vedeva traccia. Fu qui che a Paolontonio, profondo conoscitore del territorio e delle cosche, venne un'ideuzza mica male: fare in modo che a Turiddu venisse in mente di estorcere del denaro a un possidente, titolare del feudo "Dicisa" di Corleone, il quale però non avrebbe dovuto pagare, ma aspettare. Risultato: Giuliano si arrabbiò, considerò il comportamento del possidente un'offesa personale, però decise di non esporsi di persona, ma mandò un messaggio attraverso un mafiosetto di Castelvetrano il quale, arrivando nella masseria del feudo, venne immediatamente arrestato e interrogato sul posto dal colonnello Luca. E venne rilasciato solo quando si impegnò che entro tre giorni avrebbe dato informazioni giuste per la cattura di Giuliano.
Intanto Turiddu era furibondo. Si chiedeva dove fossero spariti Frank Mannino, Castrense Madonia, Nunzio Badalamenti e Salvatore Pecoraro. Lo inquietava il fatto che un possidente per la prima volta si fosse rifiutato di pagare. Ciò voleva dire che il suo potere scricchiolava. C'era lo zampino della mafia? Ebbe allora una pensata: "Chiediamo spiegazioni a don Nitto Minasola". Cosicchè, seguito da Gaspare Pisciotta e da altri, andò a bussare alla sua porta. "Scendi subito, siamo carabinieri", mentì una voce. Don Nitto abboccò e Giuliano se lo portò via.
Minasola giurò e spergiurò che non aveva alcuna colpa; che insomma, era stato costretto a consegnare Mannino, Madonia, e Badalementi, dietro ordine di gente che stava sopra di lui, per esempio don Ignazio e Nino Miceli delle cosche di Monreale; che c'era di mezzo un terzo che rispondeva al nome di Dimenico Albano. Giuliano urlò di rabbia, poi si rivolse al cugino-luogotenente Gaspare Pisciotta: "Tienilo d'occhio tu. Io vado a Monreale e sotto gli occhi di tutti, affinchè vedano e imparino, fuciliamo quei tre".
Come poteva sapere che questa decisione si sarebbe rivelata decisiva nel perderlo? Infatti Pisciotta restò solo con Minasola, sapendo benissimo che al primo movimento sospetto avrebbe solo dovuto ammazzarlo, impiccandolo a un albero. Ma il mafioso sfoggiò allora tutta la sua abilità di gran volpone. Riuscì a convincere Pisciotta che ormai la causa era persa; che sul suo capo pendevano ben 38 mandati di cattura; che però avrebbe potuto salvarsi, se solo avesse avuto un po' di coraggio... Alla fine fu lo stesso Pisciotta a proporgli: "D'accordo, fammi incontrare con questo maresciallo Lo Bianco".
Il sottufficiale si presentò al colloquio indossando pantaloni di velluto e stivali, armato di pistola. Disse: "Tu ci dai Giuliano, vai all'estero con la taglia da 50 milioni, potrai vivere come un signore". Si sentì rispondere: "No, all'estero mi uccidono. Voglio restare qui. E la Sicilia dovrà essermene grata perchè l'ho liberata da un sanguinario. Fammi parlare con il colonnello Luca". Pur fiutando la possibilità di un agguato, il comandante del Corpo Forse Repressione Banditismo non aspettava che questo! L'appuntamento con Pisciotta avvenne in una fattoria alla periferia di Monreale. Impossibile ricostruire il colloquio poichè non ci furono testimoni. Sta di fatto che già al secondo incontro Pisciotta si trovò tra le mani un lasciapassare, "fabbricato" da un collaboratore del colonnello il quale, dopo aver preso un foglio di carta intestata del ministero degli Interni, si rivolse a una tipografia di Palermo, ci fece stampare un attestato, poi andò da un artigiano, si fece fare un timbro rotondo con la scritta "Ministero degli Interni", infine fece falsificare la firma del ministro Mario Scelba. Risultato: con un documento irregolare Pisciotta diventò "benemerito" per grossi servizi resi allo Stato e avrebbe potuto circolare liberamente. Da questo momento il colonnello Luca potè gestire il confidente a suo piacere. Sicuro di portare a termine "l'operazione Giuliano", diramò un ordine secco: "Fermate qualsiasi operazione contro il banditismo". E una sera dei primi di luglio di quel 1950 annunciò: "A Giuliano restano 36 ore di libertà".
Tra le 23,30 e le 24,00 del 4 luglio 1950, in piazza Matteotti a Castelvetrano, si fermò una 1100 nera, con targa civile, dei carabinieri. Scendendo, Gaspare Pisciotta disse al milite in borghese Renzo Renzi: "Aspettami e non muoverti". Poi fece 250 metri e, seguendo un codice che lui ben conosceva, bussò alla casa De Maria. Trovò Giuliano ancora a tavola con qualche avanzo della cena, insieme all' "avvocaticchio" Gregorio De Maria, dottore in legge senza però mai esercitare la professione e la domestica, una ragazza di vent'anni.
Turiddu, contando a sua volta su più di un contatto riservato con qualche grosso esponente delle forze dell'ordine e avendo ricevuto segnalazioni precise, avrebbe subito investito il cugino di male parole: "So benissimo quello che stai facendo. Sei un voltagabbana e basta". Ma Pisciotta avrebbe fatto il candido, giurando: "Turiddu, ma che stai dicendo? Chi ti racconta queste cose ha un solo scopo: metterci l'uno contro l'altro". E probabilmente, se proprio non riuscì a tranquillizzarlo, riuscì a prendere tempo continuando a discutere della questione. Mentre l' "avvocaticchio" e la domestica se ne andarono a dormire, i due continuarono a parlare nella camera dove, accanto al lettino di Turiddu ne era stato preparato un secondo, come altre volte. Giuliano, più stanco del solito e molto depresso, si tolse la pistola dalla cintura e la pose sul comodino, a destra del letto, accanto a un fascio di biglietti da mille che portava in tasca. E si sdraiò in maglietta e pantaloni sulle lenzuola. Pisciotta se ne restò su una sedia, continuando la discussione, sino a tornare a litigare. All'improvviso Giuliano allungò la mano verso la pistola, ma Pisciotta fu più svelto, sparò due colpi di mitraglietta e uccise il "re di Montelepre".
Attenzione, poichè i morti non parlano, un giorno sarebbe stato questo il racconto del "sopravvissuto". Ma presumibilmente le cose andarono in un altro modo: mentre Giuliano sprofondava in un sonno profondo, Pisciotta restava sveglissimo, pur fingendo di dormire. Avendo la certezza che per lui la partita stava per chiudersi e che si trovava a un bivio (o prepararsi ad affrontare la punizione di Giuliano e del resto della banda o rispettare "i patti" con i carabinieri per diventare un "uomo libero"), aspettò solo il momento giusto per agire. Poi impugnò la sua mitraglietta e sparò con spietata determinazione: due colpi da meno di un metro di distanza, mirando alla testa. Forse però tremava. E i proiettili si conficcarono nella spalla, a destra, quanto però bastava per uccidere. Poi raccolse la sua roba, prese una cartelletta in cui Giuliano conservava la corrispondenza e nella ritirata si imbattè nel padrone di casa, svegliato dagli spari e intento a chiedere: "Ma si può sapere cos'è successo?". E Pisciotta: "Non è successo niente. Si tolga di mezzo".
E scese di corsa attraverso la scala interna, chiudendosi la porta alle spalle. "E' morto", annunciò al capitano Antonio Perenze che, all'esterno, attendeva notizie. Infine scappò verso la piazza Matteotti, dove il carabiniere Renzi era sempre in attesa sulla 1100 nera. Pisciotta salì, l'auto scomparve verso Palermo, il capitano Perenze bussò alla porta dell' "avvocaticchio". Quando gli venne aperto, sul letto Giuliano era già cadavere. Il capitano ordinò: "Lavate tutto. Non deve restare una macchia. E aiutateci a rivestirlo". Gli si infilò la cintura nei pantaloni, ma vennero saltati due passanti. Gli si infilarono i calzini. Gli si misero si sandali, dimenticando di allacciarne uno. Poi si provvide a trasportare il cadavere nel cortile: il capitano Perenze si fece aiutare dai carabinieri Giuffrida e Catalano. Ma il trasporto non fu facile: Turiddu pesava oltre 95 chili. Poichè la scala era stretta, il cadavere urtò un paio di volte contro il muro. Finalmente in cortile venne apparecchiata la messinscena. E il corpo senza vita apparirà come nelle foto che gireranno il mondo e passeranno alla storia: petto in giù, gamba sinistra dritta, gamba destra ripiegata, braccio destro ben teso con le dita della mano unite e il palmo aperto; braccio sinistro curvato sotto, tra il petto e la nuda terra del cortile. La canottiera era rossa di sangue: le due ferite provocate dai proiettili erano però al di sotto della macchia. E nel trambusto nessuno s'accorse che il sangue è portato a colare giù, non su. Infine, messo a posto il corpo, vennero sparate alcune raffiche di mitra. Perenze e i due carabinieri usarono i loro mitra, ma anche quello di Giuliano, in modo da far credere che c'era stato un conflitto a fuoco. Poi anche il mitra e la pistola di Giuliano vennero sistemati accanto al cadavere: uno a circa un metro e venti dalla mano destra, con il caricatore girato verso il corpo e la canna verso i piedi, l'altra a meno di un palmo dalla testa. Infine Parenze informò via radio il colonnello Luca che, partito da Palermo, si era fermato a Camporeale e che dunque si mise frettolosamente in viaggio verso Castelvetrano. Alle 5,40 riuscì a dettare il primo fonogramma al Ministero dell'Interno: "Da Castelvetrano colonnello Luca segnala che ore 3,30, dopo inseguimento centro abitato et conflitto sostenuto da pattuglia CFRB rimaneva ucciso bandito Salvatore Giuliano Punto Nessuna perdita parte nostra Punto Cadavere piantonato disposizione autorità giudiziaria Punto Riserva particolari".
Alle 10 esatte del 5 luglio due carabinieri bussarono a Montelepre alla casa di Maria Lombardo Giuliano: "Signora, suo figlio è morto". Lei rispose: "Non ci credo. E' un tranello": Ma quelli insistettero: "Venga con noi. Deve riconoscerlo". Allora Maria Lombardo, seguita dalla figlia Giuseppina, dal marito di questa Francesco Gaglio e da un nipotino di 7 anni, tutti vestiti a lutto, salirono sull'auto dei carabinieri. E raggiunsero il cimitero di Castelvetrano.
Il cadavere era al centro dell'obitorio, su un tavolo di marmo, con due blocchi di ghiaccio ai lati. Sotto la nuca, un troncone di albero d'ulivo. Maria Lombardo Giuliano si avvicinò al tavolo. E svenne. Le praticarono un'iniezione, Quando si riprese, disse: "Sì, quello è mio figlio che mi è nato 28 anni fa". E abbracciò il cadavere. Figlia e genero fecero altrettanto. Intanto Maria Lombardo urlava: "L'hanno tradito. L'hanno tradito". Svenne una seconda volta. E tornò a riprendersi per gridare ancora: "Sangue mio, sangue mio! Ti hanno tradito, ti hanno assassinato". Infine si buttò a terra e con il viso, con la bocca, sembrò percorrere la scia di sangue che il figlio aveva lasciato durante il tragitto all'obitorio. Poi se andò accompagnata dai parenti. All'esterno risuonarono alcuni colpi sordi: era il martello che frantumava il cranio in punto preciso per estrarre il cervello da inviare al laboratorio centrale di criminologia. Quattro giorni dopo la cassa venne caricata sul tetto di un'auto grigia che da Castelvetrano partì alla volta di Montelepre. Due persone anche sui predellini per tenerla ben ferma nell'eventualità di scossoni. Alla fine del viaggio la cassa superò il cancello del cimitero di Montelepre su cui sta scritto: "Fummo come voi, sarete come noi". E momentaneamente venne sistemata in una colombaia, ma dalla colombaia sarebbe passata in una vera tomba, dove anche mamma Maria, con suoi segreti, avrebbe raggiunto il suo Turiddu il 20 gennaio 1971. E intanto agli atti, datato 9 luglio 1950, restava come primo vero rapporto quello dei carabinieri: ribadiva la versione del conflitto a fuoco.
"Fu accertato - diceva il rapporto dei carabinieri - che il mitra del bandito Giuliano si era inceppato dopo il dodicesimo colpo (caricatore da 40) forse per la soverchia compressione della molla rimasta per lungo tempo inoperosa. In via Mannone fu rinvenuto un altro caricatore vuoto sparato dal bandito, anche questo di 40 colpi. Complessivamente da noi furono esplosi 191 colpi :carabiniere Renzi, 60; carabiniere Giuffrida, 42; carabiniere Catalano, 56; capitano Perenze, 33".
Che "verità"! Che "dettagli"! Il 16 luglio 1950 però, un magistrale articolo di Tommaso Besozzi sull'Europeo ribaltò la versione ufficiale, rivelò che i mitra avevano praticamente ucciso un uomo già morto. L'inchiesta di Besozzi mise in risalto una serie di particolari: già alle 22 del 4 luglio, i carabinieri erano ben nascosti e mimetizzati sui tetti; a mezzanotte i garzoni di un fornaio vicino alla casa dove si nascondeva Giuliano, intenti a sottrarsi alla calura estiva cercando qualche pausa di refrigerio sulla porta, erano stati invitati a chiudersi in bottega. Quelli ovviamente se n'erano rimasti a spiare: probabilmente da un buco della serratura o comunque da una fessura avevano anche visto uscire dalla casa De Maria un uomo scalzo (Gaspare Pisciotta), il quale aveva raggiunto un'automobile che si era allontanata a tutto gas. Una vecchia ricordava che prima delle raffiche c'erano stati due colpi sordi, come di rivoltella: e non poteva aver udito male, perché era estate e si dormiva con le finestre aperte.
Come se ciò non bastasse, l'esame del cadavere dava altri particolari sconcertanti. Un lago di sangue nel cortile? Macché: c'era poco sangue, al punto che gli operatori cinematografici, per camuffare l'esistenza di una grossa chiazza, avevano buttato per terra qualche secchio d'acqua. E le ferite? Eccole, eguali, come se provocate in seguito a colpi sparati a bruciapelo. Su un braccio, ecco una serie di graffiature o di abrasioni, come in un cadavere trascinato o tirato. Al polso, neppure l'orologio. E poi il volto sembrava di un ucciso nel sonno, altro che nella rabbia e nella foga di un conflitto!
Uno scoop giornalistico quello di Besozzi che passerà alle antologie. Sul numero successivo dell'Europeo un altro cronista di razza, Nicola Adelfi, parlò di "Giuliano tradito ed ucciso nel sonno da Gaspare Pisciotta". Dopo la morte di Turiddu il Corpo Forze di Repressione Banditismo venne sciolto, eppure sarebbe stato bene partire proprio da Giuliano per inchiodare pure fiancheggiatori e protettori del passato. O forse era meglio per tutti chiudere quegli anni insanguinati per non andare a scovare scheletri negli armadi anche di insospettabili?
Il 9 novembre 1950 Maria Lombardo Giuliano denunciò Pisciotta ai carabinieri di averle assassinato il figlio. Il 24 aprile 1951 l' "avvocaticchio" De Maria confermò in pratica la versione di Besozzi e di Adelfi, poi sposò la sua domestica e insieme a lei disse addio alla Sicilia, emigrando in Virginia. Eppure i carabinieri per un po' difesero ancora la loro tesi. Iniziò così un procedimento che coinvolse il capitano Perenze e i carabinieri Renzi, Giuffrida e Catalano, ma su altri versanti non escluse l'ex ispettore di Pubblica Sicurezza Ciro Verdiani, sospettato di favoreggiamento: più volte aveva incontrato Giuliano, scritto lettere, consigliato di guardarsi da Pisciotta che lo tradiva, gestito contatti ponendosi a volte "al di sopra, o meglio al di fuori, di quella che è la volontà dello Stato". Sicuramente Verdiani non era d'accordo con i metodi del colonnello Luca e immaginava di far calare il sipario sull'operatività del "re di Montelepre" in modo diverso. Forse con promesse, tipo l'espatrio, si illudeva che Turiddu potesse diventare collaboratore della polizia, facilitando grandi retate.
Il 14 marzo 1952 il decesso a Roma di Verdiani fece in modo che il suo ruolo in quegli anni piano piano si dissolvesse sotto i riflettori. Il 16 marzo 1954 il capitano Perenze e i tre carabinieri tornarono davanti ai giudici, ma stavolta cambiarono la vecchia versione. Ed entro il 20 settembre, in circostanze varie, vennero assolti. In sede disciplinare ci fu un piccolo stralcio per il colonnello Luca diventato intanto generale. In un rapporto al Ministro della Difesa-Esercito del 20 dicembre 1954, i generali di Corpo d'Armata Biglino, Carmineo e Pizzorno dichiararono che "non erano state violate le leggi dell'onore militare", aggiunsero di non "avere nulla da eccepire sulla condotta del generale Luca" e testualmente conclusero: "La commissione ha voluto riandare per un'ampia visione del fenomeno alla storia del brigantaggio che afflisse l'Italia per tanto tempo dopo il 1860. Ed ha trovato in essa predecessori e al Giuliano e al Pisciotta e situazioni se non eguali certo analoghe. In quel lontano passato, ingenti furono le forze preposte alla repressione, forze che assommavano a circa 90 mila uomini, gravissime le perdite tra esse, eccezionali le misure assunte dal governo, numerose le ricompense, tra le quali parecchie medaglie d'oro. Equilibrati i termini di confronto, non si può non concludere con un giudizio a favore del CFRB che, senza misure d'eccezione, con forze ridotte, senza perdite, venne a capo di una situazione che aveva dato in precedenza filo da torcere ed aveva provocato 120 morti tra i tutori dell'ordine. Perdite che il generale Luca con saggia, accorta condotta, riuscì ad evitare".
Insomma, secondo i tre alti ufficiali, la linea di comportamento era stata consigliata dalla situazione. E poi in certi momenti, come quello relativo alla cattura di Giuliano, "il modo" dell'azione aveva ben poco rilievo rispetto al "risultato" stesso dell'azione. Il generale Luca diventò vicecomandante dell'Arma dei carabinieri: già in pensione, morì d'infarto alle 21 del 4 luglio 1967, esattamente nel diciassettesimo anniversario di quella sera in cui aveva lasciato Palermo per dirigersi verso Camporeale, restando in attesa di notizie su Giuliano per poi precipitarsi a Castelvetrano. Ma che ne fu degli altri "attori" che, con ruoli diversi, avevano animato l'epilogo della vicenda?
L'ufficiale Paolantonio, lasciato praticamente in disparte da Luca nella fase finale dell' "operazione Giuliano", dopo la notte di Castelvetrano abbandonò l'Arma dei carabinieri per diventare comandante del Corpo dei Vigili Urbani di Palermo. E il maresciallo Lo Bianco, il leggendario "don Peppino", vero castigamatti dei banditi, il cui ruolo si rivelò risolutore per la capitolazione della banda Giuliano? Dopo Castelvetrano, rimase nell'Arma ancora dieci anni. Pare che ad amici e interlocutori continuasse a esternare per diverso tempo una specie di cruccio: "Poteva prenderlo vivo".
E che accadde invece agli altri "attori" sul fronte di Giuliano? Don Nitto Minasola, che si era eretto a trait d'union tra mafia e carabinieri per la cattura dei latitanti, dopo la fine di Turiddu era letteralmente terrorizzato, temendo che potesse succedergli qualcosa. Spesso andò a trovare il generale Luca a Roma, chiedendo che gli venisse permesso di lasciare la Sicilia e dicendo che gli sarebbe bastato qualche pezzo di terra da coltivare nel Nord Italia. Si aspettava quasi un premio alla sua collaborazione. E faceva bene ad aver paura:alle 13,50 del 21 settembre 1960, esattamente dieci anni e 76 giorni dopo l'episodio di Castelvetrano, due killer attesero don Nitto in aperta campagna e lo seguirono sino in paese, senza farsi accorgere. Poi spararono, fulminandolo sulla strada principale di San Cipirrello. In quanto a Gaspare Pisciotta, il luogotenente-cugino che uccise il "re di Montelepre per godersi premi e benemerenze, diventò protagonista di un altro capitolo che non cessò di infittire la ragnatela dei "misteri d'Italia"
Il colonnello Luca e il capitano Perenze, che dopo la morte di Turiddu venne subito promosso maggiore per i meriti conseguiti "nel conflitto a fuoco contro Giuliano", erano sicuri che negli ultimi tempi il bandito avesse scritto un memoriale, il terzo, ma il più importante perché conclusivo. Perciò il 7 luglio 1950, solo tre giorni dopo, Perenze chiese a Pisciotta: "Gasparino, ce lo dai quel documento?". Pisciotta, se ben ricordate, allontanandosi da casa De Maria, s'era portato la busta di pelle in cui il cugino teneva la corrispondenza. All'interno però Luca e Perenze avevano trovato solo alcune lettere di noti separatisti. E il memoriale? "Mi dispiace - disse Gaspare - ma io non so niente". Pregò però Perenze di riferire a Luca, diventato intanto generale, che si impegnava "a farglielo avere".
Il fatto che il memoriale non si trovasse, sicuramente aveva fatto piombare molta gente nel terrore di ricatti. Cosicché a cercarlo non erano solo i carabinieri per completare l'operazione, ma anche qualcuno che, su mandato altrui, prospettò allo stesso Pisciotta danaro, un passaporto, una bella vita in Sudamerica, "così noi qui ce ne stiamo tutti in pace". Pisciotta si convinse che la sua salvezza stesse nel tenere tutti sulla corda, facendo capire che se il memoriale non l'aveva, sapeva però dove mettere le mani al momento opportuno. Infatti pensava che l' "avvocaticchio" De Maria avesse messo da parte il documento che Giuliano aveva scritto con la sua stilografica verde. Perciò disse al maggiore Perenze: "Va tutto bene. Il 15 luglio alle 10 De Maria l'aspetta al quinto chilometro della strada per Mazara del Vallo". Immaginarsi l'ufficiale. All'ora stabilita fu puntuale e chiese al l' "avvocaticchio": "Allora, vuol darmi il memoriale?". Quello fece una smorfia, schioccò la lingua tra i denti come per dire no. E poiché Perenze si mostrò irritato, giurò: "Tutto bruciai. E lo feci per paura di essere arrestato. Quando lei lasciò la casa, presi tutte le carte, ne feci un fascio e vi diedi fuoco". E pronunciò queste parole in un modo tale da convincere persino quel furbone del maggiore Perenze che davvero non mentiva. Ergo, se il memoriale era stato bruciato, non c'era nulla da fare. Anzi, vicenda conclusa, se non ci fosse stata da sistemare la questione Pisciotta che viveva a Monreale in casa della fidanzata e che il generale Luca andava spesso a trovare nonostante dovesse essere consegnato alla magistratura, la quale lo stava giudicando in contumacia. E poiché c'era la madre di Turiddu che parlava di Pisciotta come di un "Giuda", per sottrarlo ad eventuali vendette Luca e Perenze credettero bene di portarselo a Palermo, anzi il maggiore lo ospitò a casa sua. Così Gasparino, detto anche "Aspanu", fece la bella vita, frequentando cinema, ristoranti, negozi, a volte in borghese, a volte in divisa da ufficiale dei carabinieri, sempre insieme al maggiore o a militi fidati. E poiché sputava sangue, venne visitato da un noto tisiologo e affrontò tutti gli esami clinici, regolarmente pagati dall'Arma. A un certo punto però anche a Palermo la presenza di Pisciotta diventò imbarazzante e pericolosa, sia per l'eventualità ancora di vendette, sia perché a capo della Ps palermitana c'era quel Carmelo Marzano che conosceva i metodi dell'Arma per esserne stato sottotenente e che ben ricordava il volto di Pisciotta: tempo prima l'allora colonnello Luca gli aveva fatto firmare un lasciapassare, spacciandolo come un informatore qualunque. Perciò Luca e Perenze decisero di portare nottetempo Gaspare da sua madre Rosalia, a Montelepre.
Qui Aspanu si costruì subito un palchetto a doppio fondo sotto il tetto dove andarsi a nascondere nel caso in cui ci fossero state visite. I suoi rapporti con i carabinieri continuarono per lettera attraverso staffetta o mediante qualche visita di Perenze. Poi Luca partì per Roma e Perenze non solo non andò più a Montelepre, ma lo invitò a non imbucare le lettere "perché alla posta potrebbero aprirle e leggerle". Fu così che per cinque mesi Pisciotta restò rintanato in casa della mamma.
Una mattina di dicembre piombarono cinquanta agenti di polizia che circondarono l'abitazione e la perquisirono da cima e fondo, però senza risultati. Allora un sottufficiale disse alla madre e alla sorella: "Noi non ce ne andremo. Resteremo un giorno, un mese, una settimana, il tempo che occorre". Un'ora dopo si sentì un colpo di tosse: era Aspanu che, minato dalla tisi e terrorizzato, emergeva dal palchetto con il fondo dei pantaloni imbrattati. Gli diedero il tempo di cambiarsi e se lo portarono via. Successivamente la versione che di quella cattura avrebbe fornito l'interessato, sarebbe stata diversa: disse d'essere stanco (si era reso conto che i carabinieri l'avevano abbandonato) e d'aver telefonato al questore di Palermo: "O mi mettete dentro o comincio a raccontare in piazza a Montelepre, quello che è successo a Giuliano". E aggiunse d'aver aspettato due giorni, facendosi trovare vestito di blu con la camicia di seta e la cravatta argentata. Bluff? Vanagloria? Di certo, Carmelo Marzano, per far notare la differenze di stile tra Arma e Ps, disse in conferenza stampa: "Io i banditi li prendo vivi, non morti". Così anche Gaspare Pisciotta finì la sua latitanza e venne consegnato ai magistrati.
Una cinquantina di processi riguardanti i componenti della banda Giuliano si estinsero in istruttoria per la morte dei protagonisti. Il maxi processo di Viterbo, iniziato il 2 giugno 1950, interrotto il 5 luglio alla notizia dell'uccisione di Turiddu e ripreso il 5 aprile 1951, togliendoci cinque morti (il capoband