Da Corriere della Sera del 08/07/1999
L'uomo che non scendeva a compromessi
di Corrado Stajano
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Dal 1991 in avanti sono state dedicate a Giorgio Ambrosoli strade, piazze, scuole, biblioteche in ogni regione italiana e si parla di lui a Mosca e a New York. Il suo nome non viene più taciuto o pronunciato con indifferenza come negli anni Ottanta, in un periodo tra i più foschi della storia nazionale, tra terrorismo e politica dell'impunità e della corruzione. Ma non sembra, ancora oggi, che i principi di legalità siano considerati il bene sommo, il presupposto del vivere civile e non sembra che la lotta contro la mafia che, con altre modalità rispetto al passato, seguita a infestare quattro regioni italiane e ha messo radici ovunque, susciti la tensione e la considerazione che ha avuto, per un breve periodo, dopo l'estate del 1992, l'anno della morte di Falcone e di Borsellino.
E non sembra, ancora, che in un clima senza fervori come il nostro, di normalizzazione e di omologazione, la piaga della corruzione, non certo rimarginata, abbia la dovuta attenzione e che i magistrati che se ne preoccupano siano agevolati nel loro difficile lavoro. Intralciati, piuttosto, presi di mira, soprattutto i più intelligenti e i più fattivi. La legalità non pare considerata un valore, troppo spesso un inciampo alla compromissione, invece. E la politica nata dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo lo spappolamento della vecchia classe dirigente in seguito all'inchiesta dei procuratori di Milano, nel 1992, non ha preso a modello il comportamento esemplare dell'avvocato di Milano che avrebbe potuto rappresentare una nuova linea politica, l'alleanza della parte progressista del Paese con la borghesia pulita. Una corsa al centro priva di ragione e di intelligenza è stata ritenuta invece la formula vincente, con il risultato di allontanare dalla politica tanti uomini e donne della sinistra e di annullare le non poche energie positive che esistono.
Giorgio Ambrosoli era un moderato, figlio della tradizionale borghesia milanese, per idee, stile di vita e di costume. Il suo terzogenito, Umberto, che adesso è diventato avvocato - il bambino Betò che dietro la porta della camera da letto dei genitori origliava e sentiva le voci registrate con le terribili minacce di morte che il padre una notte fece ascoltare alla madre - ha riconosciuto anni fa che sono stati gli uomini della sinistra, non i conservatori, a promuovere azione di giustizia e di verità in nome del padre.
L'avvocato appartiene a tutti coloro che hanno a cuore i principi della legalità e del buon governo. Sarebbe stato facile, per lui, aver salva la vita: minuscoli cedimenti, qualche aggiustamento di rotta, abbozzare, seguire il verso del legno, qualche azione neppure visibile accompagnata da una piccola firma in calce a un foglio. All'esterno, tutto quanto avrebbe avuto l'apparenza di un atto dovuto. Solo che acconsentire agli aggiustamenti, alle mediazioni, al salvataggio della banca mandata in rovina da Sindona - più di cinquemila miliardi di lire di oggi - avrebbe significato violare la legge, far pagare il peso finanziario ai cittadini, i contribuenti italiani che Ambrosoli aveva il dovere di tutelare.
L'avvocato fece con intransigenza il proprio dovere. Con molta semplicità - al momento della morte non aveva ancora compiuto 46 anni e possedeva l'intelligenza per diventare un grande avvocato - disse ripetutamente di no agli ossessivi tentativi di salvataggio della banca promossi da uomini di governo in sintonia con i poteri criminali. Mentre la loggia massonica P2 faceva da regista nell'offensiva micidiale contro Ambrosoli, di continuo esterrefatto - risulta dalle sue agende - di fronte alla rivelazione delle illegalità, delle trame, delle connivenze, dei tradimenti che hanno per protagonisti uomini di alto ran go dello Stato, ministri, magistrati, banchieri. Avrebbero dovuto essere naturalmente dalla parte della legge, dalla sua parte, e invece si rivelavano nemici, alleati tra loro per vanificare la legge.
Ambrosoli dice di no a quei mondi inconciliabili, non guarda in faccia nessuno. Subirà ironie, anche dopo la morte, da parte dei cinici che lo trattano da ingenuo. È un uomo della coscienza civile, detesta i compromessi, detesta anche il primato della politica inteso come dominio degli apparati e delle oligarchie dei partiti. Per lui contano soprattutto le ragioni morali, la limpida dimensione dell'esistenza, l'onestà.
Sa benissimo quale nemico implacabile si trova di fronte: quel romanzesco "genio del male" che è l'avvocato Sindona di cui era riuscito a scoprire le trame incoffessabili e le ruberie avallate dal potere politico, ricostruendo nelle più infernali banche del mondo i loschi riciclaggi di denaro sporco.
La lettera che scrisse alla moglie Annalori nel 1975, neppure un anno dopo la nomina - sarà ritrovata nella sua agenda dopo la morte - è un'altra testimonianza di dirittura morale e di coraggio: "È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di far qualcosa per il Paese [...]. A quarant'anni di colpo ho fatto politica e in in nome dello Stato e non per un partito [...]. Qualunque cosa succeda, comunque tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [...]. Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa".
E non sembra, ancora, che in un clima senza fervori come il nostro, di normalizzazione e di omologazione, la piaga della corruzione, non certo rimarginata, abbia la dovuta attenzione e che i magistrati che se ne preoccupano siano agevolati nel loro difficile lavoro. Intralciati, piuttosto, presi di mira, soprattutto i più intelligenti e i più fattivi. La legalità non pare considerata un valore, troppo spesso un inciampo alla compromissione, invece. E la politica nata dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo lo spappolamento della vecchia classe dirigente in seguito all'inchiesta dei procuratori di Milano, nel 1992, non ha preso a modello il comportamento esemplare dell'avvocato di Milano che avrebbe potuto rappresentare una nuova linea politica, l'alleanza della parte progressista del Paese con la borghesia pulita. Una corsa al centro priva di ragione e di intelligenza è stata ritenuta invece la formula vincente, con il risultato di allontanare dalla politica tanti uomini e donne della sinistra e di annullare le non poche energie positive che esistono.
Giorgio Ambrosoli era un moderato, figlio della tradizionale borghesia milanese, per idee, stile di vita e di costume. Il suo terzogenito, Umberto, che adesso è diventato avvocato - il bambino Betò che dietro la porta della camera da letto dei genitori origliava e sentiva le voci registrate con le terribili minacce di morte che il padre una notte fece ascoltare alla madre - ha riconosciuto anni fa che sono stati gli uomini della sinistra, non i conservatori, a promuovere azione di giustizia e di verità in nome del padre.
L'avvocato appartiene a tutti coloro che hanno a cuore i principi della legalità e del buon governo. Sarebbe stato facile, per lui, aver salva la vita: minuscoli cedimenti, qualche aggiustamento di rotta, abbozzare, seguire il verso del legno, qualche azione neppure visibile accompagnata da una piccola firma in calce a un foglio. All'esterno, tutto quanto avrebbe avuto l'apparenza di un atto dovuto. Solo che acconsentire agli aggiustamenti, alle mediazioni, al salvataggio della banca mandata in rovina da Sindona - più di cinquemila miliardi di lire di oggi - avrebbe significato violare la legge, far pagare il peso finanziario ai cittadini, i contribuenti italiani che Ambrosoli aveva il dovere di tutelare.
L'avvocato fece con intransigenza il proprio dovere. Con molta semplicità - al momento della morte non aveva ancora compiuto 46 anni e possedeva l'intelligenza per diventare un grande avvocato - disse ripetutamente di no agli ossessivi tentativi di salvataggio della banca promossi da uomini di governo in sintonia con i poteri criminali. Mentre la loggia massonica P2 faceva da regista nell'offensiva micidiale contro Ambrosoli, di continuo esterrefatto - risulta dalle sue agende - di fronte alla rivelazione delle illegalità, delle trame, delle connivenze, dei tradimenti che hanno per protagonisti uomini di alto ran go dello Stato, ministri, magistrati, banchieri. Avrebbero dovuto essere naturalmente dalla parte della legge, dalla sua parte, e invece si rivelavano nemici, alleati tra loro per vanificare la legge.
Ambrosoli dice di no a quei mondi inconciliabili, non guarda in faccia nessuno. Subirà ironie, anche dopo la morte, da parte dei cinici che lo trattano da ingenuo. È un uomo della coscienza civile, detesta i compromessi, detesta anche il primato della politica inteso come dominio degli apparati e delle oligarchie dei partiti. Per lui contano soprattutto le ragioni morali, la limpida dimensione dell'esistenza, l'onestà.
Sa benissimo quale nemico implacabile si trova di fronte: quel romanzesco "genio del male" che è l'avvocato Sindona di cui era riuscito a scoprire le trame incoffessabili e le ruberie avallate dal potere politico, ricostruendo nelle più infernali banche del mondo i loschi riciclaggi di denaro sporco.
La lettera che scrisse alla moglie Annalori nel 1975, neppure un anno dopo la nomina - sarà ritrovata nella sua agenda dopo la morte - è un'altra testimonianza di dirittura morale e di coraggio: "È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di far qualcosa per il Paese [...]. A quarant'anni di colpo ho fatto politica e in in nome dello Stato e non per un partito [...]. Qualunque cosa succeda, comunque tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [...]. Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa".
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"È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico"
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