Da La Stampa del 16/11/2002

Casalegno, farsi uccidere per la Democrazia

di Arrigo Levi

RITORNARE con la mente a quelle giornate significa riaprire ferite che non si sono mai chiuse; che, anzi, si riaprono, anche quando le credevamo per sempre rimarginate. Diceva Pietro Nenni, in un momento di sconforto: «L’esperienza non si trasmette».

Questo è il dubbio che ci assilla. È servito a qualcosa, farsi ammazzare per la democrazia? O ad ogni svolta generazionale riaffiorano inevitabilmente le stesse confuse utopie e le stesse pulsioni di violenza, torna a ribollire lo stesso «magma protestatario e ribellistico» - per citare una frase di Casalegno -, un «movimento» che non ha programmi all’infuori di quello di sfogare la sua rabbia confusa, preferendo i miti ai fatti, incapace di mettersi al lavoro per costruire con pazienza e tenacia, nella libertà, un mondo più giusto? Ci rifugiamo nel ricordo di Carlo, della sua pacata ragionevolezza, della sua lucida passione di analista politico.

Carlo non avrebbe dubbi, non ebbe mai dubbi. Voleva, e lo cito di nuovo, «avere le idee più chiare, per capire e per dialogare, o per scontrarsi». Con quell’animo - era il settembre del 1977 - venne un giorno nel mio studio per dirmi: mi piacerebbe andare a Bologna per «coprire» la tre giorni degli extraparlamentari.

Col garbo che gli era innato, chiedeva il mio consenso. Non toccava a lui recarsi come inviato in quella bolgia. Lui era il grande editorialista di politica interna della Stampa, il solo, oltre al direttore, che scriveva i fondi e i corsivi di commento che indicavano al lettore «la linea del giornale».

Andare a Bologna non era, in teoria, compito suo; ed era pericoloso, perché Casalegno era già additato, non solo dagli estremisti, ma anche dagli intellettuali «radicali» di idee confuse quanto chiassose, come un nemico del popolo. Giampaolo Pansa mi raccontò poi che, quando lo vide arrivare al Palasport di Bologna, gli disse: «Carlo, ma sei impazzito? Ti rendi conto dei rischi che corri?».

Mi par di vedere il suo sorriso pacato (quanto era torinese!), nel sentirsi rimproverare dal vecchio amico e collega che si preoccupava per lui. Carlo andò (accompagnando con tutta la sua autorevolezza l’altro inviato, Francesco Santini), perché voleva capire. Tutti noi volevamo allora capire i nostri figli, che avevamo educato nel culto dell’antifascismo e dell’amore per la democrazia, e che inseguivano, per vie diverse, la loro ricerca della verità; col rischio di ripetere antichi errori. Col tempo, li ritrovammo uguali a noi.

Capire non voleva dire giustificare. Carlo scrisse da Bologna pezzi da antologia di giornalismo. Riletti oggi, rivelano scomodi echi di attualità. Erano precisi e lucidi nel resoconto dei fatti, rigorosi e misurati nel giudizio, nella distinzione tra gli intellettuali italiani o francesi che disinvoltamente incitavano alla rivolta (tralasciamo i nomi famosi per carità di patria), e i giovani plagiati che proferivano minacce feroci, o che preparavano violenze e omicidi. Casalegno sostenne la necessità del dialogo «con avversari faziosi e sfuggenti» (non si faceva illusioni), conciliando «l’apertura alle proteste d’una massa giovanile emarginata, con la ferma resistenza alle spinte eversive e anarcoidi».

Non era, non eravamo soli in quella battaglia. Nello stesso giornale, del 23 settembre, in cui pubblicammo il suo primo pezzo da inviato, alla vigilia della «tre giorni del dissenso», pubblicammo anche una lettera a me diretta da Enrico Berlinguer, a chiarimento del significato di un giudizio sugli «autonomi» che lo stesso Berlinguer aveva pronunciato pochi giorni prima in un discorso a Modena. Il segretario del Pci spiegava che non aveva affatto «tacciato di fascisti tutti i movimenti alla sinistra del Pci». Aveva però detto, e lo confermava parola per parola: «Di fronte agli "autonomi", a coloro che concepiscono la lotta politica nelle forme aberranti che ho detto sopra, abbiamo il dovere di essere netti: si tratta di irrazionali ma lucidi organizzatori di un nuovo squadrismo, e non sono definibili con alcun altro termine se non quello di "nuovi fascisti"»; senza cedere alle «indulgenze e debolezze che molti democratici ebbero (verso lo squadrismo fascista), che oggi dovrebbero non essere ripetute».

No, non fu inutile la nuova resistenza di uomini come Carlo Casalegno, che la Resistenza l’avevano già fatta, e che dalle loro idee di giovani democratici antifascisti traevano la loro forza. Carlo si era formato alla scuola di quell’antifascismo torinese degli anni Trenta che il fascismo aveva perseguitato ma non aveva saputo schiacciare. Sconfiggere i «nuovi fascisti» non sarebbe stato, non poteva essere più pericoloso e difficile di quanto fosse stato sconfiggere i fascisti repubblichini. Al comizio di protesta in piazza San Carlo parlai dopo il sindaco comunista di Torino, Diego Novelli, amico e collega giornalista, e facemmo fronte comune.

Se penso agli uomini-chiave che non cedettero e che sconfissero i «nuovi fascisti», non posso non mettere il nome di Casalegno accanto ai nomi di politici che provenivano tutti dall’antifascismo, come Berlinguer o Pajetta, come Zaccagnini, Andreotti e Cossiga, o come Papa Montini, figlio di un deputato popolare antifascista.

Dico anzi che, in quegli anni, i giornalisti italiani, quasi senza eccezioni, a cominciare dai miei amatissimi cronisti della Stampa - faccio per tutti il nome di Clemente Granata - che firmavano ogni giorno cronache precise e pericolose, che non avevano scorta, e le cui mogli ricevevano a casa telefonate di minaccia, diedero una prova altissima di coraggio, di spirito democratico, di senso delle istituzioni, di etica professionale.

Essere giornalista dava maggior garanzia di avere spina dorsale che essere un «intellettuale»: i tradimenti dei «chierici» non furono pochi. Carlo, che era un intellettuale e scrittore «prestato al giornalismo», aveva la forza pacata di un democratico di forti radici azioniste, che, quando aveva dato inizio a una sua rubrica settimanale, negli anni della direzione di Alberto Ronchey, l’aveva intitolata «Il nostro Stato»: lo Stato democratico che era «nostro», lo Stato creato da quella generazione che si era formata alla scuola dell’antifascismo e della Resistenza.

Casalegno come ispettore del Comando piemontese di Giustizia e Libertà, Giovanni Giovannini con i suoi ripetuti tentativi di fuga dal campo di prigionia, Ronchey facendo giornali clandestini a Roma, e così di seguito.

Curiosamente, quella rubrica era il solo «pezzo», in tutto il giornale (non esclusi i fondi del direttore, che facevo sempre rileggere da uno dei colleghi più autorevoli, Casalegno stesso, o Piero Martinotti, o Tino Neirotti, o Luca Bernardelli), che l’autore scriveva e «passava» in tipografia senza che nessun altro lo leggesse: era un privilegio che nessuno gli contestava. Quando i suoi assassini lo denunciarono come «un servo dello Stato» gli resero l’omaggio più alto che meritava. Altro non era, e non voleva essere, che un servitore dello Stato democratico.

Decisero di sparargli alla testa, anziché alle gambe, come poi emerse durante il processo, dopo un suo articolo (un corsivo, taglio basso di prima, intitolato: «Non occorrono leggi nuove, basta applicare quelle che ci sono - Terrorismo e chiusura dei covi»), di cui ho ben chiara e sofferta memoria. L’avevo letto e ovviamente approvato, ennesimo, lucido esempio della «linea del giornale» che in tutto e per tutto condividevamo. Quando mi portarono come ogni sera a casa la prima copia della Stampa, a mezzanotte, mezz’ora dopo che avevo «chiuso» la prima pagina, lo lesse anche mia moglie, e mi aggredì: «Ma insomma, volete o no riprendere la scorta a Carlo?».

L’avevamo sospesa con l’estate, quando i terroristi andavano al mare e per qualche mese smettevano di sparare per fare i bagni, e non l’avevamo ripresa. Ne parlai a Carlo la mattina dopo, mi rispose quasi schermendosi: forse è una buona idea, non per me, sai, ma Dedi si preoccupa. La scorta era la mia (da quasi quattro anni avevo la porta di casa piantonata giorno e notte, e la macchina della polizia al seguito ovunque andassi), e andando alla Stampa, da quando le Br avevano preso a sparare alle gambe ai giornalisti, passavo a prendere ambedue i vicedirettori, Carlo e Neirotti.

Lo proposi anche a Neiro, ma rispose di no, lui allora scriveva di rado, non si considerava in pericolo. Passarono pochi giorni, in cui, per un motivo o per l’altro, come poi avemmo modo di ricostruire, non accadde mai che lo riaccompagnassi a casa per ora di colazione.

Abitava (e ancor oggi la coincidenza mi fa tremare) nello stesso appartamento di corso Umberto, che ben conoscevo, che era stato l’alloggio di mia zia Ida Donati, vedova dello zio Pio, deputato socialista bastonato dagli squadristi e morto in esilio, brava pittrice della scuola di Casorati.

Così venne quella maledetta giornata in cui non volle essere accompagnato, perché aveva altri impegni per cui gli occorreva la sua macchina. Proposi di seguirlo in corteo, ci scherzammo sopra, e poi ce ne andammo ognuno per la sua strada, io con la mia scorta sicuro a casa, lui all’incontro davanti all’ascensore con quei disgraziati che gli spararono alla testa. Sopravvisse per diversi giorni, sembrava un miracolo, si alternavano speranza e disperazione.

Poi la fine. Lo strazio degli amici, del giornale, della città fu grande. Intitolai il fondo che gli dedicai: «Un uomo senza odio». Scrissi, e ripeto quelle parole, perché non ne trovo altre, con l’animo angosciato di allora: «Carlo Casalegno è morto, questa battaglia è stata perduta; nel nostro terribile sconforto, sentendoci tanto più soli, privi di quel forte e sicuro orientamento che veniva dalla lucidità della sua mente, dalla robustezza dei suoi principi, dalla sicurezza del suo giudizio critico, l’istinto ci dice di rifugiarci in una riflessione su quelli che erano i suoi valori. Perché non è stato soltanto ucciso un uomo, un giornalista; è stato spento un lume di ragione, e tutto intorno ci sembra molto più oscuro». È passato un quarto di secolo. Quante volte ci è mancato. Quanto ci manca ancora oggi.

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