Da La Repubblica del 17/06/1999

La vergogna dell'impunità

di Elie Wiesel

In Kosovo dunque la guerra è finita. Le vittime di ieri emergono dalla paura che per settimane le ha attanagliate. Ora per loro è venuto il momento di andare con speranza verso l'avvenire. Ma il mio pensiero li trattiene. Quando è stato? E' passato meno di un mese dalla mia visita in Macedonia e in Albania.

L'immagine sembra uscita dalla Bibbia: convogli che attraversano montagne e valli, alla ricerca di un luogo sicuro, di un paesaggio accogliente; folle angosciate in cui mariti e mogli, genitori e bambini smarriti continuano a cercarsi, a cercarsi. I genitori piangono, i bambini sorridono. E' più doloroso a vedersi il loro riso, o il pianto degli adulti? Di fronte a questi bambini si prova vergogna. Davanti ai loro genitori ci si sente inetti.

Segnati da una sventura implacabile, ancestrale, ti guardano in silenzio prima di mettersi a raccontare, e avresti voglia di nasconderti da qualche parte dove la vita sia più semplice e la condizione umana meno crudele. A questa gente hanno portato via tutto. Dov'è la loro speranza? Li hanno privati della casa, di ogni loro bene o oggetto di attaccamento, della loro stessa esistenza; e ora hanno l'aria di chiederti spiegazioni, se non di chiederti conto di ciò che è stato. Si vorrebbe farli parlare più a lungo, e al tempo stesso si ha paura di quello che diranno. A quanto pare, vi sono limiti a ciò che l'essere umano può assorbire. Ma non si ha il diritto di non interrogarli. Tocca a noi ricevere i loro ricordi ossessivi, le loro ferite incandescenti. Se hanno la forza di raccontare, noi dovremmo avere quella di aprirci a loro. Ricordi di tradimenti e di abbandoni, di agonia e di tortura: adolescenti che hanno assistito all'esecuzione dei genitori; anziani che avrebbero accettato volentieri di morire al posto dei loro figli; giovani donne violentate, vecchie ripiegate sul loro passato, umiliate all'ombra delle loro case in fiamme. Evocando le prove subite, tutti ricordano con una smorfia che spesso gli aguzzini e i torturatori erano i loro vicini. Come descrivere quell'universo, che si estende oltre i confini della loro memoria? Migliaia, decine di migliaia di uomini, donne e bambini si sono radunati qui per puro caso. Vittime di un fanatismo etnico la cui sistematica brutalità ci riporta a un'era che credevamo definitivamente conclusa, attendono, inebetiti, la fine di una guerra brutta e sanguinosa, di una potenza implacabile come il destino. Vado da un campo all'altro, da una tenda all'altra. Talvolta il direttore dal campo - in genere appartenente a una delle agenzia umanitarie internazionali, tutte ammirevolmente dedite alla loro causa - allontana i fotografi e i cameramen, quando si tratta di prigionieri liberati che hanno lasciato dietro di sé le famiglie. Meglio evitare rappresaglie. Allora raccontano, raccontano, ma non riescono ad arrivare alla fine. A metà di una frase, di un'immagine, le loro voci si spezzano. Un uomo ancora vigoroso ha assistito all'assassinio del fratello. Un vecchio dal capo nobilmente eretto è uno dei due sopravvissuti al massacro di centottanta prigionieri: uno di loro era suo figlio. Un uomo silenzioso non mi toglie gli occhi di dosso. Un suo amico mi confida che nella sua cella sovraffollata aveva sentito un poliziotto serbo dire al figlioletto di cinque anni: sceglilo tu, quello che pesterò oggi. Eppure sono fortunati: sono ancora vivi. Ma i loro familiari - le donne, i bambini - sono rimasti là, in uno dei villaggi incendiati, o in montagna. Parlando di loro si mettono a piangere, come per dire: le parole non bastano per esprimere quello che abbiamo subito; ascolta piuttosto le nostre lacrime. Allora li ascolti, stringendo le labbra.

Passo molto tempo con i bambini. Dovunque ci si occupa con tenerezza e amore di questi piccoli profughi. Si cerca in tutti i modi di farli divertire. Si sono improvvisate scuole, per evitare che cadano in preda alla noia. Gli israeliani hanno creato per loro un centro a parte: e ci si sente scaldare il cuore a sentirli cantare i canti israeliani. Cosa desiderano? Tornare a casa. Il più presto possibile. Prima che si avvicini l'inverno. Ma le loro case non sono in rovina? Non importa. Le ricostruiranno.

E i serbi? Come potranno vivere accanto a loro? Qui le cose si complicano. Il fatto è che oramai, da entrambe le parti, c'è odio: come un muro, che si erge per ricordare che esiste un limite all'oblio. Tutti giurano con forza che non dimenticheranno, non perdoneranno. Tutto questo fa paura: dunque questa tragedia non avrà fine? Non avendo fatto nulla per proteggere gli albanesi, la Nato a questo punto dovrà proteggere i serbi, i loro aguzzini di ieri? Per quanto tempo i soldati del generale Jackson dovranno rimanere in questa provincia martoriata, per impedire alla morte di dilagare ancora?

Ah, cosa non può fare un individuo al potere al suo infelice popolo, e ai suoi vicini più infelici ancora. Verrà il giorno in cui il presidente Slobodan Milosevic, accusato di crimini contro l'umanità - quella delle sue vittime e la nostra - sarà tradotto davanti alla Corte internazionale dell'Aja per rispondere delle sue sanguinose malefatte? Nel momento in cui si pubblicano queste righe, è la volta dei serbi, costretti a errare sulla via dell'esilio. Li vediamo sui camion o a piedi, tormentati, angosciati. Mentre per i rifugiati è iniziato il ritorno a casa. Sembrano esultanti. Come già per Sisifo, li si immagina felici. Troveranno in se stessi la forza morale per superare la loro ira, canalizzandola verso la ricostruzione delle loro case? Sarà questo il momento di ricordare loro che l'odio non è mai una soluzione? Che non dovrebbe neppure essere un'opzione? Che non è disonorevole porre fine alla sofferenza? Il capitolo jugoslavo è tutt'altro che concluso.

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