Da I siciliani nuovi del 01/04/1995
La massomafia: il caso Sindona
Il Maresciallo e l'eroe borghese
di Monica Zappelli
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Il maresciallo Silvio Novembre è un uomo solido nella stretta di mano, ed è una gestualità robusta anche quella che accompagna le sue parole. Ha condiviso con Giorgio Ambrosoli il lavoro di liquidazione della Banca privata italiana, con il suo carico di rischi e minacce. Un uomo di Stato e un avvocato borghese uniti in una bellissima storia di amicizia e di coscienza civile. Anche oggi la sua sede di lavoro è una banca, il Nuovo Ambrosiano.
- Dopo l'omicidio di Giorgio Ambrosoli ha deciso di lasciare la Guardia di Finanza...
«Non subito. In un primo momento ho continuato a lavorare presso la Banca privata italiana. Mi ero fatto una promessa: portare a termine, sia pure con le mie modestissime forze, il lavoro che aveva iniziato Giorgio Ambrosoli. Molti lo ritenevano ormai finito, ma non lo era affatto. Dopo di che mi sono congedato, senza sapere cos'altro andare a fare».
- Riteneva ormai di aver concluso un compito?
«No. L'ho fatto come atto di "ribellione". In quegli anni terribili vedevo morire, oltre a Giorgio Ambrosoli, tantissime altre persone, non solo tra i servitori dello Stato. Mi era diventato difficile continuare a osservare il giuramento con lo stesso spirito con cui l'avevo osservato fino ad allora».
- Questo Stato che lascia solo chi cerca di servirlo, o addirittura lo ostacola, aveva già mostrato il suo volto mentre lavoravate alla liquidazione della Banca privata italiana. Cosa l'ha spinta allora a non arrendersi?
«L'abitudine a fare il proprio dovere, sempre e comunque. Non nel nome di un pezzo di Stato, o degli uomini che in quel momento rappresentavano lo Stato, ma in nome dello Stato con la "esse" maiuscola, in nome di tutti, della collettività. Con grande naturalezza perché erano valori ormai insiti, già metabolizzati. Non si aveva la sensazione di fare cose eccezionali».
- C'è stato qualcosa che l'ha fatta sentire subito vicino ad Ambrosoli?
«Il nostro rapporto è andato costruendosi nel tempo, ma su una cosa noi ci siamo trovati immediatamente a nostro agio. Sia lui che noi dovevamo fare il nostro dovere. Questo è stato il cemento sul quale s'è costruita anche una splendida amicizia. La condivisione dei valori essenziali, di rispetto delle regole, di legalità, di umanità».
- Ha scritto che a volte ha qualche senso di colpa, la sensazione che se lei non gli avesse comunicato la sua tenacia, Ambrosoli non si sarebbe intestardito così...
«Io sono convinto di una cosa. Presi singolarmente eravamo due individui diversi rispetto a quello che siamo diventati lavorando insieme alle stesse cose. L'uno potenziava l'altro e viceversa. Fino al punto di aver tirato fuori un individuo diverso da me e da lui, proprio perché la comunità d'intenti, la simbiosi è stata totale. Questo spesso mi ha fatto pensare che forse senza di me quest'uomo, che pure era una persona perbene e piena di valori, si sarebbe comportato in maniera diversa».
- Lei, proprio nel tentativo di difenderlo, ha passato molte notti sotto casa Ambrosoli. C'era da parte sua un atteggiamento stranamente protettivo; in fondo non era minacciato anche lei?
«Io in un certo senso avevo questo compito. Sentivo che non era sufficiente fare quello che dovevo fare in banca. In quel momento rappresentavo più di lui lo Stato proprio per la mia professione. Tra i miei compiti allora c'era anche quello di difenderlo, visto che altri non provvedevano. Oltre al senso del dovere poi, a spingermi c'era anche l'amicizia».
- Alla presentazione milanese del film "Un eroe borghese" lei ha detto che rispetto a quegli anni questo paese è migliorato. Non ha la sensazione che si sia quasi prodotto un «eccesso di verità» che porta passivamente ad accettare tutto senza stupore, senza scandalo?
«No, perché oggi la società civile si è organizzata in varie aggregazioni e associazioni che servono a tener desta l'attenzione. I segnali d'allarme scattano e scattano prima».
- Se ci fossero stati l'eco della stampa e il sostegno dell'opinione pubblica che hanno accompagnato il lavoro dei magistrati negli anni '90, la vostra storia avrebbe potuto essere diversa?
«Non si comincia dal tetto a fare le case, bisogna fare anche il lavoro umile, che è quello che porta le basi. Molto probabilmente noi abbiamo posto soltanto un piccolo granellino in quella costruzione, ma è stato un granellino che non è andato disperso. Noi abbiamo fatto qualcosa che ha rotto una certa consuetudine, un certo modo di pensare. E anche se è rimasto oscuro ai più, però le inchieste sono state fatte e portate a termine. E così com'è stato possibile da parte di Corrado Stajano scrivere il libro in una certa epoca, così è stato possibile a Pietro Valsecchi fare questo film oggi, perché la situazione con Mani pulite è ulteriormente cambiata. Ecco perché io ho detto che oggi mi sento meno solo».
- Prova rancore quando pensa a Sindona o ad Andreotti?
«No, non rancore, disapprovazione. E' un'altra cosa. Critica feroce, perché chi doveva comportarsi bene non si è comportato bene, ma non più di questo».
- In questi anni c'è stata qualche figura di servitore dello Stato, qualche storia di lotta contro la corruzione con cui si è identificato?
«Mi viene spesso in mente Libero Grassi, perché è una figura analoga a quella di Giorgio Ambrosoli. E' un uomo che fa tranquillamente la sua attività. Non un eroe per vocazione. Ha avuto il coraggio di dire no in circostanze molto difficili. E' un uomo a cui penso spesso, anche se le situazioni sono completamente diverse».
- La storia non è sempre lineare e a volte non si riesce a capire come possono cambiare i ruoli delle persone. Penso a Guido Viola, di cui oggi si parla nelle vesti di indagato...
«A Guido Viola mi lega un profondo senso di amicizia. Commissario liquidatore, polizia giudiziaria e magistratura erano i tre poli che si occupavano di un'unica vicenda e lavoravano tutti in una stessa direzione. Sono portato, forse per quell'ottimismo di fondo che c'è in me, e anche per un senso di amicizia, a credere che le cose che sono state dette e scritte non rappresentino la verità. Io spero e credo che alla fine mi venga restituito il Guido Viola che ho conosciuto».
Inutile cercare di strappare a Silvio Novembre una parola di troppo, un ricordo che si trasformi in sfogo, una ragione che vada al di là di parole come dovere, normalità, umiltà. E' impossibile e anche ingiusto cercare un punto di fragilità in questo suo mondo. In lui anche la negazione del dolore e del rancore è senso dello Stato.
- Dopo l'omicidio di Giorgio Ambrosoli ha deciso di lasciare la Guardia di Finanza...
«Non subito. In un primo momento ho continuato a lavorare presso la Banca privata italiana. Mi ero fatto una promessa: portare a termine, sia pure con le mie modestissime forze, il lavoro che aveva iniziato Giorgio Ambrosoli. Molti lo ritenevano ormai finito, ma non lo era affatto. Dopo di che mi sono congedato, senza sapere cos'altro andare a fare».
- Riteneva ormai di aver concluso un compito?
«No. L'ho fatto come atto di "ribellione". In quegli anni terribili vedevo morire, oltre a Giorgio Ambrosoli, tantissime altre persone, non solo tra i servitori dello Stato. Mi era diventato difficile continuare a osservare il giuramento con lo stesso spirito con cui l'avevo osservato fino ad allora».
- Questo Stato che lascia solo chi cerca di servirlo, o addirittura lo ostacola, aveva già mostrato il suo volto mentre lavoravate alla liquidazione della Banca privata italiana. Cosa l'ha spinta allora a non arrendersi?
«L'abitudine a fare il proprio dovere, sempre e comunque. Non nel nome di un pezzo di Stato, o degli uomini che in quel momento rappresentavano lo Stato, ma in nome dello Stato con la "esse" maiuscola, in nome di tutti, della collettività. Con grande naturalezza perché erano valori ormai insiti, già metabolizzati. Non si aveva la sensazione di fare cose eccezionali».
- C'è stato qualcosa che l'ha fatta sentire subito vicino ad Ambrosoli?
«Il nostro rapporto è andato costruendosi nel tempo, ma su una cosa noi ci siamo trovati immediatamente a nostro agio. Sia lui che noi dovevamo fare il nostro dovere. Questo è stato il cemento sul quale s'è costruita anche una splendida amicizia. La condivisione dei valori essenziali, di rispetto delle regole, di legalità, di umanità».
- Ha scritto che a volte ha qualche senso di colpa, la sensazione che se lei non gli avesse comunicato la sua tenacia, Ambrosoli non si sarebbe intestardito così...
«Io sono convinto di una cosa. Presi singolarmente eravamo due individui diversi rispetto a quello che siamo diventati lavorando insieme alle stesse cose. L'uno potenziava l'altro e viceversa. Fino al punto di aver tirato fuori un individuo diverso da me e da lui, proprio perché la comunità d'intenti, la simbiosi è stata totale. Questo spesso mi ha fatto pensare che forse senza di me quest'uomo, che pure era una persona perbene e piena di valori, si sarebbe comportato in maniera diversa».
- Lei, proprio nel tentativo di difenderlo, ha passato molte notti sotto casa Ambrosoli. C'era da parte sua un atteggiamento stranamente protettivo; in fondo non era minacciato anche lei?
«Io in un certo senso avevo questo compito. Sentivo che non era sufficiente fare quello che dovevo fare in banca. In quel momento rappresentavo più di lui lo Stato proprio per la mia professione. Tra i miei compiti allora c'era anche quello di difenderlo, visto che altri non provvedevano. Oltre al senso del dovere poi, a spingermi c'era anche l'amicizia».
- Alla presentazione milanese del film "Un eroe borghese" lei ha detto che rispetto a quegli anni questo paese è migliorato. Non ha la sensazione che si sia quasi prodotto un «eccesso di verità» che porta passivamente ad accettare tutto senza stupore, senza scandalo?
«No, perché oggi la società civile si è organizzata in varie aggregazioni e associazioni che servono a tener desta l'attenzione. I segnali d'allarme scattano e scattano prima».
- Se ci fossero stati l'eco della stampa e il sostegno dell'opinione pubblica che hanno accompagnato il lavoro dei magistrati negli anni '90, la vostra storia avrebbe potuto essere diversa?
«Non si comincia dal tetto a fare le case, bisogna fare anche il lavoro umile, che è quello che porta le basi. Molto probabilmente noi abbiamo posto soltanto un piccolo granellino in quella costruzione, ma è stato un granellino che non è andato disperso. Noi abbiamo fatto qualcosa che ha rotto una certa consuetudine, un certo modo di pensare. E anche se è rimasto oscuro ai più, però le inchieste sono state fatte e portate a termine. E così com'è stato possibile da parte di Corrado Stajano scrivere il libro in una certa epoca, così è stato possibile a Pietro Valsecchi fare questo film oggi, perché la situazione con Mani pulite è ulteriormente cambiata. Ecco perché io ho detto che oggi mi sento meno solo».
- Prova rancore quando pensa a Sindona o ad Andreotti?
«No, non rancore, disapprovazione. E' un'altra cosa. Critica feroce, perché chi doveva comportarsi bene non si è comportato bene, ma non più di questo».
- In questi anni c'è stata qualche figura di servitore dello Stato, qualche storia di lotta contro la corruzione con cui si è identificato?
«Mi viene spesso in mente Libero Grassi, perché è una figura analoga a quella di Giorgio Ambrosoli. E' un uomo che fa tranquillamente la sua attività. Non un eroe per vocazione. Ha avuto il coraggio di dire no in circostanze molto difficili. E' un uomo a cui penso spesso, anche se le situazioni sono completamente diverse».
- La storia non è sempre lineare e a volte non si riesce a capire come possono cambiare i ruoli delle persone. Penso a Guido Viola, di cui oggi si parla nelle vesti di indagato...
«A Guido Viola mi lega un profondo senso di amicizia. Commissario liquidatore, polizia giudiziaria e magistratura erano i tre poli che si occupavano di un'unica vicenda e lavoravano tutti in una stessa direzione. Sono portato, forse per quell'ottimismo di fondo che c'è in me, e anche per un senso di amicizia, a credere che le cose che sono state dette e scritte non rappresentino la verità. Io spero e credo che alla fine mi venga restituito il Guido Viola che ho conosciuto».
Inutile cercare di strappare a Silvio Novembre una parola di troppo, un ricordo che si trasformi in sfogo, una ragione che vada al di là di parole come dovere, normalità, umiltà. E' impossibile e anche ingiusto cercare un punto di fragilità in questo suo mondo. In lui anche la negazione del dolore e del rancore è senso dello Stato.
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