Da Messaggero Veneto del 13/10/2006
Moby, navi fantasma la sera della tragedia
L’avvocato: «Ripartiamo dagli scarichi illegali di armi degli americani»
di Emiliano Liuzzi
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LIVORNO. Non è fobia da grande complotto. Più semplicemente la volontà di riesumare il Moby Prince - nome del più grande disastro della marineria civile che porta sulla croce 140 morti e la data del 10 aprile 1991 - dalla voce con cui è stato archiviato: mistero. Riaprire un’inchiesta che non ha mai fornito risposte storiche o processuali su molti aspetti come quello relativo al posizionamento delle navi in rada quella sera, alla dinamica della collisione, alle coordinate del luogo dell’incidente. Quindici anni dopo si discute ancora se c’era o no la nebbia e per il miracolo di quale santo ci fu un superstite.
E’ da qui che la Procura di Livorno potrebbe ripartire con un nuovo fascicolo sulla collisione tra il Moby e l’Agip Abruzzo, da dove il processo celebrato nel 1995 si fermò. E in questo lavoro che i magistrati hanno iniziato potrebbe avere un ruolo importante la contro indagine firmata dall’avvocato Carlo Palermo, incaricato da Luchino e Angelo Chessa, i figli del comandante del traghetto, che ieri ha presentato l’istanza di 125 pagine e della quale Il Tirreno è in possesso. Un «libro nero» dove gli spunti per una nuova indagine (foto satellitari ignorate, documenti scomparsi, testimonianze mai rese) hanno una parziale risposta. Di parte, naturalmente, ma in qualche modo e in alcuni aspetti documentata.
Lo scenario di guerra. Il 10 aprile del 1991 in rada a Livorno «c’erano almeno sette navi militarizzate che lavoravano per il governo degli Stati Uniti», si legge nell’istanza, e «cariche di munizionamenti vari», come scrisse in una nota riservata il tenente colonnello della base di Camp Darby Jan H. Harpole, documento mai allegato agli atti processuali e nel quale parlava solo di due navi Usa. «L’incidente del Moby», secondo l’avvocato Palermo, «ha acceso un faro sui movimenti militari illegali di armamenti da parte degli Stati Uniti. E’ quello che ho ricostruito in un anno e mezzo di lavoro», conclude Palermo, «l’intera movimentazione al porto di Livorno quella sera era gestita dagli Stati Uniti, e anche per questo ci fu un ritardo nei soccorsi: prima le navi dovevano sbarcare e imbarcare gli armamenti che non sappiamo a chi erano destinati e dove. Sicuramente non alla base di Camp Darby, come sarebbe stato naturale, visto che il canale dei Navicelli, unico tratto da cui via mare si può raggiungere la base, rimase chiuso dalle 15.45 del giorno dell’incidente fino alle 9.10 della mattina successiva, come risulta da un documento. Le manovre vennero fatte a Livorno, proprio dal porto in cui il Moby lasciò gli ormeggi con destinazione Olbia». Un dato, dice Palermo, che oltre ad aprire una finestra sulla quale indagare dimostra anche perché il Moby cambiò rotta: aveva davanti uno sbarramento di navi che nessuno aveva comunicato.
La nave in fuga. C’è un particolare, negli accertamenti fatti da Parlermo per conto dei fratelli Chessa: una nave, quella poi individuata come Theresa, che si allontana dalla zona dell’incidente senza comunicare niente. La nave viene segnalata già il pomeriggio del 10 aprile dal radar Enav della Valle Benedetta. Si avvicina al porto a grande velocità. La nave viene segnalata nei tracciati dalle 20 fino alle 22.10, quando scompare dalla vista dei radar, e quindi ricomparire alle 22.45, quando comunica via radio con un’altra nave americana e dice: «Qui Theresa to Ship One (mai identificata) in Livorno: «I’m moving out». Vado via, passo e chiudo. Di questa nave che dovrebbe essere vicinissima al luogo dove la Moby Prince sperona l’Agip, non si saprà mai più nulla.
Testimonianze scomparse. Un particolare, quello della movimentazione di armi, che un testimone dichiarò nel corso del processo del 1995: parliamo del tenente della guardia di finanza Cesare Gentile che la notte dell’incidente partì con un’imbarcazione di servizio, la 5808, alla ricerca della Moby ormai scomparsa da tutti i radar. Gentile in aula parla esplicitamente di aver visto, mentre usciva dal porto, navi americane che caricavano armi in rada. «Gentile fece una relazione di servizio che consegnò ai superiori», dice oggi Palermo, «ma questa relazione è scomparsa nel nulla, qualcuno l’ha sottratta agli atti. Gentile è anche il testimone che disse: era una serata chiara, c’era solo un po’ di foschia, ma non nebbia. Vidi la sagoma dell’Agip Abruzzo appena uscito dal porto, ma non il Moby in fiamme».
Il video tagliato. Secondo un rapporto della polizia scientifica (e che riportiamo nel grafico in questa pagina) del 24 gennaio 1992 dopo l’incidente venne trovata una videocamera al collo di una delle vittime, probabilmente Alessandra Giglio. Quel video, secondo la polizia, sarebbe stato ritrovato e successivamente gettato da uno dei medici legali che eseguiva la composizione delle salme dopo il disastro. Il medico legale, il dottor Gabriele Calcinai, smentisce categoricamente questa circostanza. «Non sapevo di questo rapporto della polizia», dice il medico interpellato a luglio da Palermo, «sono interdetto e allibito dalla semplicità e dalla falsità di queste parole. E’ vero, trovai la videocamera, ma non fui io a estrarre e tagliare la cassetta, io stavo svolgendo un altro lavoro. Consegnai la videocamera così com’era alla polizia». E dunque il video? E’ rimasto tagliato e solo parzialmente utilizzabile.
Le conclusioni. Nelle conclusioni dell’istanza, Palermo parla esplicitamente di «concorso nelle attività illecite di introduzione nel territorio dello Stato di armamenti da guerra in favore di soggetti non individuati, in violazione dei principi costituzionali, della Carta dell’Onu, del patto di alleanza Nato, del patto di non proliferazione degli ordigni nucleari, delle leggi italiane sul controllo delle armi», ma anche di «intenzionale ritardo nell’apprestamento delle misure di soccorso al fine di consentire l’ultimazione delle operazioni». Tutti reati che non sono in prescrizione e potrebbero motivare la Procura a riaprire le indagini. Tanto che il figlio del comandante del Moby, Luchino Chessa, lancia un appello: «Mi auguro che tutti i parenti delle vittime aderiscano alla nostra istanza. I motivi per riaprire l’inchiesta ci sono».
E’ da qui che la Procura di Livorno potrebbe ripartire con un nuovo fascicolo sulla collisione tra il Moby e l’Agip Abruzzo, da dove il processo celebrato nel 1995 si fermò. E in questo lavoro che i magistrati hanno iniziato potrebbe avere un ruolo importante la contro indagine firmata dall’avvocato Carlo Palermo, incaricato da Luchino e Angelo Chessa, i figli del comandante del traghetto, che ieri ha presentato l’istanza di 125 pagine e della quale Il Tirreno è in possesso. Un «libro nero» dove gli spunti per una nuova indagine (foto satellitari ignorate, documenti scomparsi, testimonianze mai rese) hanno una parziale risposta. Di parte, naturalmente, ma in qualche modo e in alcuni aspetti documentata.
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La nave in fuga. C’è un particolare, negli accertamenti fatti da Parlermo per conto dei fratelli Chessa: una nave, quella poi individuata come Theresa, che si allontana dalla zona dell’incidente senza comunicare niente. La nave viene segnalata già il pomeriggio del 10 aprile dal radar Enav della Valle Benedetta. Si avvicina al porto a grande velocità. La nave viene segnalata nei tracciati dalle 20 fino alle 22.10, quando scompare dalla vista dei radar, e quindi ricomparire alle 22.45, quando comunica via radio con un’altra nave americana e dice: «Qui Theresa to Ship One (mai identificata) in Livorno: «I’m moving out». Vado via, passo e chiudo. Di questa nave che dovrebbe essere vicinissima al luogo dove la Moby Prince sperona l’Agip, non si saprà mai più nulla.
Testimonianze scomparse. Un particolare, quello della movimentazione di armi, che un testimone dichiarò nel corso del processo del 1995: parliamo del tenente della guardia di finanza Cesare Gentile che la notte dell’incidente partì con un’imbarcazione di servizio, la 5808, alla ricerca della Moby ormai scomparsa da tutti i radar. Gentile in aula parla esplicitamente di aver visto, mentre usciva dal porto, navi americane che caricavano armi in rada. «Gentile fece una relazione di servizio che consegnò ai superiori», dice oggi Palermo, «ma questa relazione è scomparsa nel nulla, qualcuno l’ha sottratta agli atti. Gentile è anche il testimone che disse: era una serata chiara, c’era solo un po’ di foschia, ma non nebbia. Vidi la sagoma dell’Agip Abruzzo appena uscito dal porto, ma non il Moby in fiamme».
Il video tagliato. Secondo un rapporto della polizia scientifica (e che riportiamo nel grafico in questa pagina) del 24 gennaio 1992 dopo l’incidente venne trovata una videocamera al collo di una delle vittime, probabilmente Alessandra Giglio. Quel video, secondo la polizia, sarebbe stato ritrovato e successivamente gettato da uno dei medici legali che eseguiva la composizione delle salme dopo il disastro. Il medico legale, il dottor Gabriele Calcinai, smentisce categoricamente questa circostanza. «Non sapevo di questo rapporto della polizia», dice il medico interpellato a luglio da Palermo, «sono interdetto e allibito dalla semplicità e dalla falsità di queste parole. E’ vero, trovai la videocamera, ma non fui io a estrarre e tagliare la cassetta, io stavo svolgendo un altro lavoro. Consegnai la videocamera così com’era alla polizia». E dunque il video? E’ rimasto tagliato e solo parzialmente utilizzabile.
Le conclusioni. Nelle conclusioni dell’istanza, Palermo parla esplicitamente di «concorso nelle attività illecite di introduzione nel territorio dello Stato di armamenti da guerra in favore di soggetti non individuati, in violazione dei principi costituzionali, della Carta dell’Onu, del patto di alleanza Nato, del patto di non proliferazione degli ordigni nucleari, delle leggi italiane sul controllo delle armi», ma anche di «intenzionale ritardo nell’apprestamento delle misure di soccorso al fine di consentire l’ultimazione delle operazioni». Tutti reati che non sono in prescrizione e potrebbero motivare la Procura a riaprire le indagini. Tanto che il figlio del comandante del Moby, Luchino Chessa, lancia un appello: «Mi auguro che tutti i parenti delle vittime aderiscano alla nostra istanza. I motivi per riaprire l’inchiesta ci sono».
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Il testo integrale dell'istanza presentata l'11/10/2006 dall'avvocato Carlo Palermo, difensore di parte civile del figlio dell'ammiraglio Chessa, il pilota del traghetto deceduto nella tragedia.
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